30/12/2012 18:03 CEST - Personaggi

Clijsters, Ferrero, Roddick: con loro è finita un'era

TENNIS - Diversi i tennisti hanno lasciato il circuito negli ultimi 12 mesi. Ma un ricordo speciale lo meritano tre grandi schiacciati dalla sfortuna. Davide Uccella

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Andy Roddick (Photo by Cameron Spencer/Getty Images)
Andy Roddick (Photo by Cameron Spencer/Getty Images)

2012. Un anno su cui noi di Ubitennis stiamo cercando di tirare le fila in tanti modi. E raccontando con gusto, come sempre. Così il menù, giorno dopo giorno, è diventato ricco di portate: i record, le sorprese, le novità, i colpi-tipo, le attese, i pronostici: tutti  proiettati nel futuro. Ma cosa resta dietro di noi? Chi e cosa ci lasciamo alle spalle? Insomma c'è qualcosa che manca, per arricchire questa galleria di punti di vista sul passato che è già futuro, visto che tra pochi giorni sarà già 2013 nel circuito.

Ma allora cosa manca? Beh, parlare dei capitoli che si chiudono, delle storie di uomini e giocatori che come agonisti sul campo si fanno da parte, e con le loro storie si consegnano alla storia della stampa e dei ricordi. Icone, simboli, miti veri o presunti, personalità che a modo loro, comunque, resteranno in questo tennis spartiacque, tra due millenni dove molto è cambiato.

E se amare uno sport significa anzitutto avere memoria, diventa giusto farlo: solo così puoi sederti sugli spalti, o davanti a un televisore, e capire meglio che il tennis di oggi, chi lo anima, eredita qualcosa che avrà sempre in testa, qualunque direzione prenda.

Allora pare giusto questo "applauso scritto", a scena aperta, e in tre puntate. Anche se di tanti non parleremo a fondo. Il tempo per leggere, in rete, è sempre tiranno. E la lista dei grandi ritirati è lunga: Acasuso, Chela, Dulko, Gonzalez, Ljubicic... e già con loro ci sarebbe tanto, tantissimo da parlare: ognuno di loro è miniera di aneddoti, ricordi, colpi di moda e non, e poi punteggi, statistiche e altro ancora. Ma il giornalismo è anche selezionare, purtroppo, dover mettere qualcosa in prospettiva.

Ecco, offriamo spunti, perché elencare poi tutto a menadito, anno dopo anno, ci renderebbe maestrini, e farebbe di questo pezzo una specie di "Almanacco non Illustrato dei Ritirati 2012", versione manuale. Sinceramente, per onestà e competenza, spetta ad altri questo compito: lo faranno meglio di noi i superarchivisti Rosato e Tirone, o altri patiti delle stats nella grande famiglia di questo sito.

Vogliamo piuttosto in queste righe offrire uno spaccato, dare un taglio che leghi eroi diversi, con risultati importanti, anche recenti, ma che sembrano di un'epoca diversa, forse troppo schiacciata tra duopoli vari, titani del fondo campo, macchine venute dell'Est, il mercato globale. Gente insomma messa un pò all'angolo da queste novità, tante da non poterle più seguire,  ma che fino a ieri, e l'altro ieri, hanno difeso con classifiche, Slam e anche un certo ranking un' idea precisa di tennis. Giusta o sbagliata che fosse, antiquata o no, questo non ci riguarda.

Resta semplicemente il dovere morale e giornalistico di dedicare ad Andy Roddick, Juan Carlos Ferrero e Kim Clijsters un altro giusto tributo. E magari non sarò Brera, non sarò Scanagatta, non sarò Clerici nè tanto meno Tommasi. Ci sarà qualche parola di troppo, un pò troppa retorica di qua di là. Però siamo qui, come giovane spettatore che ha ammirato questi giovanotti in tante occasioni, davanti ad una tastiera. E con tante idee in testa da mettere in fila, grido a mò di Rocky Balboa: "Io ci provo".

Allora tentiamo, umilmente, e cominciamo con cavalleria: prima le signore.

