Gli 86 anni di Ken Rosewall. Con Rod Laver sul campo, con me fuori. La sua storia e 100 aneddoti. Se avesse giocato 44 Slam in più...

Editoriali del Direttore

Gli 86 anni di Ken Rosewall. Con Rod Laver sul campo, con me fuori. La sua storia e 100 aneddoti. Se avesse giocato 44 Slam in più…

La sua longevità è perfino superiore a quella di Federer. L’ultimo torneo lo ha vinto a 43 anni. Se gli 80 duelli di Navratilova-Evert e i 56 si Djokovic-Nadal sembrano tanti… Rosewall e Laver sono a quota 164!

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Il 2 novembre è stato il compleanno di un mio mito, Ken Rosewall, 86 anni. Uno dei più grandi campioni di sempre. Non è giusto che quando tutti dissertano, accalorandosi, sul GOAT, si parlì dei tre big di quest’epoca, Federer, Nadal e Djokovic, si citino Tilden, Budge, Laver e Sampras, si trascuri Rosewall… Accade soltanto perché troppi appassionati sono troppo giovani per averlo visto giocare oppure si limitano a leggere quanti Slam ha vinto Tizio e quanti Caio. Ignorando che Rosewall ne ha dovuti saltare ben 44!

È difficile parlare di Ken senza raccontare anche Rod Laver, il suo più grande rivale. Ma alla fine di questo lungo articolo racconterò miei episodi personali vissuti con Ken… anche in tempi piuttosto recenti.

Alla vigilia della finale dell’ultimo Roland Garros ricordo che la si è presentata come il 56mo duello fra Nadal e Djokovic, dicendo che la loro è stata la sfida più ripetuta dell’era moderna. Il bilancio, come sapete, vede Djokovic avanti 29 a 27 a dispetto dell’ultimo match perso. Chris Evert e Martina Navratilova avevano duellato ancora di più, 80 volte e 60 in finale! Martina in 16 anni di battaglie ha vinto 43 volte e perso 37. Io non so proprio quante volte ho incontrato Ken – mi disse Rod Laver il giorno che a Melbourne ribattezzavano il campo centrale con il suo nome – perché allora nessuno le contava, forse solo il tuo amico Rino Tommasi!”.

 

Ebbene fra Tommasi e altri ricercatori ossessivi vi posso dire che la rivalità Evert-Navratilova è roba da ridere a confronto dei duelli affrontati da Laver e Rosewall: sono stati 164! E Laver ne ha vinti 89, perdendone 75. Per condurre questa ricerca si è dovuto ripescare risultati di match giocati a Nairobi, Harare, Knokke le Zoute, Lake Tahoe, Perth, posti dove credo che Evert e Navratilova non si siano mai avventurate. E non è detto che non ne salti fuori ancora qualcuno. Ma come Chris e Martina il ragazzo di campagna Rod e il nativo di Sydney Ken hanno sviluppato una grandissima amicizia e un reciproco grandissimo rispetto…

Le loro carriere sono suddivisibili in tre atti:

1) L’era dei dilettanti conclusa nel 1968

2) L’era dei primi professionisti con Jack Kramer a giro per il mondo come degli zingari. Laver ha vinto 3 Slam in più rispetto a Rosewall, 11 contro 8, ma se Laver ha dovuto saltare – in quanto passato al professionismo e alla troupe di Jack Kramer – 5 anni e 20 Slam, Rosewall ne ha dovuti mancare ben di più, 11 anni e 44 Slam, per essersi ritrovato più a lungo in quello stesso limbo. Quanti ne avrebbe potuti vincere di quei 44 Slam se li avesse potuti giocare? Non avrebbe superato i 20 di Federer e Nadal? Io penso di sì. I giocatori della troupe avevano un contratto annuale, ma da campioni orgogliosi quali erano, non avrebbero mai perso una partita senza impegnarsi al massimo. E sul conto di Laver e Rosewall potevate scommettere che avrebbero sempre fatto di tutto pur di battere una volta in più l’amico rivale.

3) L’Era Open, la cui più grande introduzione fu… il montepremi.

