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19/04/2012 12:15 CEST - Personaggi

L'erede
di Guga Kuerten

TENNIS - Battendo Ferrer, Thomaz Bellucci ha firmato l'impresa del giorno a Montecarlo. "In Brasile appena giochi bene i media ti mettono pressione. Non è facile dover essere all'altezza di Kuerten". Alessandro Mastroluca

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Thomaz Bellucci (Getty Images Europe Julian Finney )
Thomaz Bellucci (Getty Images Europe Julian Finney )

Il successo è un viaggio, diceva Arthur Ashe, non una meta. E nel viaggio di Thomaz Bellucci verso il destino che gli hanno cucito addosso, diventare l'erede di Kuerten, c’è molta Spagna. Ha giocato, e perso, la prima finale del circuito maggiore contro Robredo. Ha giocato il più bel torneo della sua carriera a Madrid l’anno scorso. A Montecarlo si prende il gusto di lasciare cinque game a Ferrer nel torneo preferito del valenciano, che qui ha raggiunto la finale l’anno scorso e almeno i quarti in sei edizioni, più che in qualsiasi altro evento del circuito.

Avviato al tennis dal padre, da ragazzo ha giocato anche a calcio, ed è rimasto grande tifoso del Palmeiras, la squadra fondata nel 1914 da immigrati italiani dopo la tournée in Brasile di Torino e Pro Vercelli. Italiana è anche la famiglia di Bellucci, secondogenito di Ildebrando, un commerciante, e Maria Regina, impegnata nel mondo degli affari.

E’ sua sorella maggiore che inizia a giocare a tennis, nel club di Tietè frequentato già dal padre. “Ho seguito la sua carriera” ha detto in un’intervista, “solo che lei si è fermata”. Inizia a giocare per divertimento, ma già a 10, 11 anni si impegna più degli altri ragazzi della sua età. Da junior arriva al massimo al n.15 del ranking. Da pro desta subito un’ottima impressione: nel 2008 vince nove game contro Nadal al primo turno del Roland Garros (solo Djokovic farà meglio), il maiorchino non si limita ai complimenti di routine ma lo invita due volte ad allenarsi con lui.

A fine stagione, Bellucci non riesce a entrare tra i primi 80 del mondo e decide di cambiare allenatore: per lui non è una novità, ne ha variati quattro. L’incontro con Joao Zwetsch, attuale capitano di Davis del Brasile, è un primo passo che lo avvicina al successo. Il coach ammira aggressività e dedizione di Bellucci, lavora sul rovescio, sul gioco di volo e soprattutto sulla mente. “Quando sei in campo sei solo” dice il brasiliano, “e non puoi vincere se non sei forte di testa nei momenti che contano”. Zwetsch lo avvia allo yoga con esercizi di pranayama, il controllo ritmico del respiro per accrescere l’assorbimento dell’energia vitale.

In meno di quattro mesi, Zwetsch porta Bellucci alla prima finale ATP, che il brasiliano perde in casa, a Costa do Sauipe, con Robredo, allora numero 19 del mondo. Ma non è facile essere un tennista brasiliano in Brasile. “Non appena qualcuno inizia a giocare bene” spiega a Kate Flory per Deuce, il magazine dell’ATP, “i media mettono pressione e cominci a pensare che devi raggiungere quello che ha ottenuto Kuerten, che devi sostituire Guga. E per i giovani non è facile imparare come gestire tutto questo”.

Ma nonostante disciplina e volontà, nei successivi quattro mesi esce dai primi 140 del mondo. Riparte dai Challenger, vince a Rimini e, da numero 119 del ranking vive la sua settimana da favola sulle alture della Svizzera. Si qualifica, batte due top 30 (Wawrinka, 24, e Andreev, 27) e vince il suo primo titolo ATP.

La ricerca del successo lo porta ad essere impaziente, lo spinge a volte a cercare di avere tutto e subito e ad abbandonare la lotta alle prime avvisaglie di ostacoli. Così è difficile imitare Guga. Per riuscirci decide di affidarsi al vecchio coach di Kuerten, Larri Passos, nonostante non troppo tempo prima avesse parlato male dei coach brasiliani.

L’artefice del terzo trionfo di Guga al Roland Garros lavora sugli aspetti mentali e tecnici, il preparatore Cassiano Costa sul fisico, e non per una mancanza di tono muscolare. All’accademia di Camboriù, Costa risolve con sagome e plantari un difetto osseo-genetico di Bellucci che ha le gambe storte, un po’ come Garrincha (che aveva anche una gamba più corta dell’altra di sei centimetri). Il peso è più caricato sulla sinistra, e l’impronta del piede è rivolta verso l’interno.

Passos perfeziona e modella la virtù della pazienza. I risultati migliori arrivano a Madrid. Alla Caja Magica Bellucci, che prima chiudeva il punto o lo regalava se lo scambio superava i 4-5 colpi, compie il suo incantesimo migliore. Gioca con una concentrazione e un’attitudine da tennista maturo. Batte Murray (sua prima vittoria contro un top-5, rimasta l’unica prima del successo su Ferrer) e Berdych trasformando il 100% di palle break a suo favore. In semifinale si ritrova avanti di un set e di un break contro Djokovic, è anche un po’ sfortunato perché rompe una corda nel punto che regala a Nole il set point alla fine del secondo parziale. Bellucci gioca un tennis composto e intelligente, costringe Djokovic a scambi lunghissimi: il serbo trova il break decisivo nel terzo dopo un punto che ha richiesto 34 palleggi.

Ma a fine stagione il rapporto tra Bellucci e Passos, che ha portato 25 vittorie, 25 sconfitte e nessun trofeo in bacheca, si interrompe. Thomas si affida all’argentino Daniel Orsaic, ex doppista, capace di raggiungere la posizione n.24 nel ranking di specialità e semifinaista al Roland Garros 2000 con Jaime Oncins, ed ex coach dell’uruguayano Pablo Cuevas. “Mi trovo bene con lui. Dà più importanza alla qualità dell’allenamento che alla quantità”.

Durante la preparazione, Orsanic da una parte lo sfianca con palleggi che durano anche cinque-sei minuti, per fare in modo che Bellucci non perda condizione e fiducia sulla lunga distanza. Dall’altra lavora sul gioco di volo. “Le volée di Thomas sono tecnicamente perfette” spiega Orsanic, “ma deve venire un po’ più vicino alla rete e giocarle con più convinzione”. Comunque, conclude il coach, “non voglio cambiare il suo gioco, che è completo, ma migliorare i suoi punti di forza”.

Perché in fondo quello che manca a Bellucci, che sogna già le Olimpiadi del 2016 in casa, è la continuità di risultati. E nel tennis vale quello che Chad Harbach scrive a proposito del baseball nel suo intenso “L’arte di giocare in difesa”. “Non importa quanto bene tu abbia giocato qualche volta, non importa quello che hai fatto nel tuo giorno migliore, quante giocate spettacolari hai completato. Sei uno sportivo, non un pittore o uno scrittore che lavora in privato e scarta gli errori, e non sono i capolavori che contano. Quello che conta è la ripetibilità. I momenti di ispirazione sono niente di fronte all’eliminazione dell’errore”.

Alessandro Mastroluca

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