Amarcord

L'anno della maglietta rossa

Un documentario di Mimmo Calopresti celebra la vita e la carriera di Adriano Panatta. Particolare attenzione alla Davis del 1976, dalle polemiche politiche alla plateale provocazione. Mastroluca

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“Un tempo il tennis era silenzio”. Sceglie di aprire così Mimmo Calopresti il suo documentario “La maglietta rossa”, con la voce fuori campo di Adriano Panatta che marca la distanza tra allora e oggi. Una distanza di cui Ascenzietto costituisce il diaframma, il trait d'union. Perché mai come nel suo anno di gloria, il 1976, il tennis aveva mai fatto tanto rumore, dentro e fuori dal campo.

Panatta ha tolto al gioco dei re la patina aristocratica ed elitaria e l'ha reso sport di tutti e per tutti, che dalle cattedrali si spostava nei giardinetti di Roma e d'Italia (anche se un preludio si può trovare l'anno prima nella memorabile partita tra il ragionier Fantozzi e Filini). La sua storia e la Storia si toccano e s'incrociano, sin dall'inizio, marcando i contrasti e segnando l'evoluzione del campione proletario, che nasce, è il caso di dirlo, sui campi da tennis, in quanto figlio del custode del Tennis Parioli, il ritrovo della Roma bene costruito dove prima c'era il campo dei “baraccati”. Istruito al gioco, ma soprattutto al saper vincere, “che è un altro sport” dice, da Mario Belardinelli, che ha in sostanza “inventato” l'idea del centro tecnico, a Formia, e ha scelto come primi discepoli Adriano e Paolo Bertolucci. Adriano impara, e vince. Vince con le volée in tuffo, vince con l'imprevedibilità di uno stile unico, vince con la magia, “perché un giocatore lo sente che la magia sta arrivando, quando tutto ti riesce esattamente come vorresti. Ho vinto il Roland Garros nel '76 ma potevo già uscire al primo turno, con il ceco Hutka [vince 12-10 al quinto]. Sul match point lui gioca un passante, io faccio il punto con una volée di rovescio in tuffo e poi vinco il torneo. Anche a Roma ho rischiato di perdere subito, ho annullato 11 match point e ho vinto il torneo. Se non è magia questa, non so cos'è”.

Il grande giocatore, però, si vede non solo dalla capacità di sentirla su di sé, ma di individuarla quando il suo raggio illumina l'avversario. “Allora devi provare a modificare quello che per il tuo avversario è diventato scontato, devi cambiare situazioni, devi anche cercare di innervosirlo. E in questo Nastase era unico, lui si concentrava deconcentrandosi, che è una follia”.

Così Belardinelli, che era stato il maestro di tennis del Duce, si ritrova a costruire un campione che cresce con idee di sinistra e grazie allo sport diventa celebre e benestante. Frequenta uomini di spettacolo, gioca con i grandi da Ugo Tognazzi a Vittorio Gassman, che definisce “mattatore anche in campo”. E Paolo Villaggio ricorda che “era timido come una suora svizzera, ma voleva vincere sempre, tanto che una volta al Torneo Tognazzi pregammo Umberto Orsini di lasciargli vincere la finale”. Diventa benestante, ma non tanto come vorrebbe chi contesta al grido di “Panatta milionario/Pinochet sanguinario” prima della finale di Coppa Davis del dicembre del 1976. Il momento in cui la storia di Adriano e la Storia si toccano più intensamente.

L'atmosfera in Cile è cambiata nel “primo undici settembre”, quello del 1973, con i carri armati davanti alla Moneda, il palazzo presidenziale, in cui Allende resta asserragliato (e fino a pochi minuti prima della fine ci sono dentro anche le sue due figlie, tra cui la scrittrice Isabel) e da cui lancia l'ultimo, accorato e disperato, discorso alla nazione alla radio in cui annuncia di voler difendere la lealtà del popolo anche a costo della sua vita. Un costo che pagherà, anche se restano ancora interrogativi irrisolti sulla sua morte: omicidio o suicidio?

La dittatura di Pinochet, non è la prima non sarà l'ultima, ha bisogno di mantenere alta l'adesione e forte il consenso. Ma quando il messaggio, anche ideologico o politico, è poco razionale allora l'investimento emotivo necessario per accettarlo diventa maggiore. Per questo i governi totalitari hanno cercato di usare lo sport come veicolo di propaganda, perché è in grado di spostare, per analogia, le sensazioni positive della vittoria nei confronti del regime. Qualche volta i risultati pagano. Mussolini ottenne molto dai Mondiali del '34, vinti anche grazie all'infortunio (ma qualcuno dice la corruzione) del leggendario Zamora nella ripetizione dei quarti e l'arbitraggio molto casalingo dello svedese Eklind nella semifinale e in finale. Hitler provò a fare del peso massimo Louis Schmeling, che pure non era di idee naziste anzi protesse i figli di un amico ebreo durante la notte dei cristalli, l'eroe del Terzo Reich quando sconfisse l'americano di colore Joe Louis per il titolo mondiale. Ma pochi mesi dopo Jesse Owens umiliò gli ariani e due anni dopo Schmeling perse una drammatica rivincita.
Lo sarà ancora, strumento di propaganda, nel 1978 quando Peron organizzò i mondiali in Argentina con l'idea del panem et circenses, come l'occasione per distogliere la popolazione e l'opinione pubblica internazionale dalla crisi e dal dramma dei desaparecidos. Per provare a nascondere con le grida della folla che riempiva lo stadio di Buenos Aires le urla di dolore dei torturati nella vicina Scuola della Marina, da cui partivano i voli della morte che scaraventavano i corpi nel profondo dell'Oceano. Voli che, però, erano sospesi quando giocava l'Argentina.

Pinochet sperava di guadagnare lo stesso prestigio, di ottenere lo stesso effetto osmotico con la Coppa Davis di Santiago. E l'Italia si divideva tra chi gridava “non si giocano volée con il boia Pinochet” e chi sognava il trionfo sportivo. Tra chi, come Craxi, puntava a vedere l'Italia vincere la coppa della democrazia, o Domenico Modugno, che cantò contro la spedizione azzurra, e chi invece riusciva a vedere anche i lati negativi della rinuncia alla finale.

Curioso che l'intervento decisivo per evitare l'imitazione del plateale boicottaggio di cui si era resa protagonista l'Unione Sovietica sia arrivato dal segretario del Partito Comunista più forte d'Europa, Enrico Berlinguer. Non è giusto privare i ragazzi della possibilità di giocarsi il titolo, questo il senso del suo messaggio: tra vent'anni nessuno si ricorderà della protesta, ma tutti diranno che il Cile di Pinochet ha vinto la Davis.

L'Italia partì, il resto è storia. Come la provocazione della maglietta rossa che Panatta volle indossare per il match di doppio, convincendo anche il più moderato, e inizialmente titubante, Paolo Bertolucci, a sfoggiare davanti agli occhi del dittatore. La tolsero però durante il riposo dopo il terzo set. Ma non per ragioni politiche. La sostituirono con una azzurra, e con quella celebrarono il successo su Cornejo e Fillol e un trionfo storico. Perché mai come quel giorno di dicembre il tennis ha smesso di essere solo una questione di sport.

“Il tennis è come la vita” chiosa Panatta, “perché, giochi bene o giochi male, puoi giocare una volta sola. E perdere vuol dire non avere più alternative, è un po' come morire”.
 

Alessandro Mastroluca

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