Fino al ’68 potevano vivere con il tennis e grazie al tennis soltanto pochissimi giocatori. I tennisti di… Stato, quelli dell’Est europeo, qualche altro finanziato (pochissimo) dalle rispettive federazioni per via della Coppa Davis (Pietrangeli, Santana, e alcuni di quelli che non erano voluti passare al professionismo per varie ragioni ora troppo lunghe da spiegare). Anche i giocatori della troupe di Kramer dovevano sobbarcarsi trasferte e match, giorno dopo giorno, in posti tutt’altro che comodi e certo senza gli agi dei campioni contemporanei. Rod Laver raccontò una volta del coprifuoco… degli insetti a Khartoum! “Giocammo outdoor fino a che un nugolo di calabroni oscurarono le luci dei riflettori e…per tutti fu buona notte!”. Ma quella notte Laver e Rosewall non giocarono contro, quindi il conto dei loro duelli non ne è stato sfiorato.

Dopo aver aiutato l’Australia a vincere 3 Coppe Davis Rosewall diventò “pro” nel ’56, quando Pancho Gonzales era il n.1 dei tennisti ingaggiati da Kramer. Tanti australiani avevano provato a spodestarlo, Sedgman, Cooper, Hoad, Anderson. Nel ’57 Gonzales batté Rosewall 50 volte perdendoci 26. E l’anno dopo 14 volte perdendone 3. 35 vittorie in più. Grazie al vantaggio accumulato in quei primi due anni (e al 1960: 20 a 5) Pancho alla fine avrebbe potuto vantare 30 successi in più rispetto a Ken: 116 a 86. Ma negli anni ’64 ’66 ’68 ’69 ’70 Ken vinse più di quanto perse. D’altra parte Gonzales era classe 1928, 6 anni più vecchio di Ken e 10 di Rod (che infatti con Gonzales ha un record di 43 vittorie e 22 sconfitte, pur avendoci perso 3 volte su 5 nel ’70 quando Pancho aveva già 42 anni!).

Insomma era inevitabile che Gonzales dovesse lasciare il passo. E Rosewall vinse 14 dei 18 playoff americani per diventarne il successore.È stato lo stesso Rosewall a raccontare: “Nel ’62 alcuni di noi cominciavano a essere vecchiarelli, avevamo bisogno di sangue nuovo e Rod aveva realizzato il Grande Slam nel 62… Io e Hoad contribuimmo a trovare 150.000 dollari per garantirli a Rod per tre anni da professionista”.

“Ammiravo Ken, ma ero più giovane e non l’avevo mai incontrato da dilettante: la prima volta che l’affrontai fu a Sydney, da professionista… e lui fu troppo più bravo di me! ha ricordato Rod Laver. Ken vinse 11 dei primi 13 duelli con Rod nell’inverno americano. Mi chiesi se avessi fatto bene ad aggiungermi alla troupe dei “pro” per ritrovarmi a guidare su quelle strade ghiacciate quando avrei potuto giocare fra i dilettanti nel circuito caraibico con dei bei rimborsi… gonfiati! Però al tempo stesso volevo giocare contro i migliori, e loro, i “pro” erano i migliori” ricorda Rod.

Non furono tempi facili. Nel ’63, l’anno dopo aver vinto lì fra i dilettanti, Laver perse a Forest Hills nella finale Pro 6-4 6-2 6-2 da Rosewall e quel che ricevettero entrambi i finalisti fu… una calda stretta di mano! Non c’era mai vera certezza di riscuotere i soldi promessi… né tantomeno del futuro”.Nel ’67 Wimbledon invitò i “pro” a giocare un torneino un mese dopo i Championships. Laver lo vinse e i dirigenti di Wimbledon capirono che continuare a privare il tennis di quei campioni era una roba tafazziana, un harakiri. E dichiararono così che nel ’68 anche i “pro” sarebbero stati i benvenuti all’All England Club. Ormai Rosewall e Laver erano over 30, tuttavia Rosewall vinse il primo Slam Open a Parigi, battendo Laver. Un anno dopo Laver rovesciò quel risultato, conquistando il secondo Slam di quell’anno in cui li avrebbe vinti tutti e quattro.

Ma le partite più memorabili fra i due, almeno quelle viste da tutto il mondo grazie alla tv e al WCT, furono le finali di Dallas, Quella del ’72 viene considerata una delle partite più belle della storia del tennis: Rosewall la vinse 4-6 6-0 6-3 6-7(3) 7-6(5). Nel tiebreak finale Laver era avanti 5 a 4 e aveva due servizi a disposizione. Giocò due maligni servizi mancini ma Rosewall li controbattè con due splendidi rovesci, il suo marchio di fabbrica, e poi chiuse al primo matchpoint. Il primo premio era 50.000 dollari. Una fortuna per quei tempi. Rosewall aveva 37 anni: Non avrei mai creduto che a 37 anni avrei mai giocato per una somma simile… Pensavo che mi sarei ritrovato semmai a fare il venditore di assicurazioni…”.

