Ci sono date che nel calendario non hanno bisogno di essere cerchiate in rosso, perché si stagliano da sole. Il 3 giugno, per chi ama il tennis, è una di queste: è il giorno in cui è nato Rafael Nadal Parera, ma forse, peccando di presunzione didascalica, potremmo dire che è il giorno in cui è nato il Roland Garros stesso nella sua forma moderna, nella sua forma più pura e mitologica. Quello che ha scolpito sulla terra rossa, su quella terra rossa, Nadal, è uno dei (se non IL…) record più incredibile che uno sportivo abbia mai realizzato. Per intenderci: sapete qual è il record al Tour de France di edizioni vinte? Il record è di cinque vittorie (CINQUE) ottenute da Eddy Merckx, Jacques Anquetil, Bernard Hinault e Miguel Indurain. Questo dato dà la misura del contesto in cui ci si muove, paragonandolo con qualcosa di simile. Oggi Rafa compie 39 anni e ancora una volta il destino – o più semplicemente il calendario – ha voluto che il suo compleanno cadesse proprio a Parigi, dove da quasi due decenni si svolge il romanzo della sua vita. È o no un segno del destino?
Quest’anno, però, c’è stata un’eccezione. Rafa non era in campo. O meglio, non era nel tabellone, ma il campo centrale, quel Philippe Chatrier che porta il nome di un aviatore, batte al ritmo del suo cuore e ha risuonato forte il suo nome, ancora e ancora. Perché quest’anno il Roland Garros ha voluto restituire un po’ di quell’amore incondizionato ricevuto. E lo ha fatto con una cerimonia degna di un re, o meglio, di un re che non ha mai voluto esserlo.
Il tributo di una terra conquistata col rispetto
Quel giorno, quello del saluto definitivo Parigi ha pianto e sorriso, come si fa con gli amori impossibili da spiegare. Quattordici titoli, quattordici coppe sollevate con quella che potrebbe sembrare timidezza, ma che invece è pudore emozionale, che non ha mai conosciuto ostentazione, con quella gratitudine che solo i grandi uomini sanno restituire ai luoghi che li hanno consacrati.
Una cerimonia intensa, sobria e maestosa, come il suo tennis nei giorni di grazia. Tutti lì a rendergli onore: vecchi compagni di battaglia, il pubblico francese che lo ha vissuto con distacco all’inizio e poi amato con quella passione che solo i parigini sanno nutrire verso chi li conquista con l’anima, oltre che con il talento. C’era la sua famiglia, sempre discreta ma onnipresente. Il padre, la madre, la sorella, la moglie Xisca. E il piccolo Rafael Junior, che ha già negli occhi quella luce speciale che racconta di un cognome importante ma anche di una libertà che solo un padre come Rafa saprà garantire.
Il ragazzo di Manacor che ha insegnato il coraggio
Perché prima di essere un tennista, Nadal è stato, e rimane, un ragazzo di Manacor. Un isolano, abituato al vento che soffia deciso e alle radici che tengono saldo l’animo anche nelle tempeste. Il talento, certo, è stato immenso, ma ciò che ha fatto la differenza è stato tutto il resto: la capacità di soffrire, la resilienza nei momenti più bui, quella testardaggine quasi epica che lo ha spinto a scendere in campo anche quando il corpo chiedeva tregua. Chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare con le ginocchia fasciate, i piedi martoriati, i muscoli urlanti, sa bene che Nadal è andato oltre lo sport, diventando esempio e simbolo di una volontà che non conosce resa.
Mai una parola fuori posto, mai un lamento gratuito, mai un’esibizione di sé che non fosse funzionale al rispetto del gioco e dell’avversario, ed è anche per questo che ha detto basta. La sua aura meritava rispetto. Rafa doveva difendere Nadal dal declino di ultimi anni non all’altezza della leggenda che è stata. In un’epoca in cui l’ego spesso travolge ogni cosa, Rafa ha saputo restare uomo, mettendo da parte la voglia di continuare a raggiungere vittorie e successi, provando a placare il demone della fame di vittoria che solo i grandi agonisti hanno. Una fame che può schiacciare e togliere la lucidità a chi invece ha sempre fatto la scelta giusta, praticamente sempre. Giusto è stato dire addio.
Il compleanno più dolce, senza bisogno di candeline
Compie 39 anni, Rafael Nadal, e questa volta le candeline le ha spente senza racchetta in mano. Non c’era un match da vincere, un trofeo da inseguire. Eppure, forse, è uno dei compleanni più intensi della sua vita, perché ha potuto guardarsi indietro, non con nostalgia, ma con fierezza, perché ha potuto stringere tra le mani non una coppa, ma un’onda di amore autentico.
E chissà se, tra i corridoi del Philippe Chatrier, ha sentito ancora il profumo dell’argilla bagnata, dei pomeriggi infiniti sotto il sole di giugno, degli applausi a scroscio dopo una diagonale di dritto che sfidava la fisica. Perché in fondo il tempo può passare, ma certe cose restano e Rafa, a Parigi, resterà sempre, scolpito su quella placca in marmo, alla fine della rete, tra le postazioni dei raccattapalle che, stanchi magari dopo un continuo scattare, guarderanno quell’impronta, capendo il valore del sacrificio funzionale alla vittoria.
Buon compleanno, Rafael Nadal. Buon compleanno a te, che ci hai insegnato a non avere paura del dolore, a credere nella fatica, a lottare anche quando sembra impossibile. Il tennis ti ringrazia. E anche noi, che non potremo mai dimenticare ciò che è stato fatto quella terra rossa che cancella ogni impronta del passato, ma lascerà la tua nel presente, proiettandola nel futuro.