L’ex russa Rybakina e la bielorussa Sabalenka, che finale (Federica Cocchi. La Gazzetta dello Sport)
Una corre per il secondo Slam, quello della consacrazione, l’altra per sollevare finalmente il trofeo che cambia la carriera. Elena Rybakina e Aryna Sabalenka saranno le protagoniste della finale femminile degli Australian Open, domani a Melbourne alle 9.30 del mattino italiano. Rybakina ha sconfitto Vika Azarenka, tornata in semifinale a Melbourne Park 10 anni dopo l’ultima volta, per 7-6(4) 6-2; Sabalenka ha infranto il sogno di Magda Linette imponendosi 7-6(1) 6-2. Rybakina è nata russa ma ha scelto i soldi e le strutture del Kazakistan. È proprio grazie al cambio di nazionalità che la giocatrice di 23 anni ha potuto partecipare, e quindi vincere, Wimbledon. Un trionfo che ha fatto scalpore, una russa di nascita che vince nell’anno in cui dall’erba più famosa al mondo erano banditi i russi e i bielorussi. Niente punti, pochi sorrisi, anche quando ha ricevuto il grande piatto della vittoria dalla principessa Kate. Una campionessa Slam fuori dalle prime 20 al mondo e alla quale, a Melbourne, avevano rifilato uno dei campi secondari, stuzzicando la sua voglia di rivalsa, sempre seguendo il mito di Roger Federer: «Per me è sempre stato un esempio, mentre a livello femminile non ne ho». Davanti si troverà una Aryna Sabalenka finalmente più concreta e consapevole, che ha saputo superare i momenti di difficoltà nel match contro la sorpresa polacca Linette: «Ho smesso di lavorare con lo psicologo – ha spiegato la bielorussa – perché penso che nessuno meglio di me stessa possa risolvere miei problemi. Si tratta anche di sapersi prendere delle responsabilità, quindi adesso sono io la mia psicologa». Aryna non ha visto vincere Rybakina a Londra. Esclusa dal torneo, ha preferito non guardarlo per non soffrire: «Non ho guardato Wimbledon lo scorso anno, mi sentivo troppo male. Da tempo penso di essere pronta per vincere uno Slam, e chi lo sa, magari sarei la prima atleta senza bandiera a riuscirci».
Papà Djokovic diventa un caso (Ronald Giammò, Corriere dello Sport)
Nonostante figurino ancora privi di bandiera e sigla ad accompagnare i loro nomi, in questi Australian Open sono stati ben tre – tra singolare maschile e femminile – i giocatori russi e bielorussi riusciti ad approdare fino alle semifinali. La quarta, Elena Rybakina, nata moscovita, naturalizzata kazaka e vincitrice in due set contro Vika Azarenka, domani si giocherà il titolo contro la bielorussa Sabalenka, che con un identico parziale ha battuto ieri la polacca Linette. Nessuna bandiera bielorussa comunque sventolerà sugli spalti, così come ammainate sono annunciate nella notte quelle russe dei sostenitori di Karen Khachanov opposto a Tsitsipas nella prima semifinale maschile. Il divieto era arrivato a torneo in corso, e a causarlo era stata proprio una bandiera russa. Comparsa a bordo campo durante diversi match dei primi turni, l’episodio più eclatante si era registrato durante la partita tra la russa Rakhimova e l’ucraina Baindl, tanto da scatenare la pronta reazione dell’ambasciatore ucraino in Australia che ne condannò la presenta sollecitando tennis Australia a inasprire le sue linee di condotta in materia di neutralità. Mercoledì sera si è invece registrato un secondo episodio, andato in scena nella cornice di Melbourne Park poche ore dopo la vittoria ai quarti di Novak Djokovic contro Tommy Paul. Un gruppo di tifosi russi, una “Z” bene in vista sulla maglia di uno di loro si è infatti radunato sventolando bandiere e intonando cori in sostegno di Vladimir Putin. Tra questi, in un video divenuto in breve virale, spunta anche il papà del serbo, Srdjan, che dapprincipio si unisce alla compagnia salvo poi congedarsene salutandola in serbo con un «lunga vita ai russi». La replica da parte degli organizzatori del torneo è arrivata poco dopo. Un portavoce, se condo quanto riportato dal quotidiano “TheAge”, ha dichiarato che «giocatori e team erano stati informati sulle linee guida da adottare durante il torneo». La falla, però, è evidente, e più delle rassicurazioni offerte da Tennis Australia, che ha poi informato «di aver espulso un piccolo gruppo di persone che sfoggiavano bandiere e simboli inappropriati e che avevano minacciato alcuni steward nel corso del match di mercoledì sera», saranno ora le ripercussioni di quanto accaduto a catalizzare l’attenzione di questi ultimi giorni di torneo. […]