Beh, Rosewall ha continuato a giocare e a vincere per diversi ancora. Vinse il suo ultimo titolo a Hong Kong a 43 anni nel 1977. Laver ha concluso la sua serie di successi a 37 anni, vincendo a 37 anni il torneo di Orlando, in Florida. Come ho scritto sopra, i loro duelli erano stati 164, lungo 16 anni. Salvo che ce ne siamo persi qualcuno, lungo “the long winding road” come avrebbero cantato i Beatles. Laver nell’era Open ha battuto Rosewall 22 volte su 31, ma Rosewall vinse l’ultima sfida a Houston. Almeno di questi ultimi dati sono sicuro al 100 per 100.

Certo è che un ragazzino che spulciasse i record di 30 anni di tennis fra gli anni 50 e 80 si chiederebbe: ma quel Rosewall era sempre lo stesso o erano due fratelli come i McEnroe? L’aspetto più stupefacente non è la lunghezza della sua carriera, le finali di Wimbledon giocate a 20 anni di distanza dal Little Master, il Piccolo Maestro di un metro e 70 e solo 40 di piedi. Ma la qualità del suo tennis che gli consentiva nelle giornate di vena di battere chiunque anche a 40 anni. Una longevità conseguente alla purezza tecnica dei suoi gestii. Quel fisico minuto non era mai sotto stress. A 53 anni imbronciato confessò: “Mi sa che mi dovrò operare alla spalla destra, è il mio primo infortunio”. Oggi i tennisti sono tutti rotti già a 25. Certo quel suo debole servizio non assomiglia ai cannonballs di oggi a 230 km orari, ma Rosewall con le racchettine di legno e quel rovescio chirurgico sempre nell’angolo più ingiocabile, a metà anni ’70 rispondeva tranquillamente anche alle battute che già viaggiavano vicino ai 200.

Un altro segreto per una carriera così lunga? Forse Wilma, la fedelissima moglie conosciuta a 14 anni. Con due figli, l’ha seguito ovunque. Proprio come Mirka con Roger Federer. 4 gemelli ma sempre dietro a lui. Senza una super armonia familiare anche per Ken Rosewall sarebbe stato impossibile giocare 30 anni, vincere 8 Slam pur saltandone 55 causa gli undici anni da professionista. Un vero fenomeno.

In mezzo secolo mi è capitato di incontrare parecchie volte Ken Rosewall, campione che non si è mai dato le arie del campione, del personaggio famoso. E tuttavia un idolo per milioni di australiani che sapevano come  nei primi anni di professionismo di Rod Laver fosse quasi sempre Rosewall a spuntarla nei confronti diretti. Ma Rosewall, come del resto Laver, è sempre stato l’uomo del low profile, dell’understatement. Un uomo semplice, di una educazione e umile disponibilità assolutamente straordinarie.

L’ultima vera intervista, lucidissima per un uomo ben oltre gli 80 anni, me l’ha concessa un paio d’anni fa a Wimbledon e se saremo mai capaci di ritrovare l’audio ne metteremo il link qui sotto. Ma sapeste quanto sarebbe profondo il nostro archivio e quanto è difficile ritrovare tutto! Ma l’ultima volta che ci ho riparlato è stata un paio d’anni fa, nella mattina della finale dell’Australian Open vinta da Djokovic su Nadal. Quale segretario onorario dell’International Club d’Italia avevo ricevuto l’onore di un invito al tradizionale pranzo di ogni anno organizzato dall’International Club d’Australia. C’erano un centinaio di persone fra soci, familiari ed ex tennisti e campioni australiani.

