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19/05/2011 21:52 CEST - Rassegna nazionale

Rosewall: “Le racchette di legno mi hanno allungato la carriera” (Semeraro)

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Rosewall: “Le racchette di legno mi hanno allungato la carriera” (Stefano Semeraro, lastampa.it)


Cosa fa oggi, mister Rosewall? Si diverte ancora a giocare, o a guardare il suo sport?

“Be’, oggi sono in pensione! E’ strano, ma diventando vecchi giocare a livello professionale diventa sempre più difficile… Vivo a Sydney, mi interesso di varie faccende e cerco soprattutto di passare un po’ di tempo con i miei amici. Sfortunatamente negli ultimi mesi non ho potuto giocare molto, qualche problema fisico mi ha tolto un po’ di entusiasmo. Ma si tratta solo di riprendere la routine. Mi diverte ancora molto guardare il tennis, ma non viaggio più tanto. Nelle ultime stagioni sono stato agli Us Open e a Wimbledon, quest’anno non so”.

- Qual è il torneo che ama di più?

“Ogni torneo ha qualcosa di gradevole. Essendo stato un giocatore, tendo a farmi piacere di più i posti dove ho vinto di più; d’altra parte sono stato abbastanza fortunato da giocare bene in parecchi posti, dal Roland Garros a Forrest Hills. Poi ovviamente c’è Melbourne. Mi capita di andare con regolarità a Kooyong, un posto che per me significa tanti ricordi, dai Campionati d’Australia ai match di Coppa Davis. Comunque anche Melbourne Park è un bell’impianto…”

- Ma le maschere non riconoscono i vecchi campioni. Kooyong ha un’altra atmosfera, non trova?

“Sì, come tutti i vecchi stadi. Il problema però è che stanno diventando vecchi. Da giovane ho giocato tanto al White City di Sydney, ma ora c’è il nuovo stadio costruito per le Olimpiadi, dove sono stati giocati anche un paio di match di Coppa Davis. White City è in ristrutturazione, il tennis resterà ma non sarà più così importante. I tempi cambiano”.

- Parliamo dei tennisti. E’ banale chiederle se le piace Federer?

“E’ anche scontato rispondere di sì. Roger ha un tennis classico, molto bello da vedere. La cosa più interessante per me è studiare come un giocatore sviluppa il proprio gioco, e come si combinano stili diversi. Un po’ quella che accadeva ai miei tempi: il mio tennis era molto meno aggressivo di quello di Rod Laver o Lew Hoad, quindi i nostri match erano molto gradevoli per il pubblico. Anche quest’anno qui agli Australian Open ho visto cose interessanti, ma se devo essere sincero questa superficie non mi piace molto, preferisco sempre la terra o l’erba. Credo che questo tipo di superficie abbia incoraggiato tutti i tennisti ad adottare più o meno lo stesso stile di gioco: grande potenza da fondo, poca “finesse”, pochissime discese a rete. L’unico che riesce a variare è Federer, appunto. Anche il tennis femminile sta andando in quella direzione. Non posso certo negare che le ragazze siano brave, ma non è il tipo di tennis che mi invoglia a stare seduto per tutta una partita”.

- Forse il tennis femminile risente ancora di più di quello maschile dello sviluppo dei materiali…

“Sì, può essere. Certo che le ragazze non vanno proprio mai a rete. La chiave, non credo di svelare nulla di nuovo dicendolo, è la risposta. Con le racchette moderne è diventato molto più semplice rispondere anche a servizi molto potenti, e per gli attaccanti la vita si è fatta sempre più difficile. Ai tempi di Evonne Goolagong credo gli spettatori si divertissero di più, anche se oggi gli abiti delle ragazze in parte compensano lo show!”.

- Possiamo dire che il tennis è uno sport completamente diverso da quello che giocava lei?

“Sì, credo si. Fra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni Settanta, con l’ingresso dei nuovi materiali e con l’abolizione della stagione estiva sull’erba, è cambiato tutto. Fra il ’78, quando gli Us Open sono passati al cemento, e l’88 quando anche in Australia abbiamo abbandonato l’erba, è avvenuto un cambio epocale. Che ha influenzato anche l’insegnamento del tennis, e il modo di vincere le partite”.

