Challengers, film dal palato tennistico

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Challengers, film dal palato tennistico

Recensione del film del momento: Luca Guadagnino alla regia crea un contesto tennistico convincente, per una storia che lascia il segno

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In queste circostanze la premessa è d’uopo: non siamo critici cinematografici, non ci arroghiamo nessun diritto a voler descrivere con gli occhi esperti del giudicante, chi svolge questo mestiere. Vi raccontiamo il nostro punto di vista, da amanti del cinema (laici), da ammiratori del gioco del tennis e di tutto ciò che ne specifica il contorno. Dopo questa doverosa premessa possiamo, maggiormente a cuor leggere, provare a dare il nostro punto di vista su quello che è, senza dubbio alcuno, il film del momento, con la regia di Luca Guadagnino: Challengers (uscito nei cinema italiani il 24 aprile, dopo la première italiana a Roma dell’8 aprile).

E lo faremo, non tanto dal punto di vista della storia dei tre personaggi, quanto dal punto di vista tennistico, ambiente fondante all’interno del quale di muovono i protagonisti della storia. Perché questo? Fondamentalmente per il motivo espresso in apertura e poi perché nel racconto di un film o meglio, nel racconto delle sensazioni che ti regala la storia di un film è troppo facile scadere nel più proverbiale degli spoiler. Quelli bravi ci riescono, ma non siamo tra quelli.

Realismo tennistico con calendario e prize money

Quindi, la domanda è: dal punto di vista tennistico il film ha un senso? La risposta è: decisamente sì. Sì, perché la storia di Art Donaldson (al secolo Mike Faist), sei volte campione Slam (due Australian Open, due Roland Garros e due Wimbledon) è la storia di un giocatore che si trova in un momento di grande difficoltà di risultati, subito dopo esser stato eliminato da Montreal, prima di Cincinnati e prima dello US Open, unico Slam a mancargli, sceglie insieme alla moglie manager, Tashi Duncan, interpretata da Zendaya, di giocare il Challenger, del fantomatico New Rochelle, per ritrovare punti, ma soprattutto abitudine alla vittoria. Il film gira attorno alla finale del torneo che si disputa tra lo stesso Art Donaldson, superstar mondiale e Patrick Zweig (Josh O’Connor), il terzo componente del triangolo tennistico. Art e Patrick sono amici per la vita, o amici per il tennis che poi nella logica del film, è la stessa cosa, hanno condiviso tutto, fin dalla vittoria nel 2006 del torneo di doppio juniores allo Us Open. Una coppia che poi verrà travolta dal ciclone Tashi Duncan, anche lei campionessa nella stessa edizione juniores dello Slam americano. 

Ovviamente i riferimenti tennistici sono tanti e si capisce che dietro c’è un grande lavoro di conoscenza della materia. In primis partendo proprio dalla logica di andare a giocare un challenger per ritrovarsi o per ripartire (Matteo B. docet); qui ci permettiamo, quello che potremmo definire un appunto e non una vera e propria critica. Per chi legge probabilmente tutto è piuttosto scontato: l’importanza di un Masters 1000 come Montreal (in realtà non dichiarato ufficialmente ma che si capisce durante il racconto), l’importanza di uno Slam e il concetto di Challenger, tutti temi che per un pubblico meno avvezzo ai concetti tennistici potrebbero non essere facilmente subito interpretabili anche perché il film non ha una linea temporale netta, ma segue un processo continuo di rimandi al passato per tornare al presente.

Così come non è facilmente interpretabile per chi non mastica la materia, capire il motivo per cui uno dei due tennisti esegue il servizio esclusivamente con il movimento del braccio e non con il movimento completo che vuole il braccio forte roteare per poi eseguire il caricamento. Ovviamente nel film questo assume un significato particolare, che non staremo qui a raccontarvi per non anticipare nulla di quella che è la storia. Ma tutto ciò è davvero solo un appunto, non una critica. Per il bene del racconto meglio uno sbilanciamento verso il dettaglio approfondito che l’approssimazione.

Riferimenti “casuali”… tra Challenger e Federer

Altro punto di attenzione che merita un plauso è il racconto al grande pubblico della condizione di estrema indigenza economica che vivono i tennisti lontano dai primi 100 del mondo. Patrick Zweig, come detto, galleggia tra il numero 200 e il 250, si trova a giocare i Challenger per sopravvivere, raccontando il perché di un divario di stile di vita, così netto tra i top classificati e tutto il resto del mondo, dove con top si indica, nel racconto del film, tutti quelli che hanno la possibilità di accedere agli Slam, senza dover passare attraverso le forche caudine dei tornei di qualificazione, che comunque per molti rappresentano un punto di arrivo per ottenere quel minimo di sostentamento economico di cui sopra. 

Senza volervi annoiarvi troppo e con sempre più concreto il rischio di raccontarvi qualcosa che possa anticipare il racconto della storia tra i tre personaggi e l’intrecciarsi del tennis e della vita, ci sentiamo di consigliarvi la visione del film; la storia appassiona, i concetti tennistici sono ben espressi…insomma, due ore ben spese. Vi chiederete, come ci siamo chiesti anche noi, se ci possa essere un riferimento a qualche giocatore: sciogliamo subito i dubbi e vi anticipiamo che no, non ci è venuto in mente nessuno, nessuna storia reale da cui prendere ispirazione. In realtà, ma solo dal punto di vista del product placement, Art Donaldson è, nella sua prima parte di carriera, brandizzato Nike e Wilson, per poi, nella fase finale della stessa, sfoggiare Uniqlo come outfit, On ai piedi e Wilson in mano: vi ricorda qualcuno? Ecco, quel qualcuno ci è venuto in mente solo per questo motivo. Nessun altro.

Una cosa ve la anticipiamo: il finale non arriva subito. Probabilmente può anche essere soggetto ad interpretazioni varie, ma è coerente con la storia. E anche quest’ultimo aspetto, non è banale. 

@thecharlesgram

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