Pranzo seduto, posti assegnati al South Yarra Tennis Club di Melbourne, magnifico ed elegantissimo  circolo nel quale era nato e cresciuto il leggendario australiano Norman Brookes, il campione di 3 Slam fra il 1907 e il 1914. Il primo tennista non British a conquistare il titolo di Wimbledon. Di lui campeggiano straordinarie foto d’epoca in diverse sale della grandissima club house. La distribuzione nei vari tavoli era stata fatta per ordine alfabetico, illustrata in un grande pannello. Per via del mio cognome Scanagatta il caso volle che io lo ritrovai scritto proprio fra quello di Rosewall e quello di Sedgman. Quel brocco di Scanagatta scritto fra due campioni capaci di vincere 13 Slam! Roba da non credere. E foto ricordo inevitabile!

Dopo pranzo e dopo una foto di rito, con loro due subito disponibili, simpatici e allegri nel ricordare aneddoti divertenti, con Pietrangeli, Merlo, Sirola, Tacchini e altri. Sapevo che Rosewall di Pietrangeli diceva sempre: “Aveva talmente tanto talento naturale che se fossimo stati tutti confinati per mesi in un’isola deserta senza campi da tennis e poi avessimo giocato un torneo senza allenamento lo avrebbe vinto certamente Nicola”.Me l’ha ripetuto ancora al South Yarra Tennis Club e allora, mentre Sedgman annuiva, gli ho risposto: “Può essere che tu abbia ragione, ma l’avversario di Nicola Pietrangeli in quella finale sarebbe stato certamente Ken Rosewall”.

Ken mi ha raccontato una storia curiosa che aiuta a capire quanto siano cambiati i tempi già fra 70 e 50 anni fa, figurarsi oggi, quando chi vince uno Slam si mette in tasca 3 milioni e mezzo di euro. A metà anni Cinquanta, dopo che aveva già giocato la prima di quattro finali perse a Wimbledon nel ’54 con Jaroslav Drobny, Ken per arrotondare i modestissimi guadagni del tempo pensò bene di vendere le sue racchette, quelle con la sua effigie impressa nel cuore, fra manico e ovale. Si chiamavano Rosewall Slazenger.

Lui le vendeva ai raccattapalle che erano quasi sempre figli dei soci dei club dove si giocavano i tornei e, felicissimi, facevano a gara per conquistarle. Magari me le avessero vendute Roche e Newcombe quando fui loro raccattapalle al CT Firenze! Le racchette di Rosewall sul mercato costavano 35 dollari ma lui le vendeva per 5. Quando Ken vinse le finali WCT a Dallas nel ’71 e nel ’72 battendo Laver in due partite memorabili che hanno fatto la storia del tennis il primo premio era 50.000 dollari. “Eh sì – ha ricordato sorridendo Ken – ci sono voluti 15 anni ma da 5 dollari a 50.000 è stato un gran bel salto”.

Nei primi anni settanta il primo premio dell’US Open, il torneo con il montepremi più ricco, era di 15.000 dollari. Rosewall non aveva certo cominciato a giocare per soldi. Nei suoi primi tornei si sarebbe accontentato di una tazza di thè con i biscotti, di un pranzo. Ken non ha mai cantato, ballato, lanciato frizzi e lazzi, fatto allegri casini come Newcombe o Emerson. Ai miei occhi lui rappresenta forse il più tipico esempio di tennista australiano di quegli anni: così scrupolosamente serio che mi confessò di disertare le sale buie dei cinematografi nel timore di poter sciupare i riflessi.

Eppure non era un tennista che facesse serve&volley come la maggior parte degli altri Canguri con racchetta. Racchetta che spesso lasciava cadere, preda dello scoramento che lo prendeva per un errore che solo lui poteva considerare banale. Quando capitava lo faceva scuotendo la testa con l’aria di una infinita rassegnazione, ma senza mai lanciare un urlo, figurarsi una parolaccia. Nessuno gliene ha mai sentite dire. Non avrebbe mai voluto sbagliare, regalare un punto, ma non avrebbe mai nemmeno rubato un punto che non fosse suo. Il piccolo maestro è stato anche un grande maestro di fair play.

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Editoriali del Direttore

Berrettini e Musetti. È vera crisi? No, ci sono troppi “becchini”. Perché io li difendo. Una fiducia motivata

A 27 anni Matteo Berrettini e a 21 anni Lorenzo Musetti non possono essere vittime di uno “stallo” duraturo. Aliassime, Rublev, Alcaraz, Ruud non hanno regalato i loro duelli. Il computer ATP non è stato manipolato per issarli n.6 e n.18 del mondo. Pioli, Inzaghi e Allegri…

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Lorenzo Musetti (sinistra) e Matteo Berrettini (destra) - Napoli 2022 (foto Riccardo Lolli - Tennis Napoli Cup)

Che Matteo Berrettini e Lorenzo Musetti stiano attraversando un bruttissimo periodo è purtroppo indiscutibile. A me dispiace molto per loro e confido che si riprendano abbastanza presto perché – sic et simpliciter – non mi risulta che abbiano conquistato vittorie e classifica mondiale manipolando avversari e financo il computer dell’ATP.

