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Indian Wells

Ellison sogna il ritorno di Serena

Dopo il successo del 2001, le sorelle Williams, oggetto di pesanti insulti durante la finale tra Serena e la Clijsters, disertano il premier mandatory californiano. Il nuovo direttore del torneo, Larry Ellison, vuol farle tornare. Alessandro Mastroluca

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Era il 1998 quando “Fortune” teorizzava il “Jordan Effect” secondo cui the Air avrebbe regalato 10 miliardi di dollari all'economia Usa. Un anno dopo, all'epoca del suo secondo ritiro dall'NBA, un editoriale di “Business Week” ne riduceva l'impatto in termini di cifre. Ma, scriveva Dennis Berman, “in termini di ricchezza sociale (l'esperienza di guardare un giocatore senza precedenti) la sua assenza costerà ancora molto cara”.

Un problema simile, un assenza ormai duratura che ha portato costi elevati in termini di ricchezza sociale e mancati introiti, deve affrontarlo Larry Ellison, il quarto uomo più ricco del pianeta, CEO di Oracle, che ha convinto Russell Coutts a guidare il team da lui sponsorizzato, arrivando così a vincere l'America's Cup. Ora Ellison è il nuovo padrone del BNP Paribas Open, il premier mandatory di Indian Wells. E deve provare a convincere le sorelle Williams a tornare a giocare in un torneo da cui mancano dal 2001 quando Serena, pur vincendo contro Kim Clijsters, accusò di aver subito pesanti insulti razzisti dalla maggioranza del pubblico durante la finale e decise perciò di non tornare mai più nella Contea di Riverside.

Ne hanno discusso lo scorso lunedì con Stacey Allaster, CEO del WTA Tour, che dovrà guidare la transizione verso un futuro non troppo lontano senza Venus, che compirà 30 anni a giugno, e Serena, che di anni a settembre ne avrà 29. “La Allaster, che ha smentito contatti con gli agenti delle sorelle Williams per tentare un'opera di mediazione, ha cercato l'anno scorso di imporre un regolamento un po' più restrittivo, rendendo i quattro eventi principali dopo gli Slam “mandatory”, ovvero obbligatori per le top players. Per chi non rispetta l'obbligo previsto uno zero in classifica, una multa di 75 mila dollari e la squalifica dai due “mandatory” successivi. Oppure, si può evitare la squalifica svolgendo “attività promozionale” nei modi e nei tempi decisi dalla WTA entro un raggio di 125 miglia (200 chilometri) dalla sede del torneo danneggiato dalla mancata partecipazione.

Praticamente uno schiaffetto sulle mani per chi, come Serena e Venus ha rinunciato a 550 mila dollari del bonus pool l'anno scorso (400 mila Serena, 150 mila Venus) per non aver partecipato a Indian Wells. Schiaffetto cui le sorelle si sottoporranno, come confermato dal portavoce della WTA Andrew Walker.

Per capire perché 550 mila buoni motivi non sono ancora abbastanza dobbiamo tornare al 2001, a quando tutto è cominciato, o forse finito. Perché oltre al razzismo c'è di più. Perché forse il razzismo, con quello che è successo nove anni fa, non c'entra proprio.

Le Williams e Indian Wells
“Avevo già vinto Indian Wells nel 1999 battendo Steffi Graf in finale in tre set. Avevo solamente 17 anni. Fu un avvenimento. Da quel momento divenne il mio torneo preferito per diverse ragioni. Si disputa in un paesino minuscolo, appena fuori Palm Springs. Mi piaceva il club. Era situato al momento giusto della stagione, appena prima di Miami. Gli spettatori erano intenditori, rispettosi e generosi. Soprattutto, era uno dei pochi tornei nei quali l'intera famiglia si poteva riunire. La vicinanza con Los Angeles permetteva anche a Tunde di raggiungerci e ce ne stavamo tutti in hotel a divertirci”. Parola di Serena Williams, che così scrive nel suo libro “On the line”.

