Iga Swiatek ha aperto il proprio cuore attraverso una lettera commovente, che vi farà scoprire i lati nascosti che si celano dietro l’immagine di campionessa del tennis e numero 1 del ranking femminile, realizzata di proprio pugno per la piattaforma multimediale The Player’s Tribune che, fondata nel 2014 dall’ex giocatore della Major League Baseball Derek Jeter, pubblica conversazioni sportive quotidiane e storie di atleti professionisti con la peculiarità rappresentata dal fatto che sono i protagonisti stessi a tessere le parole dei loro scritti. Un viaggio nel profondo animo della 21enne polacca, dal quale emergono le sue difficoltà a relazionarsi in età giovanile, l’intenso rapporto con il padre, le pressioni a cui un’atleta professionista deve sottostare, ma anche – fra gli altri aspetti – la reazione avuta al momento del ritiro di Ash Barty – della quale ha parlato anche in occasione della conferenza stampa pre-torneo dell’Australian Open 2023.
Sono una persona introversa, e soprattutto provengo da un posto dal quale nessuno mai si sarebbe aspettato che io potessi avere successo nel tennis. Quantomeno finora era difficile da prevedere. Dopo la mia prima vittoria al Roland Garros, da subito in Francia mi sembrò che le cose fossero rimaste normali. Ma quando sono tornata in Polonia? Beh, lì è stato davvero diverso.
La mia famiglia è stata invitata ad una cerimonia di premiazione al Palazzo Presidenziale. Questo avvenimento accadde esattamente tre giorni dopo la finale di Parigi. In quell’occasione mi onorarono di una medaglia, e nel tragitto per giungere a destinazione fummo addirittura seguiti dai paparazzi. Io e i miei familiari viviamo fuori Varsavia e sorprendentemente loro ci stavano aspettando davanti casa con le telecamere.
Ci ritrovammo così in auto io, mio padre alla guida ed un addetto della sicurezza. Ebbi la sensazione che stessimo andando veramente veloci, sfrecciando accanto ai negozi che vedevo così sfocati. Mio padre controllava continuamente gli specchietti retrovisori per vedere se ci stessero inseguendo e per depistarli cambiava direzione all’ultimo ad ogni incrocio. Sembrava la scena di un film americano, da una parte spaventosa ma dall’altra ci siamo divertiti ridendo costantemente per tutto il percorso che ci ha condotti in città.
Anche adesso, parlare di questi aspetti è per me molto strano. Di solito non è un classico modo polacco di comportarsi, quello di parlare apertamente dei propri successi. Ma onestamente devo ammettere che penso molto a ciò che accadde quel giorno, in quei momenti vissuti in macchina c’è stato tutto quel concentrato di adrenalina.
Pura adrenalina: solo così posso provare a spiegare cosa ho provato mentre vivevo quegli attimi. Niente avrebbe potuto preparami a quel tipo di sensazioni. Vincere il mio primo Slam, ovviamente ha rappresentato un cambiamento totale per me dall’oggi al domani. Di sicuro, ci sono ancora località del mondo in cui non verrei riconosciuta. Potranno esserci delle situazioni nelle quali, chi mi guarderà non dirà ‘Oh, lei è un’atleta, lei gioca a tennis’. Ma questa evenienza è altrettanto certo che mai accadrebbe in Polonia. Addirittura, lì ci sono state situazioni in cui sono stata riconosciuta soltanto dalla voce.
Sono grata di tutto questo, ma sinceramente delle volte mi appare tutto molto strano e disorientante.
Quando vinco, e sono ancora in campo, anche solo vedere una mia foto mi provoca tanta emozione. Perché sinceramente, per quanto possa risultare surreale, non mi interessa così tanto mostrarmi sui cartelloni pubblicitari o altre cose del genere.
Tuttavia devo ammettere che è molto divertente osservare il modo in cui i ricordi prendano forma, poiché quando ci penso… quando mi riaffiora il ricordo del primo successo al Roland Garros e quell’avventura in auto di tre giorni dopo; i mie pensieri non si concentrano sulle follie di quelle giornate o sulla medaglia ricevuta durante la cerimonia o ancora sui paparazzi che ci inseguivano. Il ricordo più limpido riguarda mio padre alla guida, io che lo guardo e vedo sul suo viso un grande sorriso.
