E se il tennis non fosse sport così individuale? La sua storia (non solo italiana) ne fa dubitare

Editoriali del Direttore

E se il tennis non fosse sport così individuale? La sua storia (non solo italiana) ne fa dubitare

Da ‘zio’ Bjorn Borg ai ‘nipotini’ Wilander & Co. Dal Wunderkind Boris Becker e Fraulein Forehand Steffi Graf. L’importanza dell’esempio e dell’emulazione. Non è un paradosso credere tutto sia nato dall’exploit di Cecchinato al Roland Garros 2018

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Marco Cecchinato - Roland Garros 2018 (foto via Twitter, @rolandgarros)
 

È certo vero che il tennis è uno sport individuale, che ognuno corre e tira per sé. Ma non può essere un puro caso se ci sono sempre stati periodi nei quali si sviluppano dei veri e propri cicli positivi per i giocatori, o le giocatrici, di una stessa nazione. E, come vedremo, allo stesso modo certi cicli negativi. Tutto ciò anche se il vecchio presidente della FIT, Paolo Galgani, amava ripetere (ed era anche un po’ un alibi): “Il grande campione te lo dà solo il Padreterno!”. Credo di conoscere e prometto di darvi le risposte a questi interrogativi che seguono.

1. È l’esempio di un connazionale vincente, con il quale magari si è giocato alla pari da ragazzini, e con il quale magari hanno avuto l’opportunità di allenarsi scoprendo che è sì forte ma non un SuperUomo, a costituire un incentivo, uno stimolo, sulla falsariga del “se ce l’ha fatta lui a sfondare perché non posso farcela io?”

2. Il tennista oggi è solo come una volta? No, no che non lo è. Ha al fianco un coach, un team che lo sostiene. Fisio, mental coach, medico, massaggiatore, analista strategico. E che cosa fanno i team? Se sono team amici collaborano, scambiano informazioni, crescono insieme. Se non sono amici… si studiano, imparano, crescono. Un giocatore con il suo team ha successo? Se ne prende lo spunto, si imita. E se c’è un buon elemento su cui lavorare il successo dell’uno diventa anche il successo dell’altro. Tutti per uno, uno per tutti, se si è prima amici, fra giocatori, coach, medici, fisio che hanno fato certe esperienze, piuttosto che rivali. Perché scegliere per “nemico” un italiano con il quale è più facile e naturale collaborare, quando i “nemici” di altri Paesi sono già tanti, molti di più?

3. Sono anche i media, giornali, radio, tv, internet, in qualche modo responsabili di alimentare questo entusiasmo e quella consapevolezza nell’offrire inevitabilmente più spazio a chi vince e ad influenzare così positivamente un intero movimento, fino a trascinare – insieme all’opinione pubblica – gli stessi giocatori e i loro coach alle più grandi imprese?

4. I ragazzini nati e cresciuti in quei momenti di entusiasmo e partecipazione nazionale, scelgono il tennis e vi ci si dedicano anima e corpo?

La storia del tennis dice di sì a tutti gli interrogativi di cui sopra. Sia chiaro che non mi riferisco alle epoche in cui al tennis agonistico di vertice competevano poche nazioni elette, cioè a quando – dopo la preistoria del tennis legata principalmente al mito di Wimbledon e poi alle gesta dei Mousquetaires del Roland Garros – nel secondo dopoguerra Stati Uniti e Australia presero a dominare la Coppa Davis anno dopo anno.

Per intendersi più chiaramente non mi riferisco a quegli anni compresi fra il 1950 e il 1967 quando la Coppa Davis era certamente la gara più sentita e di maggior prestigio nel mondo del tennis, più degli Slam, e l’Australia dei vari Sedgman, McGregor, Rose, Rosewall, Hoad, Laver, Newcombe, Roche, Emerson, la conquistò ben 15 volte in 18 anni, con appena tre successi degli USA in 11 finali. Ciò anche se è evidente che il tennis, in Australia come negli Stati Uniti, aveva un seguito e un peso ben diverso da quello odierno… tant’è che i cinque successi consecutivi degli USA fra il 1968 e il 1972, sono avvenuti in anni in cui sono nati i vari Agassi, Courier, Sampras e Chang le cui famiglie, seppure per tre quarti di emigrati, il tennis lo hanno certo scoperto e avvicinato anche grazie a quelle imprese che riempivano i giornali e i palinsesti televisivi insieme alla crescente diffusione e popolarità degli Slam, in primis US Open e Wimbledon, più che il Roland Garros, mentre l’Australian Open era la gamba zoppa dell’ancora traballante tavolino degli Slam.