E’ inevitabile che le loro recenti ripetute sconfitte con avversari assai peggio classificati suscitino critiche e commenti severi. Giudizi che riflettono la delusione di quanti si erano affezionati all’idea complessiva e suggestiva di un vero “Rinascimento” del tennis italiano e si ritrovano invece oggi a potersi rallegrare soltanto per i risultati conseguiti da Jannik  Sinner e, in misura minore, da Lorenzo Sonego.

E’ comprensibile che ciò accada, nondimeno mi dispiace che troppa gente scriva commenti cattivi e gratuiti su Matteo e Lorenzo. Avverto una sorta di sadismo in alcuni, di invidia in altri. Ma forse soprattutto di estrema superficialità.

 

Certo è che quando leggo questo genere di commenti sinceramente mi dispiace sia per loro duesia – in tutta onestà – per chi li scrive perché a mio avviso non fanno bella figura. Mi dispiace – egoisticamente – anche per Ubitennis perché quel tipo di commenti vengono scritti anche qui su questo sito, sebbene non siano censurabili in quanto frutto di libere opinioni.  Anche se non le condivido… non sarebbe infatti giusto cassarle solo perché non sono in sintonia con loro. Però mi piacerebbe invece sempre leggere commenti sereni e obiettivi di lettori intelligenti e come tali equilibrati…Sì, perché vorrei che quest’ultimo genere di commenti, appunto intelligenti ed equilibrati, ispirasse quelli di un numero sempre maggiore di lettori, in modo da fare crescere il livello di discussione e quindi di partecipazione a Ubitennis.

Ho già scritto molte volte che occuparsi di moderare centinaia, migliaia, decine di migliaia di commenti in capo a un anno, è una fatica improba e non solo perché porta via un sacco di tempo. E’ un lavoro complesso che richiede grande attenzione, equilibrio, aspirazione concreta all’oggettività pur nella inevitabile soggettività di ciascun moderatore. Una fatica ingrata che sarà sempre soggetta a critiche, talvolta per una mancata tempestività nella pubblicazione, talvolta per un atto censorio che può apparire discutibile, talvolta per disomogeneità di interventi quasi impossibile da combattere, ma certo mai preconcetta nei confronti di alcuno se questi si sia in genere ben comportato, espresso con toni educati e civili e in tema con l’argomento trattato…

Non è però certo un caso che una gran parte dei siti abbiano rinunciato alla pubblicazione dei commenti dei lettori. Da direttore-editore a me piacerebbe che Ubitennis si affermasse sempre più per un sito che raccoglie pareri e opinioni intelligenti, stimolanti. Non sono tantissimi coloro che commentano, ma sono tantissimi coloro che li leggono.

Dopo questa lunghissima e noiosa premessa vorrei tornare a ribadire in toto la mia fiducia nel prossimo futuro di due ragazzi, Matteo e Lorenzo, che hanno 27 e 21 anni. Con ancora – e proprio per via sia della loro anagrafe, nonché dell’impegno che mettono loro e i loro qualificati team, coach, fisio, mental coach etcetera – tantissimi margini di miglioramento.

Mi picco di essere stato fra coloro che hanno creduto nelle loro qualità quando molti sembravano dubitarne. Non credo di averlo fatto da tifoso.

A differenza di Lorenzo Musetti che già da junior aveva rivelato qualità non comuni, sotto i miei occhi vincendo da sedicenne il torneo junior di Firenze vent’anni dopo un certo Roger Federer su quegli stessi campi e all’incirca alla stessa età prima di laurearsi campione under 18 anche all’Australian Open, Matteo Berrettini nel 2016 _ a 20 anni e 8 mesi – era ancora n.433 ATP.

Era più difficile profetizzare per lui, piuttosto che per Musetti un grande futuro. Un futuro da top-ten. Figurarsi se da top-6.