Lui ha sempre creduto in me, anche prima di me. Il ché lo rende un grande papà o semplicemente un pazzo. Potreste facilmente immaginare quante notti da bambina io abbia passato rimanendo sveglia per tutto il tempo sognando di diventare una grande tennista, ma invece non è stato così. La verità è che di notte sognavo di potermi sentire più naturale nelle situazioni e nelle relazioni sociali.
Ci sono stati periodi della mia vita in cui ero talmente introversa che anche semplicemente parlare con altre persone rappresentava per me una grande sfida da affrontare. Fino a 18 anni, per me è stato estremamente difficile guardare le altre persone negli occhi. Odiavo questa difficoltà nel relazionarmi con gli altri. Sembrava che non fossi in grado di creare dei collegamenti con gli altri individui, ma quando mi trovavo di fronte ad alcune persone in particolare avvertivo una sensazione di vuoto nella mia mente che mi portava a non sapere cosa dire. Chiacchierare per me non era una cosa naturale.
La mia storia non è come quella di altri atleti, e va bene così.
Anche in campo, non sono stata quel tipo di ragazza che si innamora all’istante della racchetta. Quando ascolto storie di altri atleti che invece vanno in questa direzione, io penso tra me e me: “un bambino può davvero sentire questo tipo di sentimento?”. Per me non è stato così. Sicuramente fin da subito mi piaceva molto giocare, ma non sognavo di poter diventare una tennista professionista.
Al contrario è sempre stato il sogno di mio padre. Ha sempre voluto che le sue figlie facessero sport, che facessero attività fisica e magari che un giorno potessero diventare delle atlete. Ricordo che quando avevo dieci anni, all’epoca ero un pochino più estroversa come tutti i bambini, preferivo dopo la scuola restare a giocare a calcio con gli altri bambini piuttosto che andare a fare gli allenamenti di tennis. Allora a quel punto, mio padre veniva a cercarmi a scuola e mi gridava: “Igaaaa, vieni qui!!!”.
Ci sono stati dei momenti in cui non volevo spingermi nel tennis oltre una certa soglia e così ho fatto. Ma lui era sempre lì, non ha mai smesso di credere in me. Mi ha insegnato come avere disciplina per poter essere una professionista. Sono stati degli insegnamenti che non solo ho usato e continuo ad utilizzare nello sport, ma anche nella vita. Non è stato un padre estremamente duro. Tuttavia era molto severo riguardo alla routine di allenamenti che dovevo rispettare, e ripensando a quei momenti non posso che ritenermi molto grata. Mio padre è stata quella ricorrente voce nella mia testa che mi indirizzava nella giusta direzione.
Ricordo però perfettamente quando è scattata la mia scintilla con il tennis. Avevo 15 anni e stavo per partecipare al mio primo Slam juniores, era il Roland Garros e tutto stava per trasformarsi in realtà. L’aspetto che in quella circostanza mi stupì di più, fu il modo in cui durante le due settimane del torneo la città viveva il tennis. Tutti festeggiavano a Parigi. Ma soprattutto mi sorprese la qualità dell’accoglienza prevista per gli atleti, non l’avevo mai sperimentata prima. Dove mi sono allenata in Polonia, quando ero adolescente non avevamo nemmeno i riscaldamenti al chiuso negli allenamenti dopo la scuola. Ci allenavamo al coperto con tre gradi.
Mentre in quell’occasione, la location a Parigi era enorme e bellissima. I campi in terra battuta perfetti di un rosso acceso, riga dopo riga la perfezione. Era meraviglioso, in particolare, sentire quell’incredibile ed inconfondibile suono delle terra mentre la calpestavi con i piedi e ti accingevi a colpire la palla. Quando iniziai a giocare, a provare il campo avevo la nette percezione che la palla andasse sempre esattamente dove avrei voluto. Mi colpì tanto, perché non capita spesso di vivere – specie quando sei ad inizio carriera – sensazioni del genere. Poi quel primo Roland Garros Junior fu veramente speciale, non solo per via dell’impianto, del luogo o dell’atmosfera ma anche perché mi trovai circondata da tutti i più grandi campioni del nostro sport… vedere Nadal, Serena e tanti altri dal vivo, sul posto ed essere così vicina a loro… è stato strabiliante. Lasciai Parigi pensando unicamente a come avrei potuto lavorare di più per migliorarmi ancora.