- Paragonare ere diverse nello sport è impossibile e forse ingiusto, come sappiamo. Ma se c’è qualcuno che può tentare di farlo con una accettabile approssimazione, quello è lei, che è stato capace di vincere il primo Slam nel 1953 e di arrivare ancora in finale a Wimbledon e a New York nel ’74. Federer può reggere il confronto con i grandi della sua epoca? Può diventare il più grande?

“Sta marciando in quella direzione. Soprattutto perché ha dimostrato di poter battere avversari molto forti su tutte le superfici, come faceva ad esempio Laver. Tutti mi chiedono: chi avrebbe vinto fra Rod e Roger? Se Federer avessimo dato la stessa racchetta, e le stesse corde, che aveva Laver, credo sarebbe stato un match molto combattuto. Certo trent’anni fa il top-spin esasperato che usa oggi non sarebbe stato neppure immaginabile”.

- Abbiamo visto Federer giocare passanti di controbalzo che con le racchette di un tempo non sarebbe stato in grado di effettuare…

“No, li avrebbe giocati lo stesso: ma molto più lenti e senza quell’effetto”.

- Lei che strategia avrebbe studiato per battere Federer?

“Ah, domanda difficile! E’ troppo forte per me…”.

- Andiamo: lei ha battuto gente come Pancho Gonzalez, che certo non serviva piano.

“Sì, sono felice di poter dire che ho battuto tutti i più forti della mia epoca, a volte. Ma ho anche perso molte volte contro di loro! Contro Roger in effetti ho giocato qualche volta: nella mia testa. Ma sempre usando racchette di legno… Contro di lui bisogna mescolare un po’ le carte, cambiare tattica. Gli andrei spesso a rete sul rovescio. Ma sarebbe dura comunque”.

- Il rovescio di Federer non sarà forte come il suo (Rosewall ride, ndr), ma non è malissimo, non le pare?

“No, no, affatto. Può giocarti quei piccoli chop corti che fanno molto male, oppure tenerti inchiodato indietro con degli slice molto profondi, oppure chiudere il punto sia in cross che lungolinea con il top. Ha tante opzioni. Certo il dritto è il suo colpo migliore, ma anche di rovescio è maledettamente forte”.

- Sbaglia però qualche volée di troppo.

“Chiunque può sbagliarne, ogni tanto. Quando è veramente concentrato non mi pare faccia troppi errori”.

- Le ricorda più Hoad o più Laver?

“Lew era un tennista molto potente, ma con un tecnica estremamente raffinata. Aveva più tocco di Rod, si divertiva a vincere i match anche senza usare la sua potenza, ma giocando volée molto “soft”. Rod in compenso era più aggressivo. Direi che Roger assomiglia più a Hoad”.

- Lei ha battuto nella finale di Forest Hills del ’56, negandogli il Grande Slam. Che ricordi ha di quell’anno e di quel match?

“Lew mi aveva battuto nella finale dei Campionati d’Australia, a gennaio, poi io non avevo giocato a Parigi, e a Wimbledon in semifinale avevamo avuto un altro bel match in semifinale. Nel corso della stagione la mia forma era migliorata, riuscivo ad andare più spesso a rete. Per anni avevo usato poco alcune delle mie armi migliori, le volée e la rapidità nel scendere a rete, invece a New York credo di averle sfruttate bene. Lew dal canto suo era un po’ nervoso perché sapeva di poter vincere il quarto major dell’anno, anche se non voleva ammetterlo”.

- Poi entrambi passaste fra i pro. Quella del tennis professionistico prima dell’era Open è una storia troppo poco conosciuta, non crede?

“Sono d’acordo. Molti dirigenti non ne sanno nulla, e quasi tutti i giovani tennisti non hanno neppure idea di cosa fosse il tennis a quei tempi. Ricordo che con noi c’erano Hoad, Laver, Trabert, Segua, Gonzalez… I più forti del mondo. Ho dei bei ricordi delle tournée in Italia che erano organizzate da Carlo Della Vida: si giocava in inverno e in estate, in posti molto piacevoli. Ma nessuno crede, oggi, alla quantità di match che giocavamo durante l’inverno negli States, su campi allestiti in fretta e furia nelle palestre di piccoli licei, in arene di periferia….”

- Quanti match giocavate in una stagione?

