Qualche settimana fa, durante lo US Open, vi avevamo raccontato dell’intervento del direttore Ubaldo Scanagatta durante la Mostra d’arte cinematografica di Venezia nella presentazione del libro “Lo spettacolo del tennis 1980-1990“. Il volume, pubblicato postumo, raccoglie gli articoli più belli scritti da Serge Daney nei suoi anni da inviato, soprattutto al Roland Garros.
Daney era un critico cinematografico francese, una penna molto raffinata che aveva stretti legami anche con il grande Gianni Clerici. Anche il direttore ha avuto modo di conoscerlo a Parigi, non a caso ha firmato lui la recensione del libro (Editore Book Time in libreria da fine settembre 20,00 euro). Per rendere l’idea della tipologia di scritto e dello stile di Daney, alleghiamo, in seguito alla recensione completa di Scanagatta, alcuni dei passaggi più belli dell’opera, che racconta le partite più epiche e indimenticabili. A modo suo, unico.
La recensione di Ubaldo Scanagatta
Ho conosciuto Serge Daney. Al Roland Garros. Dove con quel suo insolito inseparabile cappellino e quel modo elegante, strano, di vestire e parlare, originale ma senza spocchia, finiva per spiccare fra tanti colleghi apparendo non meno inconfondibile di un mio adorato Maestro, Gianni Clerici, sì colui che Italo Calvino definì “uno scrittore prestato allo sport”.
Clerici era stato un ottimo tennista e fra un colpo di racchetta e uno di tastiera sull’inseparabile Olivetti 22 aveva subito rivelato uno straordinario talento di scrittore già a 20 anni, la stessa età in cui Serge Daney avrebbe cominciato -e per 30 anni, fino alla sua morte dovuta all’AIDS nel 1992 – a imporsi come il critico cinematografico e televisivo probabilmente più noto del panorama francese.
Il talento è un dono che non ha età. E che si può esprimere nei campi più disparati. Anche quelli di tennis che Daney approcciò con lo stesso trasporto, la stessa passione critica nutrita per l’amato cinema, scrivendo su Liberation con un’originalità e una freschezza che ho riscoperto solo oggi – confesso che durante gli Internazionali di Francia io leggevo l’Equipe – ne “Lo spettacolo del tennis”, il libro che raccoglie le sue cronache tennistiche, veri elzeviri mai banali scritti nel decennio 1980-1990, quando anch’io celebravo l’era della rivalità ormai sullo stendere fra il SuperBrat McEnroe e l’Orso Vichingo Borg pronto alla baby pensione, ma con l’irriducibile Jimbo Connors che non voleva mollare, con Frankenstein Lendl deciso ad addentare chiunque gli si parasse davanti, con i due arrembanti rivali Boom Boom Becker e l’Agnolo Biondo Stefanello Edberg, i Next-Gen di allora. Subito prima, insomma, che spuntasse all’orizzonte il formidabile quartetto di emigranti made in USA, Sampras, Agassi, Courier e Chang.
Come Clerici è e resterà sempre attuale, e scommetterei che con Daney lo Scriba non può non aver vissuto corrispondenza di amorosi sensi, Serge dipinge come un artista innamorato la battaglia finale del 1980 a Wimbledon fra Borg e McEnroe come “Le Bellezze della Ragion Pura”, fustiga come il critico più implacabile fin dal titolo (“Finale Tsè-Tsé al Roland Garros”) quella del 1982 che anch’io ricordo fra le più noiose della storia, fitta di scambi interminabili con le palle che fluttuavano costantemente un metro e più sopra il net fra i due arrotini Vilas e Wilander e in mezzo ai fischi degli spettatori più reattivi in quanto meno insonnoliti sotto quel sole cocente. Daney nello scegliere i teatri e gli attori del suo personale spettacolo tennistico non si occupa solo delle prime donne, delle star, ma volutamente un giorno dedica la sua magica penna a “La Battaglia degli Sconosciuti” due comprimari del più debole dei quarti di finale del 1983, il francese Roger Vasselin contro lo spagnolo Luna e stavolta la penna è più mite, meno sferzante, più comprensiva. Non si può essere tutti super campioni, se uomini. E Roger Vasselin impersona, proprio come in un film, il soggetto dello sconosciuto che riesce a far emergere la star che nessuno sospettava fosse in lui finchè ne esce una grande vittoria e un bel film. La penna ritorna feroce per Vilas-Higueras, due inguaribili “pallettari” che, scrive impietoso Daney: “Hanno depresso anche il Meteo” al punto che “dopo mezz’ora di partita soporifera il cielo ha sprigionato la sua prima pioggia sul torneo. L’ombra di due campioni e una caricatura del tennis”.