Nonostante quell’esperienza, comunque, non ho mai realmente pensato di essere in grado o di avere la possibilità di vincere un torneo del Grande Slam e diventare numero uno del mondo, perché provenendo da un Paese che non custodisce una lunga tradizione tennistica era per me assolutamente impossibile. Credo che se fossi stata americana, avrei creduto in me stessa molto di più e fin da giovanissima poiché avrei potuto contare su un elenco così lungo di giocatrici del passato che ce l’avevano fatta, e di conseguenza avrei avuto a disposizione numerosi modelli da poter seguire. Avrei avuto un solido sistema alle spalle da poter mettere in atto con efficacia e coerenza e dunque questo avrebbe reso sensati i miei sogni. Mentre se osservavo quante donne polacche fossero riuscite a diventare delle giocatrici professionistiche, vedevo che l’unica a farcela era stata Agnieszka Radwanska e perciò vien da sé che pensai che per me fosse irrealizzabile.
È stato infatti molto divertente, quando alla fine del 2021 ho iniziato a lavorare con il mio attuale allenatore Tomasz e lui mi disse che l’obbiettivo era diventare numero uno WTA entra un anno. Io risposi ‘sì ok, certo’. Sicuramente fu molto stimolante, ma pensai che fosse il classico discorso degli allenatori dei film di Hollywood. Ad esempio per poter vincere uno Slam c’è bisogno che accadano svariati avvenimenti, e non hai la sensazione che tutto passi soltanto dalle tue mani.
Tornado alle mie radici, la Polonia non ha ancora a disposizione – come gli Stati Uniti – quel sistema sul quale basarsi per costruire e formare nuovi atleti. Sinceramente le condizioni non sono per nulla ottimali per i giocatori, non ci sono i fondi economici necessari. Crescendo non ho avuto sempre un posto dove poter giocare, quindi mio padre spesso e volentieri si è dovuto adattare e non è stato facile per lui dover investire così tanti soldi per permettermi un allenatore ed un campo dove allenarmi. Quella parte del mio rapporto con il tennis è sicuramente la più difficile da far riemergere e da condividere apertamente ma voglio essere onesta.
Quando ripenso a quel periodo e a mi padre, ricordo perfettamente di come tutto non fosse pienamente “liscio”. Lui ha sempre cercato di proteggermi da quella che era la realtà esterna al tennis. Fu un vogatore olimpico e penso che il suo principale obbiettivo sin dall’inizio, quando notò per la prima volta il mio talento e quello di mia sorella, fosse quello di renderci delle atlete migliori di quanto non fosse stato lui. Fondamentalmente ha dedicato tutta la sua esistenza per aiutarci a compiere questo obbiettivo. Non l’ha mai detto apertamente, ma è facile da intuire osservando i suoi comportamenti.
Ha sempre mostrato molto pudore nel condividere con gli altri le sue emozioni. Una cosa, tra l’altro, quella di aprirsi poco abbastanza riscontrabile in tutti i polacchi della sua generazione. Poi soprattutto da padre, credo che non sia facile parlarne con la propria figlia perché vuoi mostrarti forte e privo di preoccupazioni. Ma sono sicura che le sue emozioni siano ancora lì, a quel tempo il denaro era veramente poco quindi non deve essere stato assolutamente facile per lui. Non abbiamo mai avuto una conversazione a stampo emotivo, ma ho sempre percepito come si sentisse e quanto credesse in me.
Ricordo però quando lo chiamai appena seppi che Ash [Barty, ndr] aveva deciso di ritirarsi.
Era marzo, avevo un appartamento a Miami per il WTA 1000 perché nei sei mesi precedenti avevo soggiornato in Hotel. In quel momento mi trovavo con la mia psicologa e lei mi disse quello che aveva appena saputo. All’inizio non avevo compreso, poi le domandai: “Ma come è possibile?”. Infine iniziai a piangere.