Fui criticatissimo da molti lettori su questo sito quando, dopo aver visto diversi parecchi duelli fra primavera e autunno 2019 di Matteo – in gran parte vittoriosi ma anche taluni persi con una decina di giocatori  “termometro di ottimo livello” quali Bautista Agut, Zverev, Aliassime, Rublev, Khachanov, Schwartzman, Monfils, Murray, Dimitrov, Nadal e poi Thiem più volte- mi sbilanciai sull’avvenire di Matteo.

Proprio dopo una partita persa di un soffio a Vienna con Thiem, con Dominik sospinto alla vittoria anche dall’entusiasta pubblico di casa, scrissi che secondo me Matteo non era così inferiore all’austriaco che pure aveva già colto importantissimi exploit al Roland Garros, ma aveva a mio avviso il potenziale per diventare a dispetto di quella sconfitta – se non top 3 o top 5 come Thiem era già stato – però uno stabile top-ten.

Oggi che Federer è andato in pensione, che Nadal è uscito dai top-ten dopo 18 anni, che Djokovic si batte contro i vaccini e l’anagrafe, dovrei aver cambiato idea solo perché Matteo ha perso una serie di partite di fila? Non la cambio, anche se ho sempre ammesso che il suo rovescio – salvo che sull’erba – è e resta (nonostante qualche progresso) il più debole rovescio dei top 20, forse dei top 30…anche perché paga anche una mobilità francamente non al livello dei migliori del mondoUna mobilità che lo penalizza in fase di risposta al servizio, e via via quando lo scambio si prolunga, ma quando si è alti un metro e 96 cm e si pesa sugli 85 kg, non è facile da conquistare. Soprattutto nei cambi di direzione e, in difesa, per via del rovescio bimane sul quale tutti cercano di attaccare, si deve superare anche l’handicap di quei 25 cm in meno di allungo. Chi si muove benissimo recupera (già Sonego è un esempio), chi invece non riesce paga dazio.

Ma altrettanto mi sento di dire che il suo servizio resta da top-3 e il suo dritto da top-5, purchè la percentuale di “prime” torni ad essere quella che è stata fra il 2019 e il 2021, purchè il lavoro atletico lo riporti a riconquistare la stessa agilità di quel suo miglior biennio in modo che lui possa riprendere a girare attorno alla palla per colpirla con un furioso dritto dei suoi, ma senza troppo scomporsi. E’ anche fondamentale il ritorno della fiducia, certo. Ma questa torna appena si sistemano quei primi due aspetti appena citati e arrivano i primi inevitabili risultati. Se non si è sofferto per uno straordinario infortunio fisico quale quello patito da Thiem – e forse anche da Zverev – a 27 anni non si può essere finiti.

Io almeno non ci credo, anche se nello sport ne ho viste accadere tante. A parte il caso Bjorno Borg, consumato e prepensionato a 26 anni, anche John McEnroe dopo il magico 1984, dai 26 anni in poi non è più riuscito a giocare come prima. Ma nel suo caso cambiarono le racchette, il tennis subì una profonda trasformazione, diventò molto più potenza che tocco, molto più fisicità che varietà, le battute superarono tutte i 210 km orari e in massa salirono alla ribalta sul circuito oltre a “Robot-Lendl” anche i vari  “BoomBoom” Becker, i “Serve&Volley Edberg prima dei “Corri e Tira” Agassi, Courier, Chang o “Big Big Serve” “Sweet Pete” Sampras e “Mister Ace” Ivanisevic…

Non mi sembra, salvo che per il fenomeno Alcaraz e direi anche per il nostro Sinner – mi auguro! – che si stia profilando una tale irruente ondata di campioni capace di rendere impossibile il rientro di Berrettini fra i top-ten.

LEGGI A PAGINA DUE: Le chance e i meriti di Berrettini, e le critiche immeritate verso Lorenzo Musetti

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Editoriali del Direttore

È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis

Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

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Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.

Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.

Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive –  non avrebbe mai sopportato i refusi.

 

Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.

Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più  disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.

Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.

Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia.  Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.

Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.

Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.

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Australian Open

Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT

I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

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Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.

Clicca QUI per vedere il video completo!

Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.

Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.

 

Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.

Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre  qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.

Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?

A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.

Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.

Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.

Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.

Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.

Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.

Quelle ultime due lettere, A e T,  stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.

Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.

Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.

Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set-  a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizioMai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.

Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.

Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.

Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas. 

Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.

Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.

I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.

Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.

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