Nadal ko: Bercy è stregata. E Federer torna ad allenarsi (Cocchi). Saggezza Sascha (Azzolini). «Tennis, minigonne e pizzi. Le mie vittorie scandalose» (Cutò).

Rassegna stampa

Nadal ko: Bercy è stregata. E Federer torna ad allenarsi (Cocchi). Saggezza Sascha (Azzolini). «Tennis, minigonne e pizzi. Le mie vittorie scandalose» (Cutò).

La rassegna stampa di domenica 8 novembre 2020

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Nadal ko: Bercy è stregata. E Federer torna ad allenarsi (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Non è proprio destino che Rafa Nadal vinca due volte Parigi nella stessa stagione. Tredici volte campione del Roland Garros, record straordinario, mai sul veloce indoor di Parigi Bercy, ultimo Masters 1000 anche in questa stagione complicata e zoppa. Rafa stavolta è inciampato su Sascha Zverev che lo ha piegato in due set 6-4 7-5. Sascha, su cui inizia a vedersi il lavoro fatto con David Ferrer, che lo segue da un paio di mesi, ha centrato la dodicesima vittoria consecutiva (ha vinto i due Atp di Colonia prima di Bercy) e al momento è l’unico che ha battuto due volte su due Rafa nei tornei indoor. Un risultato ancora più stupefacente se si considera la bufera mediatica in cui è stato coinvolto dalla ex fidanzata Olga Sharypova, che lo ha pubblicamente accusato di violenze e abusi. Oggi, a caccia del quarto Masters 1000 in carriera, si troverà di fronte un Daniil Medvedev sempre più ritrovato. Ieri il russo numero 5 al mondo ha superato Milos Raonic. I precedenti tra i due vedono Zverev avanti 5-1. Intanto Roger Federer, fermo da mesi per una doppia operazione al ginocchio destro, ha ripreso ad allenarsi e lo ha annunciato con una foto sui social che lo ritrae in campo e la frase: «Si torna al lavoro».

Saggezza Sascha (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Un’intera stagione a rincorrere la partita intelligente, e alla fine Sascha Zverev l’ha raggiunta, quasi allo scadere del tempo. L’aveva avuta fra le mani allo US Open, nella finale con Thiem, ma qualcosa nei suoi delicatissimi sistemi neuronici era imploso sul più bello, trasformando in coriandoli le certezze faticosamente introdotte nel suo sistema tennistico-immunitario con lunghe flebo di consigli e raccomandazioni tattiche. In quella, dal vantaggio di due set a zero si era “liqueso” come il Toto nella saùna di Gigi Proietti. Un problema serio anche per l’omino di ferro, David Ferrer, l’ultimo della moltitudine di coach (alcuni di rango elevatissimo, come Ivan Lendl), chiamati al capezzale del “predestinato dei predestinati”. E invece, eccola, la partita saggia, quella del riscatto delle sue sinapsi tennistiche sulle quali in troppi cominciavano a nutrire dubbi sacrosanti. Il match che rilancia Sascha come tennista pensante, capace di stupire (noi per primi, lo ammettiamo) per l’arguzia delle scelte effettuate e di mostrare due o tre correttivi al tennis incantevole e superficiale dei mesi scorsi. Ha preso forma nella giornata meno scontata dell’ultimo “Mille” della stagione, e contro l’avversario più intrattabile che vi sia, il numero due (ma numero uno ad honorem con Federer) Rafa Nadal. Solo una tappa, forse, di un lungo cammino vincente che ha preso avvio nel primo torneo di Colonia (vinto su Auger Aliassime), è proseguito nel secondo (conquistato su Schwartzman) per esaltarsi a Parigi Bercy, dove Zverev ha raccolto finora il dodicesimo risultato utile consecutivo e da li minaccia di irrompere da favorito alla 02 Arena londinese, per le Finals. Un set e quattro game perfetti. Altri cinque game di sopravvenuto terrore, che hanno preceduto pero l’imperioso scatto finale. Le novità, tutte firmate dal lavoro certosino condotto da Ferrer, si sono notate in un avanzamento della posizione sul campo fin quasi ad attendere palleggi di Rafa con i piedi sulla riga di fondo, e in uno spostamento in avanti del lancio della palla sul servizio, pochi centimetri appena che permettono a Sascha di spingere meglio e di inclinare di molto la traiettoria. Due accorgimenti che hanno consentito al tedesco di origini russe di sovrastare Nadal nei suoi turni di battuta e di comandare quasi sempre gli scambi da fondo campo, rendendoli produttivi e assai meno faticosi del solito. […] E’ la seconda vittoria di Zverev su Rafa in sette incontri. Il predestinato può tornare a credere in se stesso. Forse… […]

«Tennis, minigonne e pizzi. Le mie vittorie scandalose» (Massimo Cutò, La Nazione)