La bottiglia di Tommy (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Pollice verso, e faccette a iosa, stralunate, perplesse, altre ancora disgustate. Ai tempi del web la strada per il successo è lastricata di emoticon, e Tommy Paul, forse, non se l’aspettava. Non ora, alle porte di una semifinale Slam contro Djokovic, la prima di una carriera che sembra aver imboccato la strada giusta. Ha qualcosa da nascondere? Niente di così grave, ma Tommy non ha intenzione di finire nel tritatutto per qualche peccato di gioventù, e prova a fare le barricate. «Ogni esperienza passata ha avuto una parte nel farmi diventare il giocatore e l’uomo che sono», dice l’americano che rimpiange gli anni trascorsi lontano dal college, «mi avrebbero reso più maturo e istruito, e certo mi avrebbero difeso di più». Ma è tempo di scavare nella sua vita. Ed è stata proprio la semifinale raggiunta a porre il suo nome sotto i riflettori. Che cosa è successo negli anni trascorsi a cercare di diventare un tennista di valore? E perché non c’è riuscito in tempi più brevi? Che cosa l’ha frenato? La risposta è in una parola, alcool, ma occorre inquadrare come si è manifestato il problema, e anche come è stato superato e poi allontanato del tutto dalla sua vita attuale, altrimenti c’è il rischio di attribuirgli oggi le colpe di ieri, e si farebbe un torto alla verità. I flashback riportano a sette armi fa. Tommy ha diciotto anni, e ha già deciso di diventare un tennista professionista. E a quella decisione, la prima importante della sua vita, che si aggrappa per non cadere in depressione. in campo non riesce a fare ciò che negli allenamenti gli viene senza sforzo, e si sente trascurato dalla USTA, la federazione statunitense. Mai una wild card per misurarsi in un torneo di livello. Le danno ad altri, a lui niente. C’è la strada delle qualificazioni, gli rispondono, è quella che ti serve per crescere. Ma nelle qualificazioni livello è alto, e Tommy le subisce come una punizione. È il 2017 quando finalmente ottiene un invito agli US Open, ha una discreta classifica (159) e si è dato da fare nei challenger per meritarla Un buon sorteggio gli pone di fronte Taro Daniel, giapponese di stanza negli States, numero 151. Il match è una corrida, Tommy va avanti due set a uno e crolla, Taro gli sbatte la porta in faccia con un duplice 62 nel terzo e quarto set Il sogno di aprire una nuova fase della carriera svanisce, la realtà invece gli resta appiccicata addosso, ed è dolorosa. Tommy si ritrova davanti a una bottiglia. Esagera. La mattina è iscritto al primo turno del doppio con Steve Johnson, mancano dieci minuti al via e lui non c’è. È ancora a letto, e quando riescono a entrare nella sua stanza il perché è lampante. Lo svegliano e lo trascinano in campo. Dall’altra parte ci sono Fognini e Bolelli, e non c’è partita. Finisce 6-0 6-0. Il giudizio della USTA è duro, e va dritto nel profilo del giocatore. «Il ragazzo soffre di un’accentuata sensibilità all’alcool». Fine dei sogni? No, ma c’è voluto tempo. Tanta gavetta e tanti infortuni, tennis elbow, poi un problema al quadricipite. Otto mesi di stop tra il 2016 e il 2019. Tommy mette a frutto le soste forzate, decide di provarci ancora. L’alcool è solo un ricordo. Il 2020 è l’anno delle qualificazioni. Il 2021 quello dell’ingresso nei primi cento. Che la carriera abbia inizio, finalmente… È la prima volta che incontra Djokovic. La regola da seguire è quella di non strafare, di non farsi prendere dalla smania di firmare l’impresa. I colpi ci sono, sarà il campo a dire se riusciranno a penetrare le difese del serbo. Ottimo servizio, dritto pesante, Tommy Paul è giocatore riflessivo, sa cogliere il momento per tentare qualche utile variazione. Ma l’altro è l’ultimo dei campioni della vecchia classe dirigente e ha una risposta per tutto. «E’ un match da vivere al meglio, senza particolari angosce. Voglio godermi ogni minuto del confronto contro un avversario fenomenale. Me lo sono guadagnato, in fondo». […] Djokovic non ha problemi, ha trovato la forma migliore, i guai muscolari sono un ricordo e gli ultimi due incontri sono stati esenti da errori. I problemi gli vengono dai familiari, dal padre Srdjan nella fattispecie. Le foto con i russi che inneggiano a Putin e alla guerra, con le “zeta” sulle magliette e sulle bandiere (la polizia è intervenuta, ma sono riusciti ugualmente a farsi sentire) stanno facendo il giro del web. «Lunga vita ai russi», sembra sia stato il suo saluto. È putiniano, papà Djokovic, e non avevamo eccessivi dubbi che lo fosse. Ma è sicuro di aver fatto bene a metterlo in piazza? Il figlio frequenta uno spogliatoio dove i tennisti ucraini non mancano, e dove tutti – i russi per primi – sono schierati per la pace. Nole la pensa come il padre? Da ieri il dubbio è legittimo.