Due anni dopo il quadro cambia connotati. Serena è testa di serie numero 7 del tabellone, Venus numero 3; sono dalla stessa parte. La Venere nei quarti vince facile 61 62 su Lindsay Davenport. Serena lascia tre giochi, 60 63, a Elena Dementieva, ma finisce il match disidratata, fatica a respirare dopo la partita e si è procurata un piccolo infortunio al ginocchio. Il giorno dopo è in programma la semifinale tra le due sorelle.

In conferenza stampa la russa, rispondendo a un giornalista che le chiedeva un pronostico sulla semifinale, risponde: “Non so cosa pensa Richard. Penso che lui deciderà chi vincerà domani”. Giorni dopo dirà che era solo una battuta. Ma scherzando, saggezza popolare insegna, si dicono le migliori verità. E la russa ha conservato il tarlo del dubbio, tanto che nel 2008, prima della finale di Wimbledon tra Venus e Serena, ha commentato con un ambiguo “it will be a matter of family”, sarà una questione di famiglia, che ai maligni ha lasciato spiragli per immaginare accomodamenti e spartizione dei trofei decisi in casa.

La mattina successiva, il 16 marzo, al club, avvisa il fisioterapista di non essere sicura di poter scendere in campo, perché durante la notte il dolore al ginocchio è aumentato. Il trainer le suggerisce di aspettare, Venus insiste che non ce la può fare, gli organizzatori prendono tempo. Venus si va a scaldare, al rientro la sorella le confessa di essere sorpresa che nessuno abbia ancora annunciato che lei in campo non ci andrà, dato che gli organizzatori sono stati avvisati da parecchio tempo.

L'annuncio viene dato solo cinque minuti prima del fischio d'inizio, con lo stadio pieno, gli sponsor già arrivati e le tv che gongolavano per gli spazi pubblicitari già venduti. Il pubblico, naturalmente, non la prende benissimo. In 10 mila vanno a chiedere il rimborso del biglietto.

John Wertheim, sulla sua “Tennis Mailbag” su Sports Illustrated del 19 marzo scrive: “La credibilità della WTA viene colpita se due delle principali giocatrici sono così capricciose […]. Soprattutto, questo episodio intacca la credibilità delle Williams e alimenta la diffusione delle malignità per cui loro vivono lo sport come una sorta di burla e delle speculazioni sul ruolo del padre nel determinare i risultati. Ma quello che rende la scena di sabato così difficile da accettare è il fatto che fosse anticipata. […] In sala stampa si scherzava dicendo che chiunque avesse perso il primo set si sarebbe ritirata per un infortunio”.

Il giorno dopo Bill Dwyre, sul Los Angeles Times, insinua ulteriori dubbi: “Se queste situazioni sono solo figlie del caso; se davvero il ginocchio di Venus ha iniziato a farle male prima della partita con Serena; se tutto questo è solo il prodotto di indiscrezioni e di troppa curiosità, allora perché le Williams non lo dicono chiaramente? Quando viene loro chiesta una risposta ai gossip e alle insinuazioni reagiscono cercando costantemente di aggirare il problema o rispondono con sorrisi e negazioni a mezza bocca”.

Charlie Pasarell, direttore del torneo, ammette: “Avrei preferito che fosse comunque scesa in campo per provarci”. E sarebbe stato meglio anche per Serena, che avrebbe potuto beneficiare dei bonus point. Sembra, anche per questo, difficile concordare con chi pensa ad un esito combinato, anche perché due giocatrici di questo livello non avrebbero bisogno di tali sotterfugi per addomesticare l'esito di un match. La reazione del pubblico, per quanto comprensibile nella sostanza, è esagerata nella forma. E non è ancora finita.