CLIJSTERS: UNA QUESTIONE DI FAMIGLIA

Anzi la signora Clijsters Kim. In Lynch. Ed ecco subito una prima variabile importante della carriera della belga di Blizen, che lega radici e prospettive: quella della famiglia. La voglia di essere mamma è stata una costante dell'intera seconda versione: in ogni trionfo, la piccola Jada Elly sulla scena, e il marito ad osannarla. Una specie di Filippo di Edimburgo, noto più per la sua coniuge che per le sue vicende da cestista in seconde leghe europee. Insomma per la campionessa il desiderio di essere leggenda anche tra le quattro mura, in futuro, e un ritiro che nasce soprattutto da quest'esigenza. Forse, l'obiettivo di ricalcare l'impegno e il contributo dei suoi genitori, determinanti nel suo profilo di sportiva, e che nello sport non trova semplicemente i soldi, la stabilità economica, il lavoro ma l'unica strada per essere sè stessi, con orgoglio, e personalità.

Ecco allora la chiave n.1 del successo della Clijsters: essere leggenda perchè determinata e testarda, leale e orgogliosa, cosmopolita ma forte di origini fiamminghe difese con i denti. Avere quindi tutto un background che è merito anche di un padre e di una madre amati anche come atleti, prima ancora che genitori. Del resto anche loro hanno saputo convivere con i trionfi e i nomi sui giornali: in altre parole il successo. Un vantaggio non da poco, per chi come lei ha dovuto spesso cavalcare le onde dure della rivalità e della competizione, senza però sottovalutarne i rischi e i compromessi, superabili soltanto con il lavoro, l'allenamento, la testa bassa oltre la stampa.

E' quindi una lezione utile, decisiva anzi, quella di papà Leo e mamma Els: lui difensore della nazionale di calcio belga e capitano in due mondiali; lei ginnasta di fama internazionale. Un bel cocktail di influenze, che si esprime poi nello stesso fisico di Kim: un mix miracoloso tutto potenza e agilità, muscolatura e flessibilità. Una miscela esplosiva, da n.1.

Ma parlavamo poco fa di origini, di radici. Cogliamo allora la palla al balzo nata ragionando, per una seconda chiave di lettura. Quella della rivalità con una nemica/amica di un certo calibro. Anzi, di calibro super come Justine Henin. Un rapporto singolare, forte ma precario, di unità ma anche di diversità, quello tra le due eroine del tennis belga.

Amiche? Senz'altro, perchè un'incompatibilità totale non avrebbe proiettato il Belgio piccolo e diviso come forza compatta e dominante nel tennis che conta, rompendo il discorso Est-Ovest. Ma anche nemiche, non c'è dubbio. E non perchè lo siano state per davvero: nemiche nel senso tennistico. Quindi nel modo di essere (e di porsi rispetto ai media), nella provenienza, nel modo di giocare: diversità quasi antropologiche.

La Clijsters è il cavallo di razza di una dinastia affermata, una predestinata che già tra il '98 (ottavi a Wimbledon, partendo dalle qualificazioni, all'esordio Slam) e il '99 domina la stagione junior, fa i suoi primi piazzamenti che contano, vince il primo WTA in carriera, a Lussemburgo, ed entra tra le prime 50: tutto normale. Justine invece nasce dal nulla di una famiglia spaccata e autoritaria, senza madre e con un padre tutto mani e poche parole. La prima ben disposta verso la stampa e i media, cordiale con tutti, scomposta mani; la seconda più fredda,che ama i fatti, soprattutto, dandole quella falsa impressione di superiorità che tante critiche le ha attirato. Insomma Kim più a suo agio, decisamente, in questi tempi dove il campo premiava il fondo, la costanza, l'aggressività, le bordate e i bei volti su video e prime pagine; Justine invece di un'altro pianeta, anzi di un'altra epoca.

Come il suo tennis, fatto di rovesci ad una mano, smorzate e gioco di volo (ma senza servizio), e con quel talento che spesso l'ha portata col naso avanti, ma che sarebbe stupido non abbinare a Kim. Magari meno scintillante, specie nei loro confronti Slam a metà anni 2000, i più densi di emozioni senz'altro. Magari più sotterraneo, ma utile in più di un momento, con un recupero di polso, o una stop-volley pregiata.