“Il problema era che in realtà la stagione non finiva mai! Non c’erano sponsor, né televisione, i match non venivano quasi promossi. Si partiva in inverno negli States, poi si seguiva il sole. Australia, Europa, un po’ di Sud Africa e poi di nuovo in Australia. Era il nostro sport, allora. Forse oggi rifaremmo tutto da capo, se fosse necessario, ma davvero i giovani tennisti di oggi non possono neppure immaginare le condizioni in cui si trovavano a giocare i migliori di quell’epoca. Poi molti dei dirigenti del tennis erano contrari al professionismo, particolarmente qui in Australia. Invece sono convinto che la mia generazione abbia fatto molto per la popolarità del tennis, giocando tanto e in tanti posti in giro per il mondo”.

- Il posto più strano in cui le è capitato di giocare?

“Probabilmente qualche piccolo villaggio di campagna qui in Australia! Sui campi in terra che noi chiamiamo “ant bed”, nell’ovest del paese, soprattutto nel Queensland o nel New South Wales. Persino la più piccola cittadina aveva il suo tennis club e i suoi campi pubblici. Nello stato del Victoria si trovavano magnifici campi in erba”.

- Il più bel match che ha giocato da pro?

“Be’, allora c’erano grossi tornei pro a New York, a Los Angeles, e al coperto a Parigi e a Londra, a Wembley. Ho avuto la fortuna di vincerli tutti, e di giocare grandi match contro Hoad, Laver, Gonzalez e Gimeno, lo spagnolo che è stato forse uno dei tennisti più sottovalutati di quell’epoca. In particolare mi ricordo una finale perduta nel ’66 a Wembley, contro Laver: pensavo di averlo in mano e invece finìì per lasciarglielo 7-6 al terzo. E sempre contro Rod a Sydney, in cinque set. Ne ho giocati parecchi, contro Laver”.

- Ma Rod ha perso forse il più famoso: la finale del Wct del 1972 a Dallas. Per Rino Tommasi e molti altri, il più bel match della storia.

“Be’, sono contento che molti la pensino così, visto che l’ho vinto io! Anche l’anno prima l’avevo spuntata, sempre contro Laver, due match molto combattuti. Furono importanti, perché dimostrarono che il WCT era un circuito di qualità, ben promosso e seguiti dagli sponsor. Parecchi promoter, direttori di torneo e dirigenti impararono molto da quei tornei, e sono convinto che il Wct abbia posto alcune basi importanti per lo sviluppo successivo del tennis Open e la nascita di quelli che oggi sono l’Atp e e la Wta. Da allora il tennis si è espanso in maniera incredibile, approdando anche alle Olimpiadi”.

- Lei è quindi a favore del tennis alle Olimpiadi?

“No, non mi piace. Ma di certo lo spirito olimpico ha aiutato il tennis a raggiungere molti nuovi paesi. Credo che la formula dovrebbe cambiare, almeno per consentire ai più forti di parteciparvi, perché inevitabilmente gli altri appuntamenti tennistici della stagione restano predominanti”.

- Lei è mancino, eppure ha sempre giocato con la destra. O all’inizio ha provato anche con la sinistra?

“Sono un mancino naturale, e a tennis giocavo da bimane, un po’ con una e un po’ con l’altra, fino a quando mio padre mi costrinse a scegliere, e allora scelsi la destra, perché così potevo colpire la palla più lontana dal corpo. Ma se avessi scelto la sinistra forse avrei avuto un servizio migliore, visto che il mio movimento naturale era mancino. Ma non ho mai giocato una partita da mancino”.

- Il tennis australiano non sta attraversando un momento florido. Come se lo spiega?

“Difficile trovare una spiegazione. Tennis Australia ultimamente ha conosciuto un rinnovamento, e credo che ora siano stati avviati i giusti programmi per i giovani. A livello di junior abbiamo sempre avuto buoni giocatori,m ma per una ragione o per l’altra molti si sono persi nel momento di fare il grande passo per il professionismo. Forse anche per una questione fisica, visto che il tennis oggi è molto stressante da quel punto di vista, o forse perché giocando molto da giovani è capitato loro di perdere un po’ di entusiasmo”.

- Qual è il suo primo ricordo degli Australian Championships?