Dopo essermi lentamente ripresa, vivevo in un certo stato confusionale perché non sapevo cosa sarebbe accaduto. Io era stata n. 2 del mondo per soli tre giorni. Così presi il telefono e chiamai mio padre in Polonia, svegliandolo nel cuore della notte. Di solito non lo chiamo mai, ci sentiamo via messaggio. Per questo vedendo la chiamata si preoccupò, pensando fosse successo qualcosa di brutto. Tuttavia sembrava così assonnato, che secondo me non ha elaborato del tutto la situazione. Appena ha saputo della notizia, mi ha risposto con un tono di voce che lasciava trasparire un sentimento del tipo: “Bene, fantastico”. Io invece non riuscivo a smettere di singhiozzare e di piangere. Onestamente però quel mio stato d’animo, nulla aveva a che fare con il mio potenziale avanzamento in classifica. Può sembrare alquanto strano, ma invece ero rimasta talmente turbata e scioccata dal fatto che Ash si ritirasse a 25 anni.
Perché avevo sempre avuto nella mia mente, come immagine, quella di ritirarsi a 32 anni quando il tuo corpo non ce la fa più. Inoltre, poi, non riuscivo a crederci poiché Ash aveva indubbiamente il miglior tennis in circolazione. Non potevo semplicemente resettare, dimenticare e andare avanti. Anche perché non sapevo se fosse felice della scelta compiuta. Poi, tuttavia, vedendo il video che aveva pubblicato su Instagram ho capito tutto.
Ed ora comprendo ancora di più la sua decisione.
Ogni anno avverto, in modo diverso, quanto sia dura la vita in Tour. Hai molti obblighi a cui devi adempiere e devi imparare la strategia migliore per bilanciare questo con il lavoro sul campo che devi svolgere. Realizzi, quindi, che il tuo compito non è soltanto quello di “mettere la palla in quella determinata porzione di campo”. Diventa tutto più complicato man mano che vai avanti, a volte ti accorgi che sinceramente è meno divertente rispetto al passato. E’ complesso mostrare ogni volta lo spirito fanciullesco che hai dentro la mente o in corpo.
Perché ci sono le aspettative: avere la sensazione di aver giocato bene e sapere che devi continuare ad esprimerti a quel livello, senza errori.
Dopo aver rivinto il Roland Garros lo scorso anno, pensavo che dopo avrei potuto giocare senza pressione. Invece a Toronto e a Cincinnati ho compreso come sia molto difficile essere la numero uno del mondo, poiché ogni giocatrice vuole batterti. E questo le porta a giocare contro di te, il loro miglior tennis.
Ho sempre lottato con la mia sensazione interna di dover necessariamente fare tutto correttamente per l’intera durata di un match. E questo poi ti costringe a provare la stessa sensazione anche nella vita di tutti i giorni, dove avverti la percezione di dover svolgere il tuo compito molto bene sino alla fine. Ad esempio quando pulisco casa, sento che sto sprecando tante energie ma non voglio fermarmi perché voglio completare il mio compito perfettamente. In pratica non mi fermo mai, se non sento di aver dato abbastanza. A volte devo sforzarmi per sentirmi orgogliosa di me stessa.
Ma dall’altra parte sono altrettanto consapevole che dover svolgere tutto nel migliore die modi, è anche la strada vincente che mi ha portato fino a questo punto della mia vita; nonostante sia molto difficile da perseguire e ci sia l’opzione che diventi autodistruttiva.
Portando un ulteriore esempio su questo aspetto, quando ho trionfato per la prima volta a Parigi pensavo di non aver dimostrato abbastanza. Mi sentivo come se mi fosse successo per caso, di vincere il RG, come se mi fossi trovata al posto giusto nel momento giusto e giocando bene in qualche modo era accaduto. Quindi approcciandomi alla stagione 2021 volevo ulteriormente mettermi alla prova e questo mi ha portato a vivere fin da inizio anno momenti davvero terribili. A Parigi volevo giocare come l’anno precedente, ma le condizioni erano totalmente diverse perché arrivai al torneo senza aver disputato alcun match nei due mesi antecedenti e dunque sprovvista di fiducia. Inoltre per la prima volta nella mia carriera, avevo stipulato un contratto con un grande sponsor e ho sentito questa ennesima pressione sulle mie spalle. Anche perché non aver ripetuto quanto di eccezionale avevo fatto nel 2020, ottenendo nuovamente quello che avrei voluto, ha rappresentato una forte delusione per me. Era un qualcosa su cui dovevo lavorare, ma anche imparare a conviverci.