Come quando c'era una Williams da affrontare, vincendo o perdendo non contava. E le interessate ne sanno qualcosa, di quest'altro autentico scontro a distanza, tra i più belli degli ultimi dieci anni. Fin dal Masters del 2002, quando Venus e Serena in serie cedono, dando anche l'occasione di un record ancora in piedi, quello del minor numero di game persi. Intanto l'exploit è un fatto compiuto già dall'anno prima, con la finale a Parigi sconfiggendo la Henin e la prima Fed Cup belga della storia, ma le conferme vere e proprio arrivano con i nove trionfi del 2003, l'anno della consacrazione. Sydney, Indian Wells, Stanford e Los Angeles, Roma, Hertogenbosch, la "vecchia cara" Lussemburgo, Fiderstadt e dei WTA Championships: un carniere da sogno, che l'11 agosto di quell'anno vale la prima settimana al numero 1, stessa posizione nel doppio.

"Peccato" ci siano le sorelline a rovinare la festa a Melbourne Park e Flushing Meadows, con due semi fallite. Senza contare la solita guastafeste Justine, che anzi assume a pieno titolo l'etichetta di bestia nera sbarrando la strada negli altri due Slam. Stavolta in finale: partite altalenanti quelle, chiamate dubbie, sono i segni di un confronto che però appassiona un paese, un mondo intero.

Che freme tutto per il 2004,  quando però sfumati ancora gli Aussies, all'ultimo atto, e sempre con la Henin, al termine di un altro confronto controverso, arriva la tegola infortuni: prima un gravissimo infortunio al polso, poi una distorsione alla caviglia, finiscono con il comprometterle l’intera stagione: un grande rimpianto, forse il più grande, quella stagione, fatta su misura nel pieno di un cambio generazionale, e che segna anche la fine di un fidanzamento lungo e nell'ambiente, con Llleyton Hewitt, franato sullo scoglio del matrimonio.

Ma i rimorsi e le sofferenze non durano: sono la tempra e l'ambizione, così il 2005 non è soltanto l'anno del ritorno, del ritorno ai piani alti (n.2), ma anche del primo trionfo Slam a New York, contro la già stagionata May Pierce, carnefice di Justine. L'America sembra quasi che porti bene, alla rientrante da n.133: alla terza settimana dal rientro ufficiale vince a Miami, poi durante l'anno Eastbourne, Stanford, Los Angeles e Toronto, tanto per reagire alle precarie condizioni in quel di Parigi e Londra. Tutti i titoli negli States, o quasi. E nasce un feeling, possiamo dirlo, con l'oltreoceano, che resterà e anzi si rafforzerà, fino all'ultimo scambio. Ma di anni per chiudere questo libro ne mancano, eccome.

Arriva così il 2006, con attese simili a due anni prima: i risultati ci sono, la classifica anche (con la n.1 raggiunta a febbraio). Allora serve continuità. Ma è ancora la sfortuna a mettersi di mezzo: stavolta l'anca a tradire, quella sinistra, ed in uno con la caviglia la mette fuori gioco in semifinale a Melbourne. Il tutto spianando la strada a una certa Amélie Mauresmo, che del 2006 avrà molto, molto da ricordare, a partire da quel trionfo sul cemento: vittima l'ormai alter-ego Henin. Che si rifarà, e proprio a spese di Kim, su quell'asse Parigi-Londra che sarà avaro di soddisfazioni.

Eppure ha solo 24 anni, c'è tanta strada da fare, ma a cavallo con il nuovo anno, tutto precipita, scorre in fretta. Troppo in fretta. Cominciando da settembre, con un altro infortunio: l'ennesimo, sempre all'anca, e addio US Open. Troppi i ritmi, le pressioni, insostenibili dopo gli Australian Open, sconfitta duramente dalla Sharapova. Eppure l'anno inizia bene, con un trionfo a Sydney in rimonta, su Jelena Jankovic. Ma nulla. Così arriva il primo ritiro, per investire tutta sè stessa nella famiglia e nel matrimonio.

Ma poi alla sfortuna subentra il dramma della morte del padre, nei primi mesi del 2008: forse un appello a ritrovare quello sport lasciato troppo presto per pressioni troppo forti solo in apparenza. E quando arriva la proposta, la Clijsters non pensa due volte all'esibizione di Wimbledon del 17 maggio 2009: festeggiato il nuovo tetto. Ma anche lei, visto che pochi mesi dopo, galeotta fu una wild card, Kim rientra, e spacca le gerarchie.

E' in palla da subito, forse le pressioni di un tempo che non senti più, e tutta questa leggerezza ti porta ad infilare in serie Kutuzova, Bartoli, Flipkens. Fino a due delle tre solite rivali di sempre, ancora loro: Venus e Serena. E come tradizione che si rispetta, sono partite da ricordare. Con "Venere" il discorso sembra chiuso dopo il primo, ma un contro-cappotto della sorella terribile riapre tutto. Nel terzo è poesia pura, ma la rivincita pesa su qualsiasi superiorità atletica, ed è 6-4 per la Clijsters. Con Serena invece ricorderemo tutti il famoso fallo di piedi dell'americana sul 4-6; 5-6 15-30, il "I will kill you" detto in trance alla giudice di sedia, e la squalifica che piomba di colpo, consegnando una finale inattesa, ma che Kim merita sul campo, e per lo stile. Lo stesso stile che, tra guanto di ferro e mano di velluto, annienta la n.1 del mondo Caroline Wozniacki: bella, giovane, ma una barbie per molti, tutto fumo e niente arrosto, in vetta ma senza Slam. E senza Slam rimane, visto che Kim ha dalla sua l'arma raffinata e tagliente dell'esperienza, una lama che colpisce netta, e in profondità: poco o più di 90' per un successo da mamma, un successo che di lì a poco rianimerà l'altra dioscura. Justine infatti, scossa dall'amica/nemica, anzi ammaliata, è pronta a rientrare, l'orologio può tornare indietro.
  
E il 2010 in effetti sembra farlo, visto che a Brisbane, al primo giro di valzer, ecco le due rivali di sempre una di fronte all'altra. Ovviamente al momento che gli spetta, in finale. Ed è tennis-champagne, con un magnifico 7-6 al terzo, e Kim che stavolta alza le braccia, in una sfida che pesa, davvero. Era head-to-head dai rispettivi rientri, e già con la semifinale di Miami, di poche settimane dopo, si capisce che è cambiato qualcosa: alla distanza pare Kim più brillante, Justine proverò ad imitare in Australia quanto fatto dall'amica/nemica, ma sbattendo contro Serena, e nasce un trend senza inversioni: niente più sconfitte a seguire, e un bilancio che in definitiva reciterà 13-12: un bello scherzetto, che ripaga in parte di tante delusioni.

Ma anche il segno di una competitività ritrovata, e che la Clijsters, quasi da madre nobile di un tennis con troppe "bamboline", farà valere in silenzio, con i fatti. Prima quelli di fine anno con il suo terzo US Open (il secondo consecutivo, vittima l'outsider Zvonareva), e poi a gennaio, centrando gli Australian Open rifacendosi su Na Li, vincitrice due settimane prima a Sydney, e di lì a poco carnefice della nostra Leonessa sul battuto rosso di Port d'Auteil. Ed ecco che la numero uno ritorna di moda, più meritata che mai.

Ma proprio quando tutti sembrano immaginare un futuro di dominio, ecco la regola della sfortuna che si ripresenta. E colpisce il fisico, che torna a scricchiolare: spalla, polso, addominali, anca, problemi gastrointestinali, la lista pare interminabile. Tutto rema contro, e frantuma così in pezzi quella che poteva essere un'altra stagione perfetta. Poteva. Perchè dopo quel 29 gennaio pare difficile aggiungere, scavare nel libro dei bei ricordi. Pare anzi un'impresa, con soli sei tornei giocati, nessun titolo, e sei sconfitte in diciotto partite. Un ruolino assurdo, non da Clijsters, inevitabile quanto avvilente. Una vera picconata, ma che ancora non sfalda il muro della motivazione, che resta compatto almeno fin quando resta in piedi la difesa il titolo vinto in Australia.

Lì è tutta questione di orgoglio, fino alla semifinale/ cambio di testimone con Vika Azarenka, che forse sentenzia la morte clinica della Clijsters tennista: dopo vero ci saranno altri stop, altri acciacchi, ma quel filino che ancora la legava alla competizione, al circuito, all'insegnamento dei suoi genitori, si ferma lì. La sua pelle appare così grassa, indifferente a sogni olimpici, azioni epiche per chiudere con stile una grande carriera.

Ma Kim è anche semplice, non ha bisogno di momenti simbolo, frangenti memorabili per ricordarsi del suo talento, della sua grandezza: ci sarà anche, il momento dell'omaggio, del tributo, in quella Anversa che con 13mila spettatori,  il Principe Filippo e la Principessa Matilde sugli spalti, l'appaludono nell'ultimo sforzo, l'ultimo colpo. L'ultimo successo contro Venus Williams, altra grande avversaria di sempre. Per noi tutto si consumo il 29 agosto, contro una diciottenne che oggi ha solo la speranza, di eguagliare la classe e la potenza di una belga indimenticabile. Semplicemente Kim, la signora Kim.
   
FERRERO E RODDICK: GLI ULTIMI GRANDI DEL "REGNO DI MEZZO"

"Ahi ahi Mosquito!” Fu questa fu la mia prima reazione, incollato agli schermi di Eurosport, tre mesi: “Ma come, ci siamo appena ripresi per il ritiro di A-Rod e ci tramortisci così?”, continuo a domandarmi. “Ebbene sì”, mi rispondo con realismo, e un pizzico di nostalgia. Così il torneo di Valencia, e gli ultimi scambi con Nico Almagro - uno che grande potrebbe e non potrebbe esserlo, proprio grazie al suo coaching part-time -  fanno calare inesorabile il sipario sulla carriera di Juan Carlos Ferrero. A pochi giorni quasi dal suo rivale nell'ultima finale Slam del dominio Federer, poi del duopolio, infine della "Fab-Four era".

Quel Roddick che per solo il fatto di dover raccogliere da solo l'eredità che appartiene prima a due grandi come Sampras ed Agassi, poi ad una tradizione come quella USA, trionfatrice ovunque nei vent'anni precedenti con McEnroe e Connors, Tanner ed altri, aveva su di sè un compito da far tremare i polsi.

E con loro ai box, scendono davvero i riflettori di quella che potremmo chiamare la generazione di mezzo: quella schiacciata tra gli imperi di Sampras e di Federer, quella di cui pochi hanno assaporato e conosciuto il valore. E questo perchè il facile salto logico che vorrebbe loro, insieme ad altri come Hewitt e Safin piccoli tappabuchi che hanno approfittato di un periodo di vuoto non è dimostrabile in alcun modo, anzi: e se quel vuoto l’avessero provocato loro? Se Sampras fosse decaduto e Federer non fosse esploso prima proprio a causa della presenza di così tanti talenti in contemporanea?

A rompere l’incantesimo di Sampras fu proprio Safin: dopo essere stato severamente sconfitto a Flushing Meadows nel 2000 Pistol Pete non vinse più alcun titolo per due anni. L’anno dopo a disintegrarlo in finale fu Hewitt, e non può valere la scusa che non fosse più il Sampras di un tempo, visto che a New York rimase competitivo fino alla fine.

E che dire di Federer? Prima di decifrare il gioco di Hewitt subì sette sconfitte in nove confronti (tutte nel periodo del cosiddetto interregno, 2000-2003); con Ferrero è riuscito a distaccarsi negli head-to-head solo nel 2005; con Safin perse a Melbourne nel 2005 all’apice della forma: solo con Roddick ha avuto vita relativamente facile, non perché Andy fosse più scarso degli altri ovviamente, ma per lo stile di gioco che si incastrava alla perfezione col suo.

Insomma per quanto siano stati chi martoriato dagli infortuni (Ferrero), chi poco avvezzo al sacrificio (Safin), chi incostante nel rendimento (Hewitt), chi sfortunato nel beccarsi un campione il cui gioco gli neutralizzava ogni punto di forza (Roddick), i signori in questione hanno tutti dato il proprio contributo alla storia del tennis. Una generazione di "gloriosi sfigati" se vogliamo, ma brillanti come pochi, e nel periodo al vertice ossi duri per chiunque, probabilmente con poco da invidiare anche ai Fab Four attuali. Il problema è che quell’apice non è durato abbastanza da permettere alla loro considerazione di raggiungere livelli da leggenda, benché tutti e quattro vantino multiple finali di Slam, numerosi tornei di peso nel proprio curriculum e almeno tre anni passati in top-5.

Fra questi signori, per Andy il maggior numero di "Cosa sarebbe successo se..."; per Juan Carlos Ferrero il dramma sportivo più grande, trattandosi di quello meno celebrato nel proprio paese, vista la successione scomoda del  più forte terraiolo di sempre e arci-rivale di Federer. Hewitt è stato l’ultimo grande australiano, Safin l’ultimo grande russo, Roddick l’ultimo grande americano.

E partiamo proprio da quest'ultimo grande. Anche per lui una sconfitta che sa di cambio di testimone, ma senza connazionali a beneficiarne. Un americano sì, ma del sud, e speciale, talentuoso, come Juan Martin Del Potro. Scenario gli ottavi di finale dell'unico Slam che aveva portato a casa: quel Artur Ashe del National Center che nel 2003 era ai suoi piedi, tra mille ovazioni e tanti progetti da predestinato. 

Il ritiro era nell’aria da diversi mesi, e l’annuncio è arrivato un po’ a sorpresa, nei tempi e nei modi: durante la conferenza stampa post-match, e lotano da quel campo dove Sampras, congedandosi, vinceva il suo ultimo Slam, dieci anni prima. Oppure Agassi, sconfitto da un Becker dei poveri come Benjamin, ma con tutti gli onori e gli applausi delle armi. Diverso anche in questo, Andy, che lascia il tennis professionistico dopo aver vinto 32 tornei ATP, oltre allo Slam di casa,  e 5 Masters 1000, e dopo essere stato numero 1 al mondo per 13 settimane, che gli hanno consentito di chiudere il 2003 in testa al ranking. E’ stato uno dei migliori interpreti del gioco “servizio e dritto“, grazie a un servizio incredibile senza il quale (inutile negarlo) difficilmente avrebbe raggiunto i risultati ottenuti.

La sua carriera non può non essere associata a quella di un altro tennista: Roger Federer, il suo più grande incubo tennistico. 21 sconfitte in 24 scontri diretti, un bilancio pesantissimo. Soprattutto perché 4 di queste sono arrivate in una finale del torneo dello Slam. Possiamo affermare che Roddick sia capitato nell’era tennistica “sbagliata”, l’era di Federer, Nadal e ora Djokovic, forse Murray. Ma la sua carriera è stata comunque ricca di soddisfazioni.

Il primissimo titolo arriva a Atlanta nel 2001, sulla terra battuta, ironia della sorte, contro una vecchia volpe come Malisse. Inizia lentamente a scalare la classifica, e chiude il 2001 al decimo posto. Ma è il 2003, senza alcun dubbio, il miglior anno della sua carriera. Raggiunge la prima semifinale a Wimbledon, perdendo da Federer (la prima di tre sconfitte consecutive a Londra), ma compie il suo capolavoro nella stagione sul cemento americano. Vince infatti il torneo di Indianapolis, e soprattutto i Master series consecutivi di Canada e Cincinnati, diventando l’ultimo tennista a riuscire in questa impresa. La sua estate magica si conclude con la vittoria degli US Open in finale contro Ferrero. A 21 anni conquista così il suo primo e unico torneo dello Slam. Con la successiva semifinale a Parigi Bercy diventa numero 1 al mondo, superando proprio Ferrero, e chiudendo il 2003 in testa al ranking.

13 settimane dopo, la sconfitta ai quarti di finale degli Australian Open 2004 contro Safin gli fa perdere la prima posizione a vantaggio di Roger Federer, che inizia così il suo lungo regno. Si aggiudica il Master series di Miami, e a Wimbledon raggiunge la sua prima finale, perdendo in 4 set, ancora, da Federer. Chiude l’anno al secondo posto, ma il gap con lo svizzero inizia a diventare troppo grande.

Nel 2005 Roddick raggiunge nuovamente la finale a Wimbledon, e anche questa volta non può nulla contro Federer, che lo sconfigge nettamente in 3 set. La storia si ripete poche settimane dopo a Cincinnati, dove Roger supera agevolmente Roddick in finale. Andy accusa il colpo, perdendo clamorosamente al primo turno agli US Open, e subendo il sorpasso di Nadal in classifica. E’ ufficialmente iniziato il duopolio Federer – Nadal, e Roddick chiude l’anno al terzo posto.

Roddick non riesce immediatamente a accettare il ruolo di “terzo incomodo”. I risultati e le vittorie non arrivano più, e scivola in 11esima posizione. Decide quindi di passare sotto la guida tecnica di Jimmy Connors, e torna a ottenere nuovamente risultati importanti. Fa suo il Master series di Cincinnati e soprattutto raggiunge la finale agli US Open, dove viene sconfitto (indovinate?) ancora da Federer. Chiude l’anno in sesta posizione.

Il 2007 si apre con una nuova delusione, l’ennsima sconfitta contro Federer in semifinale agli Australian Open. Il punteggio è 6-4 6-0 6-2, in quella che in molti hanno definito la miglior partita di sempre giocata da Roger. Ma a fine anno Roddick riesce a vincere la Coppa Davis aggiudicandosi tutti gli incontri di singolare. Chiude nuovamente l’anno al sesto posto.

Nel 2008 la soddisfazione più grande arriva dal torneo di Dubai, in cui elimina consecutivamente Nadal e Djokovic, per poi vincere la finale contro Ferrer. Nonostante non riesca più a brillare nei tornei dello Slam resta saldamente nella top-ten, chiudendo l’anno all’ottavo posto.

Ma è il 2009 l’anno che più di tutti segna la carriera di Andy. O meglio, è una partita, una lunghissima partita, la finale di Wimbledon. A sorpresa infatti Roddick torna in finale a Wimbledon, dove incontra ancora una volta Roger Federer. Roddick vince il primo set 7-5 e al tie-break del secondo set non sfrutta 4 set point consecutivi, uno dei quali sbagliando una semplice voleè. E’ il colpo che Andy non dimenticherà mai. Federer vince secondo e terzo set, ma l’americano vince il quarto, e i due danno vita a un incredibile quinto set, vinto da Federer per 16-14. Per Andy è una batosta, che dà il via al suo declino.

Chiuso il 2009 al settimo posto, il 2010 si apre alla grande: finale a Indian Wells (in cui perde contro Ljubicic) e vittoria al Master 1000 di Miami, ma è l’ultimo acuto della carriera. Chiude l’anno all’ottavo posto, per poi perdere progressivamente posizioni nel 2011, che chiuderà al 14esimo posto.L’ultimo torneo risale allo scorso luglio a Atlanta, in finale contro Muller.

Chiusura un pò in sordina, un pò deprimente, per un tennista che certamente avrebbe meritato molti più successi. Più di tutti avrebbe meritato un titolo a Wimbledon, ma sulla sua strada ha sempre trovato un grandissimo Roger Federer. Fosse nato 2-3 anni prima probabilmente avrebbe “tolto” a Hewitt alcuni dei suoi successi e probabilmente avrebbe in bacheca un paio di Slam in più.

Come Ferrero, che personalmente ricordo attraverso un aneddoto, un pò acerbo, da fresco dodicenne che attratto dalla magia del satellite, si gustava i primi Masters Series.

13 maggio del 2001. Caldo afoso, pomeriggio romano con tutti i crismi  per l’ultimo atto degli Internazionali tra il Re della terra Guga Kuerten, numero 1 del mondo dal rovescio ad una mano "spontaneo", e uno spagnolo 21enne con mash che riflettevano i raggi del sole:Juan Carlos Ferrero.

Da quel giorno, il mondo del tennis lo scoprirà come il Mosquito di  Onteniente: agile e scattante, bravo nel diritto e nei tergicristalli dal fondo, e che farà suo quel titolo con la velocità, dopo oltre tre ore di gioco, facendosi conoscere più che mai al grande pubblico. Il titolo arrivò proprio nel giorno della festa della mamma, lui, che la mamma l’aveva persa qualche anno prima, per un male incurabile. Juan Carlos voleva smettere di giocare, appena sedicenne, ma ha trovato la forza, anche grazie al suo storico coach Antonio Martinez, di continuare a crederci, di trovare ogni successo per lei, sua mamma, e dedicarglielo.
Juan Carlos aveva gli occhi felici ma allo stesso tempo tristi quel giorno. Guardava al cielo con gli occhi lucidi. Un pensiero, il primo, sarà sicuramente volato in cielo, nel giorno del suo primo grande successo.
Lo spagnolo aveva, in realtà già nel 1999, trionfato nel torneo Atp di Mallorca e l’anno dopo fatta sua la Coppa Davis, proprio grazie ad un suo successo su Pat Rafter, in quello che risultò essere il punto decisivo.

Nello stesso anno arriveranno i successi di Barcelona, Estoril e Dubai. Sarà un 2001 magico che lo porterà a chiudere la stagione al numero 5 del mondo.

Ma il meglio dovrà ancora venire. Il 2002 è l’anno del suo successo a Montecarlo e la finale al Roland Garros oltre a quella colta al Master di fine anno, persa contro Lleyton Hewitt, mentre il 2003 è l’anno della consacrazione con la vittoria al Roland Garros in finale contro Verkerk ma soprattutto l’incoronazione a numero 1 del mondo, a Flushing Meadows, dopo la vittoria in semifinale con Andrè Agassi, nonostante poi la sconfitta in finale con Andy Roddick. A fine anno, Juanqui, venne incoronato come “sportivo spagnolo dell’anno” da Re Juan Carlos.

La sua leadership durò soltanto 8 settimane, non arrivando nemmeno alla fine dell’anno, chiuso poi ad un numero 3 più di numero che di sostanza.

Poi da quel momento, proprio quando bisogna rilanciare l'andatura, arrivano gli infortuni. La sfortuna anche per lui, frenandone la crescita. Che diventa addirittura involuzione nel 2004, l'anno del fondo che viene raschiato,  prima con la varicella e poi con gli imprevisti romani  che ne compromisero di fatto il Roland Garros. A fine anno risultò addirittura fuori dai primi 30, ma non smise di lottare, come da sempre nella sua indole.

Juan Carlos continuò tra alti e bassi in classifica ma non toccò più le alte vette del ranking. Uscì addirittura dai 100 nel 2009 e sembrò vicino al ritiro. Non vinse più titoli fino a quell’anno, anche se raggiunse sempre almeno una finale. Il 2009 fu però l’anno del successo a Casablanca, a 29 anni, vittoria che ne sancì il ritorno tra i top 100 ed il ritorno a nuovi stimoli per continuare la carriera da professionista.

Gli ultimi due anni della sua carriera sono storia recente, con Juan Carlos capace, soprattutto nel 2010, di tornare grande nei piccoli tornei, ma mancare ormai l’acuto nei torni più importanti. Riuscì a tornare addirittura tra i top 30 alla fine del 2010, segno di un grande spirito di abnegazione da esempio per molti dei suoi colleghi, che ne hanno sempre apprezzato dedizione e cordialità.

Cordialità, perché Juan Carlos è stato un campione non solo in campo, ma anche e soprattutto fuori. Personalità squisita dalla gentilezza fuori dal comune, è stato un campione umile, capace di vincere tanto ma restare sempre con i piedi per terra. Sempre composto, mai una voce fuori dal coro.
Ha pagato dazio l’arrivo di Rafael Nadal, arrivo che ne ha appannato la sua personalità. Sempre al servizio della sua nazionale, vi ha partecipato anche nell’ultima spedizione vincente, in cui ha anche giocato un singolare, all’età ormai di 30 anni.

Il 2012 è un vero e proprio calvario: ben 8 le sconfitte al primo turno su 11 tornei disputati. Un buon terzo turno a Roma dove strappa un set a Roger Federer è l’ultimo sussulto. Poi nuovi grattacapi fisici che ne falsano il rendimento. Eliminato ad Umago dal giovane Mate Pavic, raggiunge il momento più basso della sua carriera.

A 32 anni ormai compiuti, l’annuncio del suo ritiro, nel suo torneo. Già, perché Ferrero è stato ed è un personaggio molto attivo anche al di fuori dal campo da tennis. Possiede infatti una catena di Hotel che portano il suo nome, vicino Valencia, ed ha una Accademia, l’”Equelite Tennis Academy”, dove seleziona giovani talenti.

Lascia il mondo del tennis con 16 vittorie in singolare a fronte di 18 sconfitte nelle finali Atp. Un titolo del Grande Slam e due vittorie in Coppa Davis.

Non dimentichiamo però, nel declino, qualche stop eccellente. Per esempio, nel 2007 e nel 2009, ricordiamo due grandi performance a Wimbledon, quando ormai fuori dalla top-20, senza più la forma fisica di un tempo e incapace di competere nei grandi tornei su quella che era stata la sua superficie preferita, seppe riadattare il proprio gioco ritrovando gli angoli giusti, in particolare col dritto. Raggiunse i quarti di finale, un risultato sfuggitogli anche quando era all’apice, e per fermarlo dovettero scendere in campo rispettivamente Federer e Murray.

Davide Uccella

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