L’Italia disputò allora, nel ’60 e nel ’61, due storiche finali, e guarda caso – ma non è un caso, è la mia tesi – quattro ragazzini che a quell’epoca erano avevano dieci anni o meno (1949, 1950, 1951 e 1953) sarebbero diventati i nostri quattro moschettieri di Davis, uno il figlio di un custode del tennis Parioli, un altro il figlio di un maestro di tennis di Forte dei Marmi, gli altri due figli di famiglie modeste che del tennis sentirono parlare per le prime volte in quegli anni grazie alle imprese di Pietrangeli, Sirola, Merlo e Gardini.

LA SVEZIA DOPO BORG

Ma spingiamoci oltre. Che succede nei primi anni ’70? Esplode il fenomeno Bjorn Borg, un Beatle con racchetta. La sua popolarità è immensa. Una star. Una Davis vinta quasi da solo, 11 Slam, quando ancora l’erba era erba e non c’era neppure il tempo per passare da due superfici così diverse. Il risultato? Dal clamore suscitato dai successi di Borg, dai media svedesi, un Paese piccolo piccolo di appena 8 milioni di abitanti che non ha quasi campi all’aperto fuori da Bastad, vede le scuole di tennis svedesi pullulare di ragazzini all’alba, prima delle lezioni scolastiche, anche se fa un freddo boia. Sono ragazzini che sognano di diventare Borg.

Guarda caso – ma non è un caso – in quegli stessi anni vengono alla luce Wilander, Nystrom, Sundstrom, Jarryd, Edberg. Tutta gente che arriva fra i top-ten. Anche insieme. Non è un caso. È nato un ciclo positivo. Dall’83 all’89 la Svezia conquisterà altre tre Coppe Davis arrivando a giocare sette finali consecutive. Fino a quando non si ritira Edberg, a fine ’96 quando la Svezia perde a Malmoe la finale con la Francia di Arnaud Boetsch (oggi uomo Rolex) che sotto i miei occhi annulla tre matchpoint consecutivi a Niklas Kulti nel singolare decisivo. Purtroppo i “nipotini” Larsson, Kulti, Gunnarson, Gustafson non hanno il talento, il carisma e il successo degli “zii” e il boom del tennis in Svezia si spegne come una candela. A tutt’oggi non è risorto e che oggi sia un norvegese, Ruud, il miglior tennista scandinavo dice tutto.

I FENOMENI TEDESCHI

A metà degli anni ’80 spunta in Europa un altro fenomeno: Boris Becker, classe ’67. Anzi i fenomeni sono due: c’è anche Steffi Graf, classe ’69. Boris all’inizio degli anni ’90, quando ha già vinto tre Wimbledon, è diventato n.1 del mondo ed è il tedesco più amato e popolare di Germania insieme a Fraulein Forehand, Steffi la Signorina Dritto – il cancelliere Kohl dirà: “Se partecipasse alle elezioni vincerebbe a spasso” – viene battuto nel ’91 da un altro tedesco che al tennis si è avvicinato tardissimo, Michael Stich.

Guarda caso – ma non è un caso – in quegli anni in cui la Germania conquista le sue prime due Coppe davis (in tre finali giocate fra il 1985 e il 1989) nascono e crescono parecchi giocatori tedeschi che diventeranno forti, n.2 del mondo, n.4 e n.6, Haas, Kiefer, Schuettler. In Germania non si accontentano di un numero 2… cresciuto da Bollettieri e più americano che tedesco, e nessuno di loro eccita come a suo tempo Becker. Così da un ciclo certamente positivo, con un gran fiorire di tornei, Monaco, Stoccarda, Francoforte, Hannover, Essen, si passa a quello negativo, con il tennis che perde di interesse nell’attesa di un supercampione che non c’è.

NADAL, LA SPAGNA E IL MOVIMENTO FRANCESE

Tanto che Ion Tiriac, tipo che non perde tempo, prenderà la palla al balzo per trasferire il suo “Masters” tedesco a Madrid dove si costruisce la Caja Magica e dove c’è Rafa Nadal che fa furore e trascina ulteriormente un tennis che – dopo gli anni di Santana e Orantes… anni nei quali sono nati e cresciuti i vari Bruguera, Albert e Carlos Costa, Moya, Ferrero primo trionfatore in una Coppa Davis iberica… ecco un altro caso! – grazie a giocatori che si ispirano a lui pur avendo un paio di anni di più, Lopez, Verdasco, prolungano il ciclo spagnolo al vertice.