Niente partita di golf stamattina. Lea Pericoli, la signora del tennis, è una milanese nella zona rossa. Lei che pure non teme né il Covid, né il peso dei suoi 85 anni, compiuti il 22 marzo, all’inizio del lockdown. «Mi costa stare rintanata e rinunciare al golf, il mio secondo amore», spiega. Il primo, ovviamente, è la racchetta. Signora, ha passato la vita a inseguire palline? «Nella mia esistenza precedente sarò stata un cane. Ho iniziato ad Addis Abeba su un campo in terra, nel giardino di una villa inglese. Ero una bambina: quel gioco mi folgorò. Eravamo in Etiopia perché quando avevo due anni, io e mamma Iole ci imbarcammo sul Conte Rosso per raggiungere mio padre Filippo. Fece fortuna con una ditta di import. Poi scoppiò la guerra, arrivarono gli inglesi e venne internato. Perdemmo tutto. Ma era un abile uomo d’affari, il Negus lo graziò e lui si rimise in sella. Diventammo di nuovo ricchi e di nuovo poveri: la costante della mia famiglia. Io non capivo nulla dell’Africa. Però ero una sportiva: andavo a cavallo e facevo hockey su prato. Non mi piaceva perdere e a tennis invece perdevo: avevo solo avversari adulti. Uno in particolare, un avvocato che si chiamava Kernot. Finita la partita mi nascondevo in un angolo e piangevo per ore. Inconsolabile. Lo rividi trent’anni dopo al Foro Italico. Bussò la guardarobiera: un signore inglese vuole salutarla. Era lui. Gli rivelai quanto mi avesse fatto soffrire da piccola. Le ferite le porto ancora dentro: per me conta vincere e basta».

Ha vinto tantissimo: 27 titoli italiani, record assoluto. Non è abbastanza?

Ero una buona giocatrice, non una campionessa. Sono stata fra le prime 16 del mondo. Ho battuto cinque vincitrici di Slam, tre volte negli ottavi a Wimbledon, quattro volte al Roland Garros, la semifinale del ’67 a Roma. Tutto da autodidatta, il mio tennis era istintivo e selvaggio.

Sui campi è diventata subito un mito. Per bravura e bellezza…

Ho sempre tenuto molto al mio aspetto. Anche adesso, se non sono truccata e con i capelli a posto resto a casa.

La chiamavano Divina come Suzanne Lenglen, la più grande di sempre. Chi le diede quell’appellativo?

E’ stato Gardini. Fausto mi iscrisse di nascosto alle selezioni di Miss Italia a Cortina: vinsi ma la piantai lì, alla finale mi avrebbero stracciata. E io, come ho spiegato, non gradisco perdere.

Si consolò diventando Miss Tennis?

Accadde a Wimbledon nel ’55. Avevo vent’anni e incontrai lo stilista Ted Tinling, un ex colonnello alto, calvo e gay. Fu lui a lanciarmi. Le donne giocavano con gonne lunghe al ginocchio, l’idea diffusa era che fossero muscolose. Arrivai io in lamè e mutandine di tulle e fu l’inferno: paparazzi e pubblico impazzito attorno al court. In quel circo persi la concentrazione e la partita. Me ne andai piangendo. Fu uno scandalo. Mio padre era furioso: hai chiuso con il tennis, intimò. Aprì la gabbia dopo due anni. E lì ricominciai: sottanine rosa, piume di cigno, un gonnellino di visone. In un torneo africano avevo un vestito dorato e mutandine tempestate di brillanti. Quei completi sono esposti al Victoria e Albert Museum di Londra, simbolo di eleganza nello sport. In nome di tutte le donne.

Femminilità batte femminismo?

Negli anni ’70 l’onda femminista irruppe nel tennis. Ci fu la sfida fra Bobby Riggs, campione ultracinquantenne, e Billie Jean King che era ai vertici delle classifiche. Passò alla storia come la battaglia dei sessi, la donna contro il vecchio maiale sciovinista. Vinse lei. Non mi sono riconosciuta in quel movimento, troppo fanatismo. La guerra all’uomo è ridicola: la differenza di genere esiste, e menomale. È così bello farsi coccolare, sentirsi protette e amate dal maschio. L’uomo dev’essere cavaliere e la donna va conquistata.

Ha conosciuto molti cavalieri?

Uno su tutti: Nicola Pietrangeli. È l’uomo più affascinante che abbia mai incontrato. Ma talmente pigro che la sua biografia l’ho scritta io. Fra noi non è mai successo niente, siamo stati complici e confidenti. Abbiamo giocato poco il misto assieme perché faceva il galante con le avversarie e rimproverava me: Lea, come puoi sbagliare una palla così. A volte mi chiede: perché non ti ho sposata? La mia risposta è: io avevo sempre un altro, tu almeno altre due.

Lei si è ritirata nel 1975 a 40 anni vincendo tre titoli italiani: perché disse basta?

Il tennis è stato un grande amore. E i grandi amori vanno lasciati prima che diventino vecchi mariti.

Nel 1973 ha vinto la partita più difficile.

Campionessa d’Italia sei mesi dopo l’operazione per un carcinoma all’utero. E nel 2012 ho superato un tumore al seno. Il professor Veronesi mi disse: la tua battaglia pubblica vale cento conferenze.

Come si sente a 85 anni?

Bene, memoria a parte. Semino bigliettini per casa e faccio un gran casino ma così dimentico anche i dolori passati. Guardo avanti, sono innamorata della vita: mi seccherà lasciarla, il più tardi possibile.

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