Un artista non può non provare ammirazione per gli altri artisti e se Daney è artista della penna, McEnroe è artista della racchetta come ce ne sono stati pochissimi – lui e Federer più di tutti? – ma anche McEnroe ha bisogno di rivali alla sua altezza per disseppellire la miglior ispirazione…così quando nella finale di Wimbledon 1983 batte l’ ”Imbucato Kiwi” Chris Lewis 6-2,6-2,6-2 il titolo dell’articolo di Daney è: “McEnroe ha imparato ad annoiarsi”…e prosegue con “L’americano ha dimostrato di…sapersi accontentare di qualsiasi avversario per vincere”. C’è bisogno di spiegare il concetto? Perfino il per solito irrefrenabile, esplosivo Genius SuperMac se davanti a sé non ha un vero avversario si annoia e si placa. Nessuno show. Ironia a sfare sul tennis francese che produce buoni tennisti ma senza che esista una vera scuola: “Riflettori accesi sulle nostre pantere rosa. L’ispettore Clouseau dirige le indagini…nessun scuola di tennis francese, ma i nostri eroi rinascono ogni anno.”
E’ un titolo del 1984. E qui un po’ di Monsieur Chauvin, dal quale per solito Daney rifugge, c’è nel nostro scrittore perché un anno prima il Roland Garros è stato vinto da Yannick Noah (ultimo campione a vincere a Parigi facendo serve&volley) e lui e gli altri mousquetaires con racchetta, Henri Riton Leconte (di cui nel 1988 descriverà il suo essere “Tennista intermittente” sotto altra frustata “Fallimento e scacco Mats” perché a batterlo in finale sarà appunto Mats…Wilander) e Guy Forget sono più diversi fra loro, come tennisti, uomini e personaggi, che di più non si può. Tutto si può dir di loro fuorchè siano frutto di una stessa scuola. I loro exploit contemporanei quasi appaiono inspiegabili. Ma Daney gode ugualmente, da appassionato qual è.
Per ripercorrere un centinaio di articoli magistrali, di titoli fuor dalle righe (“Partite del giorno a fettine” mi ha ricordato il clericiano “Agenzia di Palle Roventi”, ma Lendl che perde da Wilander nel 1985 ed è “L’ipnotista intrappolato” come si fa a ignorarlo?) dovrei scrivere qui un libro. Beh, molto meglio leggere questo, ben più originale, di Serge Daney, con tanti spunti tecnici e di vera classe. Il mio lo leggerete un’altra volta, se avrete voglia e pazienza. Buona lettura.
Daney su Wilander-Vilas, Roland Garros 1982
Caldo e sfinimento ieri nella finale del Roland Garros. Il pubblico, venuto per abbronzarsi, si è cotto. Gli appassionati di serve and volley hanno pianto di delusione. I coccodrilli hanno strizzato gli occhi dalla gioia. Avevano ragione: la brava gente ha riscoperto ieri pomeriggio la vecchia arte della terra battuta, ribattuta e ribattuta ancora, prima dell’invenzione del tie-break, prima della TV, prima del tennis moderno.