Non mi voglio dilungare ancora su questo tema, anche se gli esempi sarebbero mille, studiando i casi del tennis francese post Noah, Forget e Leconte, con tutti i suoi top-ten da Grosjean a Clement, al quartetto che sta “tramontando” adesso (Tsonga, Monfils, Gasquet, Simon), di quello argentino che dopo i Vilas e i Clerc ha visto arrivare ai vertici del tennis mondiale gli Jaite, i Coria, i Gaudio, i del Potro, di quello croato che dopo Ivanisevic ha visto spuntare fior di giocatori, Cilic, Coric, e lasciate che mi fermi qui, altrimenti non finisco più.

IL CASO ITALIANO, DA SCHIAVONE A CECCHINATO

La storia del tennis italiano è del resto una riprova: viene fuori, dopo qualche anno in cui non raccoglie quanto potrebbe, Francesca Schiavone, che a 30 anni diventa campionessa al Roland Garros nel 2010 e finalista nel 2011 (la seconda finale sarebbe quasi un risultato da considerare migliore del primo, ai miei occhi). Anche Silvia Farina era diventata n.11 del mondo intorno ai 30 anni, ma non avendo vinto un Major non aveva fatto il botto. Guarda caso – ma non è un caso! – l’anno dopo il bis di Francesca in finale, ecco che nel 2012 in finale a Parigi ci va Sara Errani, in cui ben pochi credevano. E certo non la federazione, se andate a rileggere le cronache dell’epoca. Lei aveva preferito allenarsi in Spagna, con Pablo Lozano. Ecco che anche Flavia Pennetta si scopre capace di vincere un grande torneo a Indian Wells. E nel 2015 l’US Open, in finale su Roberta Vinci che fino ai 26-27 anni in singolare aveva vinto pochissimo.

Come si spiega se non con quelle risposte che ho dato agli interrogativi all’inizio di questo editoriale? Perché le donne sì e gli uomini assolutamente no? Semplice: perché non c’è stato per 40 anni nessuno che ha trasmesso un messaggio positivo, un italiano capace di andare avanti in uno Slam, di vincere qualcosa di importante. Nel 2018 Marco Cecchinato arriva in semifinale al Roland Garros, 40 anni dopo Barazzutti. Improvvisamente tutti quelli che hanno giocato, e magari battuto Cecchinato, o anche che ci si sono semplicemente allenati, scoprono che il suo exploit è ripetibile. Ce la si può fare. Anche se si è italiani. Con o senza l’aiuto della Federazione. Meglio se l’aiuto c’è, però. E quello arriva, perché finalmente in FIT si accorgono che non conviene combattere i team privati, ma appoggiarli, sostenerli e in cambio di certi risultati finanziarli.

Ed ecco che nel 2019 Fognini, che per 12 anni è stato il migliore dei nostri, ma non ha mai vinto niente di davvero importante, né ha mai fatto troppa strada in uno Slam (un solo quarto di finale in 48 Slam…) e neppure in ottanta Masters 1000 (una sola semifinale e due quarti di finale fino all’aprile 2019), vince il torneo di Montecarlo e poco dopo entra finalmente fra i top-ten. Guarda caso – ma non è un caso – Matteo Berrettini dopo gli ottavi di Wimbledon arriva in semifinale all’US Open e entra a vele spiegate fra i top-ten e alle ATP Finals di Londra. Il Covid rallenta la crescita di tutti, anche se Sinner fa capire di che panni si vesta, primo diciottenne del mondo in classifica e – guarda caso ma non è un caso – ora il primo diciottenne del mondo è Lorenzo Musetti.

Se avete pazienza guardate il video di stamani. Aspettiamo a pensarci padroni del mondo del tennis. Il tennis spagnolo al Roland Garros ha cinque rappresentanti al terzo turno come quello italiano. E il loro n.1 è il favorito del torneo, così come il vincitore del derby Carreno Busta vs Bautista Agut ha già un posto in ottavi dove, proprio contro il vincitore, deve ancora arrivare il nostro n.1 se batterà Altmaier come auspico. Il traguardo dei quarti non è scontato, come per Nadal. Al contempo il fantastico ciclo del tennis femminile italiano sembra essere entrato in crisi. Speriamo che non duri 40 anni come quello maschile. Ma, spero lo abbia capito chi ha avuto la costanza di arrivare in fondo, cicli negativi e cicli positivi non sono un caso. Il tennis è uno sport individuale, ma a rifletterci bene, poi non così tanto. Siete d’accordo?

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