“Ai miei tempi i Campionati d’Australia ruotavano in varie città, e la prima volta che mi capitò di giocarli fu nel 1951, al White City di Sydney, la mia città. Avevo 16 anni ed ero iscritto al tabellone juniores. Non avevo il minimo sospetto di quello che sarebbe venuto dopo, che avrei avuto una chance di viaggiare all’estero insieme a Hoad, sotto la guida di Hopma. Ma l’anno successivo feci bene ad Adelaide, perdendo nei quarti da Mervyn Rose in cinque set, e l’anno dopo ancora, nel ’53, giocai proprio qui a Melbourne la finale sempre contro “Merv” . Tutti furono sorpresi del fatto che vinsi in tre set, ma credo che la vittoria a Parigi, quello stesso anno, fu ancora più sorprendente. Ma ci sono stati anche momenti meno piacevoli…”.

- Forse però i dispiaceri più grossi della sua carriera li ha vissuti a Wimbledon: quattro finali, quattro sconfitte. Quale fu la più difficile da digerire?

“Credo che nella prima, quella del 1954 contro Drobny, avrei avuto più chance se qualcuno mi avesse consigliato a giocare in maniera più aggressiva. Avevo solo 19 anni, mi mancava l’esperienza per capire bene quello che dovevo fare, così rimasi troppo sulla difensiva. A giudicare ora, quella fu forse la finale che avrei potuto vincere. Con Hoad e Newcombe la partite furono abbastanza combattute, mentre Connors, nel 1974, era troppo più forte. C’erano 18 anni di differenza fra di noi. Fu un torneo tormentato dalla pioggia, ma la mia famiglia era lì con me, mia moglie e i miei due figli, e quindi fu piacevole comunque arrivare fino in fondo”

- La sua ultima vittoria risale invece al 1977, al torneo di Hong King, a 42 anni d’età. Oggi tutti i tennisti si lamentano per gli infortuni che rendono sempre più corte la carriera agonistica. Qual è stato il segreto della sua longevità ?

“Sono stato fortunato ad evitare infortuni gravi. Forse era il modo in cui mi muovevo, molto leggero, sempre in equilibrio. In effetti sono fiero di come ho giocato nella seconda parte della mia carriera, da vecchio tennista… Ma era giusto prima che la rivoluzione dei materiali cambiasse volto a questo sport. Le racchette di legno erano pesanti, certo, ma non permettevano i movimenti rapidi e violenti che si vedono oggi, con queste nuove racchette così leggere. Allora non sarebbe stato possibile, quindi i gesti erano meno traumatici”.

- Ripensa mai al periodo da “pro” con rammarico? Lei non giocò per 11 i grandi tornei, saltando ben 44 Slam. Chissà quanti ne avrebbe potuti vincere, oltre a quelli che ha conquistato.

“No, nessun rimpianto. Poi fu lo stesso per tutti. L’unico rammarico è che la federazione internazionale avrebbe potuto accettare prima il professionismo. Quando passammo al professionismo nessuno di noi pensava che avrebbe potuto giocare di nuovo in Davis o negli Slam. Io almeno non lo credevo. Invece fra i 33 e i 39 anni credo di aver giocato il mio miglior tennis in assoluto”.

- Lei vinse anche il primo torneo Open in assoluto, a Bournemouth nel 1968.

“Sì, in fianle contro Laver, tanto per cambiare. Il tempo era terribile, e disputammo la finale su due giorni per via della pioggia. Ci furono delle sorprese. C’era un po’ di rivalità fra pro e dilettanti, per dimostrare che una categoria era migliore dell’altra. Mark Cox, che era un dilettante, superò Pancho Gonzalez. L’erba non è mai stata la miglior superficie di Pancho, ma per Mark fu comunque una bella vittoria. La rivalità fra dilettanti e pro andò avanti ancora per qualche stagione”.

- Un ricordo dell’Italia?

“Sfortunatamente ho giocato solo una volta a Roma prima di passare pro, perché a quei tempi in maggio la federazione australiana non mandava in giro i suoi team. Da pro invece ho giocato a Napoli, Bologna, Roma, Milano. Sono poi tornato per un evento over 35 organizzato dall’Atp. Ma la cosa poi non ha avuto seguito. Sfortunatamente quel tipo di tornei non sono mai stati promossi come mi sarebbe piaciuto, non sono mai diventati l’equivalente del Senior Tour nel golf. Ed è un peccato, perché il tennis senior avrebbe molto da offrire: ai circoli, al pubblico, ai tanti giovani che non hanno mai visto giocare i campioni del passato”.

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