Le cose sono poi cambiate con l’Australian Open, anche se il vero grande spartiacque dove ho lottato con me stessa come mai prima si è consumato in estate durante le Olimpiadi di Tokyo. Ho pianto in campo dopo aver perso in due set e avevo la sensazione che le persone mi stessero giudicando. Poi sono volata in Messico, a Guadalajara, ma ero esausta mentalmente e fisicamente. Non sapevo davvero cosa fare, mi sono sentita impotente in campo e sono scoppiata in lacrime nuovamente. Ero preoccupata di come le persone mi avrebbero visto, se si sarebbero vergognate di me e se avrebbero pensato che una campionessa non può comportarsi in quel modo.
Penso che sia per questo, che quando ho saputo di Ash sono affiorate in me così tante emozioni contrastanti. Ci sono delle idee che abbiamo di noi come giocatrici, che ci provengono dalla considerazione che hanno di noi i nostri genitori, i media che identificano in alcune caratteristiche imprescindibili come deve essere fatto e come deve comportarsi un atleta. Ma quando ho visto Ash mostrarci una possibilità diversa, che si può scegliere un percorso differente, mi sono sentita sollevata. Perché quanto stai vivendo un viaggio del genere in cui combatti per l’eccellenza, a volte puoi anche dire: “Va bene, basta”. Sei tu l’autista dell’auto, sei tu e solo tu che controlli la direzione intrapresa.
Per cui a volte, la soluzione migliore per risolvere questo problema è fregarsene. Onestamente so che può sembrare inopportuno agli occhi di molti, ma se esiste qualche tipo di segreto del mio successo nell’ultimo anno è quello di auto-concedermi la libertà di non preoccuparmi di quello che possa pensare la gente. Questo è ciò che veramente mi ha portato a vincere un secondo torneo del Grande Slam e poi un terzo. Questo è ciò che veramente mi ha portato a diventare la numero uno del mondo. Lasciar andare. Quando ora ho dei momenti di insicurezza, sapete come agisco.
Adesso ho 21 anni e anche se mi sento ancora più introversa rispetto al passato, per me rimane ancora piuttosto difficile aprirmi. Tuttavia ho imparato che per certi versi è ancora più difficile nascondere le proprie emozioni.
In realtà, in tal senso mio padre è un ottimo esempio.
Non molti sapevano di questo lato spiccatamente sensibile di mio padre, fino a prima che scrivessi questa lettera. Non mostra quasi mai le sue emozioni per le questioni importanti. Mentre piange a dirotto durante i film e penso quindi che questo lo abbia ereditato da lui. Lo scorso anno è stato un anno molto difficile, per questo ho deciso di realizzare un video stupido che poi ho condiviso su Twitter dove ho ricreato la scena del “Il Re Leone”, nella quale Mufasa mostra a Simba il loro regno. Il doppiatore polacco di Mufasa ha fatto il video con me. Io volevo fare soltanto qualcosa di speciale e diverso per festeggiare. Nella scena in questione dice ad un certo punto a Simba: “un giorno sarà tutto tuo”, ma lo ha fatto dicendo il mio nome. Quando l’ho mostrato a mio padre, ha cominciato immediatamente a piangere.
Sono rimasta particolarmente toccata, non mi sarei mai aspettata che avrebbe reagito in quel modo. Uno della sua generazione, che mostra in quel modo le sue emozioni. In quel momento ha capito ancora di più quanto valesse per lui il fatto che io avessi avuto successo nel tennis così come nella vita, perdipiù rimanendo sempre durante l’intero percorso al mio fianco. Non sapevo cosa dire in quel frangente, ma penso che nessuno dei due avesse bisogno di sentirsi dire qualcosa.
Quando ripenso a tutto quello che ho passato, apprezzo ancora di più quello che ho ottenuto. Io e mio padre possiamo essere orgogliosi reciprocamente. Non so ancora se vorrò essere famosa dappertutto, ovunque, se vorrò essere una star globale ma sono entusiasta anche solo di poterlo sognare.
Continua così.