La finale
Tra Serena e Kim Clijsters, che in semifinale ha battuto Martina Hingis, il pubblico sceglie la belga. Non è solo tifo “per”, ma un maleducato tifo contro Serena, contro Venus e Richard, accolti da bordate di fischi mentre cercano di prendere posto sugli spalti. (La partita è disponibile interamente su youtube, questa è la prima parte di 13). Richard alza il pugno in segno di sfida di fronte ai 15 mila spettatori che riempiono il centrale. Poi viene visto al telefonino, e dopo pochi games nel box di Serena compare una guardia.

Non ci sono, però, incidenti. Le offese si fermano al livello verbale, benché pesante: un tifoso minaccia addirittura di scuoiare vivo Richard Williams, che già nel 1997 aveva visto una motivazione razziale in una collisione tra Irina Spirlea e Venus durante un cambio campo agli Us Open. A un cambio campo, sotto 46 12, Serena piange nascondendo la testa sotto l'asciugamano. Ma Kim non riesce a mantenere la concentrazione, Serena, con tutta la rabbia da sfogare, fa girare la partita e vince.

“I bianchi di Indian Wells finalmente hanno detto quello che ci hanno sempre voluto dire: 'negro, stai lontano da qui, qui non ti vogliamo”, spiega Richard a fine partita. “E' il peggiore atto di pregiudizio che abbia visto dall'uccisione di Martin Luther King”.

Curiosamente, però, nessun commento riguardante offese razziste arriva agli ufficiali del torneo. E la stessa Serena è piuttosto morbida in conferenza stampa, come ricorda Joel Drucker:

"D.Anche se il pubblico ti ha fischiato, pensi di tornare il prossimo anno?
R.Ho un titolo da difendere, probabilmente mi rivedrete.
D.Credi che la razza abbia qualcosa a che fare con quello che è successo oggi?
R.Razza? I neri sono usciti dalla schiavitù da un secolo ma ancora stanno ancora facendo fatica. Non so se la razza c'entri con questa situazione, ma certamente c'è ancora qualche problema di razzismo in America".

Più criptica Venus il 23 marzo, durante una conferenza stampa a Key Biscayne. “Cosa hai sentito quel giorno”, gli chiede un giornalista, e lei risponde: “Ho sentito quello che ho sentito”. Poi: “Credi che gli insulti fossero di natura razzista?”. Risposta: “Tu cosa pensi?”.

Proviamo a rispondere al posto suo. Probabilmente, benché Serena ancora nel 2008 a Cristopher Clarey abbia confermato che “a Indian Wells mi sono capitate cose che mi hanno cambiato la vita”, e nonostante papà Richard abbia minacciato vie legali contro la WTA qualora tenti di convincere le sue figlie a tornarci, gli attacchi razzisti sono stati una minoranza rumorosa. Mentre la maggioranza, meno accesa, era sì ostile ma solo per aver dovuto pagare un biglietto invano, per una serie di comunicazioni arrivate nei tempi sbagliati che hanno indotto a sospettare. Sarebbe bastato un avviso diramato un'ora prima della partita, quando gli organizzatori, che non hanno mai smentito apertamente la versione delle sorelle, già sapevano dell'assenza di Venus, e il fuoco sarebbe rimasto sotto la cenere. Ci sarebbe stato, magari, il tempo di organizzare un'esibizione o qualche tipo di iniziativa collaterale per salvaguardare i tifosi.

Meeka, questo il nomignolo con cui Serena, che di secondo nome fa Jameka, viene chiamata in famiglia, disegna un passato più nero del vero. Gli insulti c'erano, i “booo” erano sì intensi, non però dominanti. Ma, come cantava De André, si accontenta di cause leggere la guerra del cuore. Una guerra costata nove anni di purgatorio per il torneo. Nove anni di ricchezza sociale svanita, di possibili profitti lasciati nel vento per gli organizzatori e per le giocatrici. Nove anni di gente divisa, nove anni per una storia sospesa cui Larry Ellison vuole cambiare il finale.

Alessandro Mastroluca