Perché in fin dei conti, un muro non incontra mai un altro muro, ma due muri possono rompersi uno davanti all’altro, sotto l’azione congiunta del sole e delle grida del pubblico. Alla fine il muro rimasto in piedi ha vinto. Il muro Wilander per esempio. Perché non era un mistero: Vilas e Wilander non hanno nulla da dirsi. Tennisticamente parlando, intendo. Non pensavamo tuttavia che alcuni punti potessero durare quasi tre minuti e 90 scambi (novanta!). È un modo un po’ lento per far sapere all’altro che non si ha nulla da dirgli. Da tempo non vedevamo partite in cui la pallina non producesse a tal punto lo stupido effetto di un jokari¹ da spiaggia. Quelle palle alte e lente, caricate di effetto lift e di tutto l’odio rientrato nel mondo (viva il furore d’odio, viva il gioco piatto, viva Connors!) hanno letteralmente sfinito i giocatori. E poiché non si sono mai allontanati da questo copione in cui si ribattevano la palla come una mosca tse-tse, le conseguenze della Partita sono ben rappresentate dal punteggio ul terreno, tanto l’ipnotismo aveva sopraffatto tutti. La partita sarebbe potuta essere sconvolgente, invece è stata solo strana.
Daney su McEnroe-Noah, Coppa Davis 1982
Il destino ha avuto buon fiuto. Scegliendo Noah e McEnroe per la partita di apertura di questa finale di Coppa Davis, condannando la folla a un secondo match in notturna e regalandoci una di quelle partite indimenticabili. Ci sono volute quattro ore per separare Big Mac e il nostro Yannick nazionale e se, sulla carta, la vittoria dell’americano (malgrado una stagione un po’ debole) sembrava logica, il punteggio ci dice che non è stato affatto così. La parti-ta è stata così irregolare che coloro che erano venuti per urlare, gracchiare o comportarsi male hanno finito per essere presi, anche loro, in contropiede e a “entrare” normalmente in una partita poco normale. Vittoria del tennis sulle cattive intenzioni del suo nuovis-simo pubblico: una cosa molto buona, insomma. C’è da dire che il match ha avuto l’andamento di un sogno complicato con false inversioni e momenti allucinati. Volevamo sognare (la vittoria di Noah) e abbiamo sognato anche più del previsto. Prima di tutto dobbiamo ringraziare la vecchia Coppa Davis e il suo austero regolamento che rifiuta l’indeciso tie-break, lascia giocare fino all’usura (anche su questa superficie veloce), limita i tempi morti di gioco e ridà onore ai punteggi stupefacenti del tennis “all’antica”.
Daney su Navratilova-Mandlikova, Roland Garros 1982
Supponiamo che il campo del Roland Garros sia diventato una palude in cui un vecchio coccodrillo (Vilas) stia per mangiarne un altro (Higueras, il feroce) e poi un altro (Clerc o ancora Wilander, il più giovane dei rettili). Ammettiamo che la noia sia all’orizzon-te, che il brio sia scomparso, che il pathos sia assente. Che cosa rimane? Sperare che dal lato femminile vada un po’ meglio. Delle donne, delle adolescenti, delle ragazze. Sperare che il tabellone delle semifinali mantenga le sue promesse. Due assi americani della difesa: Evert-Lloyd e Jaeger, e due assi, made in Cecoslovacchia, dell’attacco: Mandlíková e l’ex apolide, ora americana Martina Navrátilová. Speranza più che disattesa, ci tengo a dirlo.
Peccato. Perché l’open del Roland Garros inizia a contare nel circuito femminile. Perché il pubblico parigino ha finito per farsi convincere che il tennis femminile di alto livello sia almeno inte-ressante (anche se meno spettacolare) quanto il tennis maschile. Perché il centrale era più che degnamente pieno ieri sera. Perché anche secondo Navrátilová, le giocatrici sono accolte meglio a Parigi che a Wimbledon, per esempio […]