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04/11/2010 17:47 CEST - FED CUP

La tentazione di Mary Joe

TENNIS – Alla scoperta di Coco Vandeweghe, cucciola americana convocata per la finale di Fed Cup. Residente a due passi da San Diego, sogna di diventare numero 1 del mondo. Quest’anno ha battuto la Zvonareva. Le precarie condizioni di Melanie Oudin potrebbero spalancarle le porte della finale. Non accade dai tempi di Chanda Rubin. Tira grandi mazzate, educate dal coach “federale” Tom Gullickson. Riccardo Bisti

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C’è una teoria, valida e condivisibile, secondo cui i campioni non nascono per caso. Non è il Padreterno a decidere: è il clima, culturale e familiare, in cui si nasce. Sono tanti, troppi, i casi di campioni emersi da un background sportivo, da indurci a non credere alla favoletta del fatalismo. Chissà se ne era al corrente Coco Vandeweghe quando, un paio d’anni fa, disse: “Il mio obiettivo è diventare la numero 1 del mondo. Per questo dovrò prestare massima attenzione ai tornei del Grande Slam. Vincerne uno aiuta a scalare la classifica”. Beata gioventù, verrebbe da dire. In realtà, se c’è una giocatrice che ha tutte le carte in regola per riuscirci, è proprio la bionda di Rancho Santa Fe, ricco quartierone nei pressi di San Diego. La sua famiglia è intrisa di sport fin sopra i capelli. Negli anni 50, nonno Ernie giocò con i New York Knicks nel campionato NBA. Lo zio, Kiki, è stato un ottimo giocatore NBA negli anni 80, indossando le casacche di Denver Nuggets, Portland Trail Blazers, New York Knicks e Los Angeles Clippers. E’ rimasto legato al mondo NBA: il suo ultimo incarico è stato quello di coach dei New Jersey Nets. Zio Bruk ha giocato a beach volley a livello professionistico, mentre la zia Heather ci ha dato dentro con il polo. C’è poi mamma Taula, il cui caso è addirittura straordinario: ha parteciato a due olimpiadi in due sport diversi (nuoto a Montreal 1976, pallavolo a Los Angeles 1984). E’ proprio l’esperienza della madre il primo input di Coco nella conferenza stampa pre-draw, sua primissima esperienza con il mondo della Fed Cup: “Sono esaltata all’idea di giocare per la mia nazione. E’ un sogno: mia madre è stata un’atleta olimpica, così è una grande orgoglio poter rappresentare la bandiera americana”. Mary Joe Fernandez l’ha chiamata per necessità, non certo per scelta, ma è un dato di fatto che la Federazione americana creda fermamente in lei. I suoi risultati sono accolti con particolare enfasi in seno alla USTA, che spesso si lascia andare ad entusiastici comunicati stampa.

I consigli di Lindsay
Nel 2010 ha spesso fatto parlare di sé. L’exploit è arrivato (guarda un po’…) a San Diego, dove ha superato le qualificazioni ed è giunta nei quarti battendo, tra le altre, Vera Zvonareva. Si è poi ripetuta a Tokyo. Alta 185 centimetri, sembra lei (e non la più precoce Oudin) la futura numero 1 del tennis yankee. Tira grandi mazzate con entrambi i fondamentali, pallettoni che obbligano le avversarie ad accorciare. Il salto di qualità è arrivato sotto la guida di Tom Gullickson, suo coach da qualche mese, che la ha insegnato a sfruttare determinate situazioni tattiche. Adesso mette i piedi dentro il campo e chiude il punto con possenti colpi definitivi e/o apprezzabili volèe. Il suo tennis ricorda Lindsay Davenport, unico idolo d’infanzia. “E’ stata lei a dirmi che la differenza tra il mondo junior e il circuito dei grandi sta nella professionalità. La conosco bene, siamo entrambe californiane e mi rivolgo spesso a lei. E’ sempre foriera di consigli preziosi”. Chissà se Lindsay le avrà dato qualche consiglio su come affrontare Schiavone e Pennetta, sempre battute (cinque volte la prima, due la seconda) lasciando per strada giusto un paio di set. E Chissà se Mary Joe deciderà di correre il rischio e spedirla in campo. Sarebbe la prima ad esordire in una finale dai tempi di Chanda Rubin, che nel 1995 esordì nella finale contro la Spagna in un team di cui facevano parte anche Davenport e la stessa Mary Joe. Bethanie Mattek è certa del posto in singolare, mentre Melanie Oudin ha più esperienza ma viene da un periodo disastroso: da Maggio ha vinto solo sei partite, di cui solo un paio (le meno recenti) contro top 100 (Groenefeld e Wozniak). “Ciò che conta è la squadra” ha detto in perfetto politichese, a dispetto dei suoi 18 anni “Sono disposta a fare qualsiasi cosa per il bene della squadra. Credo che dipenderà da chi giocherà meglio in questi giorni”. Criptico anche il commento di Mary Joe: “Coco è forte. Può essere molto forte. Ma io credo anche a un’altra cosa. Si può essere importanti anche senza giocare. Sono una grande sostenitrice di questa tesi. Credo che la Fed Cup sia un lavoro di squadra al 100%”.

Sulle orme del fratello
Al di là dell’esperienza di San Diego, dove certamente accorreranno parenti e amici nella speranza di vederla in azione, la Vandeweghe sembra un cavallo sicuro su cui puntare. Non solo il tennis, non solo il fisico. Anche una mentalità “giusta”. Oltre alla sparata sul numero 1 del mondo, quando vinse lo Us Open Junior (nel 2008) disse che i sacrifici non la spaventano, ed anzi si ritiene fortunata a fare ciò che desidera. “Non mi pento di questa scelta e non mi pesa avere una vita diversa dagli altri teenagers”. Mary Joe e le sue compagne hanno speso parole d’elogio, sottolineando la sua applicazione in ogni allenamento. Un’applicazione che non sfuggì agli organizzatori dell’Acura Classic di San Diego, che nel 2006 le diedero una wild card per giocare il suo primo torneo WTA ad appena 14 anni di età. E pensare che aveva iniziato a giocare ad 11, sulle orme del fratello Beau. “Oggi gioca a pallavolo, ha mollato il tennis, ma secondo me crede ancora di potermi battere!” scherza con il suo sorriso tipicamente californiano. La giocatrice che conosciamo oggi è stata formata da Robert Van’t Hof, il coach che le aveva presentato Lindsay Davenport. Qualche mese fa, tuttavia, la USTA ha deciso di metterle alle calcagna Gullickson, ex capitano di Coppa Davis. “Così passo il mio tempo tra Carson, dove risiedo, e Boca Raton, in Florida. L’aspetto più duro della vita nel Tour è proprio il tempo da trascorrere lontano da casa”. Il bello, in questa finale di Fed Cup, è che potrebbe dormire nel suo letto e recarsi alla San Diego Sports Arena in pochi minuti. L’aria di casa le fa bene, lo ha mostrato a San Diego. Chissà se Mary Joe avrà voglia di regalarci una storia da raccontare. Tra film e fiction, gli americani hanno mostrato di amare questo genere di cose. Speriamo soltanto che non sia l’Italia a pagarne le spese.

Riccardo Bisti

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker