06/12/2013 12:44 CEST - Personaggi

Mandela, lo sport e la Rainbow Nation

NON SOLO TENNIS - Nelson Mandela è morto. Ricordiamo come abbia sfruttato lo sport, e il rugby, per portare il Sudafrica a superare l'apartheid. Lo sport come elemento per superare le barriere e cambiare la storia. Alessandro Mastroluca

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Nelson Mandela premia Francois Pienaar dopo la vittoria ai Mondiali di Rugby del 1995
Nelson Mandela premia Francois Pienaar dopo la vittoria ai Mondiali di Rugby del 1995

Nei lunghi anni di prigionia a Robben Island, Nelson Mandela" imparò una lezione importante sulla natura unificatrice dello sport, (sull')importanza che ricopriva universalmente lo sport, il suo valore politico e la sua capacità di indicare la differenza tra ciò che è giusto o sbagliato". Così scrivono scrivono Chuck Korr e Marvin Klose in Molto più di un gioco. E' attraverso il rugby che Mandela pone le basi per abbattere il regime di apartheid e diventare il primo presidente nero del nuovo Sudafrica. E non è affatto una scelta scontata.

Da giovane, scrive John Carlin nel suo Playing the enemy, Mandela sembra un giovane e sfrontato Mohammed Ali, che spaventa i sudafricani bianchi, strappa pubblicamente il pass che i neri sono obbligati a portare per viaggiare e grida che un giorno diventerà il primo presidente nero della nazione. A volte va in giro con la tuta mimetica e invoca la resistenza armata per il fallimento di anni di non violenza.

Gli piace mostrare il suo fisico, affinato grazie al pugilato, e vestire come un dandy. «Era l’unico nero», scrive Carlin, «i cui vestiti erano tagliati dallo stesso sarto del più ricco uomo del Sudafrica, il magnate dell’oro e dei diamanti Harry Oppenheimer». Il suo ruolo come riferimento dell’opposizione al regime inizia a crescere, diventa comandante in capo della Umkhonto we Sizwe, il braccio armato dell’ANC, ma nel 1964 viene arrestato e accusato di coinvolgimento nell’organizzazione di azione armata, in particolare di sabotaggio (reato del quale Mandela si dichiara colpevole) e di cospirazione per aver cercato di aiutare gli altri Paesi a invadere il Sudafrica (di cui Mandela si dichiara invece non colpevole). Gli inglesi lo rinchiudono a Robben Island, l’isola dove un secolo e mezzo prima avevano imprigionato il grande condottiero Makana, della tribù Xhosa come Mandela.

Mandela ha tutte le ragioni per odiare il rugby, che è lo sport dei bianchi, degli afrikaner, tanto che in ogni partita degli Springboks i neri che riempiono un angolo dello stadio tifano per la nazionale avversaria. Ma durante i ventisette anni a Robben Island, Mandela, il prigioniero numero 46664, rinchiuso nella cella cinque del blocco B, si sforza al massimo di capire il gioco. «Mi piaceva il rugby, ma non ero un fanatico come molti sudafricani bianchi», racconta Cristo Brand, «si può dire che la mia conoscenza del rugby sia cresciuta insieme a lui. Sapeva che era qualcosa di cui i guardiani avrebbero sempre parlato, che era uno strumento per rendere possibile un rapporto personale, perciò cercò di imparare tutto quello che poteva, di raccogliere tutti i pezzi di informazione. Abbiamo iniziato a parlare: è stato un modo per connettere due mondi che non si supponeva dovessero incontrarsi».

Brand è stato il guardiano di Mandela dal 1978 al 1990 a Robben Island prima e a Pollsmoor poi. Mandela e Brand si avvicinano, tanto che Brand porta suo figlio di otto anni, Riaan, in carcere, e
Mandela lo tiene in braccio. Il presidente sarà molto vicino alla sua ex guardia quando, nel 2005,
Riaan morirà in un incidente in moto. Quando è arrivato sull’isola aveva diciotto anni, e poco tempo dopo, il 18 luglio, Mandela festeggiava il sessantesimo compleanno. «Quel giorno» ricorda, «sono arrivate cartoline e messaggi di auguri da tutto il mondo. In quel momento pensai che non fosse giusto che un uomo così amato stesse rinchiuso lì».
Mandela, prosegue Brand, in prigione ha approfondito la comprensione del modo di agire e pensare dei sudafricani bianchi avvicinandosi al rugby. Ha capìto che è uno sport che porta individui anche molto diversi a giocare come squadra, ha realizzato che vi erano coinvolte molte brave persone, coraggiose e disposte al cambiamento, anche se si trattava pur sempre dello sport degli Afrikaner, dei bianchi.

Ha letto la storia degli Afrikaner, e attraverso il rugby, come ha scritto Carlin, a Robben Island ha imparato a pensare come il nemico («play the enemy»). Ne ha imparato il linguaggio grazie ai compagni di prigionia, ne ha assorbito forze e vanità: ha trasformato il carcere nel laboratorio della sua futura leadership politica.

Il Sudafrica e il rugby

Anche prima che passassero le leggi sull’apartheid, nel 1948, le nazionali invitate in Sudafrica non schieravano giocatori non bianchi ma queste scelte non avevano suscitato molte reazioni. La scena inizia a cambiare con il famoso discorso The Wind of Change con cui, il 3 febbraio 1960, il Primo Ministro britannico Harold Macmillan si rivolge al Parlamento sudafricano, a Cape Town, evidenziando la volontà di un cambiamento della politica britannica verso l’apartheid.

Poco più di un mese dopo, il 21 marzo, il Pan Africanist Congress (PAC) organizza una manifestazione pacifica a Sharpeville per protestare contro il decreto governativo dello Urban Areas Act, noto come «legge del lasciapassare» che obbliga i neri a esibire un permesso speciale se fermati dalla polizia nelle aree riservate ai bianchi. I dimostranti (tra cinque e settemila) si radunano alle dieci alla stazione di polizia di Sharpeville, si dichiarano senza lasciapassare e chiedono di essere arrestati. La polizia tenta di disperderli schierando veicoli blindati e ordinando il volo radente dei caccia militari, senza risultato. Alla fine, alle 13.15, apre il fuoco sulla folla: sessantanove persone muoiono, oltre centottanta restano
ferite.

In conseguenza del massacro, e della conseguente escalation della protesta, il governo ordina la legge marziale. L’operato viene ufficialmente condannato dall’Onu e il Commonwealth estromette il Sudafrica. Le nazionali sudafricane sono escluse dalle competizioni internazionali.

Anche all'estero, cresce la protesta contro la nazionale sudafricana. Nel 1967 l’opposizione verso l’impiego di giocatori maori convince gli All Blacks, la fortissima nazionale neozelandese, ad annullare il previsto tour in Sudafrica. Nel 1969 gli Springboks sudafricani giocano un ciclo di tre partite in in Gran Bretagna in campi circondati dal filo spinato per il montare delle manifestazioni contro l’apartheid. Nel 1970 i neozelandesi tornano in Sudafrica: ai giocatori e agli spettatori maori viene riconosciuto lo status di «bianchi onorari».

Ragioni di sicurezza convincono poi il primo ministro neozelandese Norman Kirk a cancellare la trasferta del 1973: a fine anno, Arthur Ashe sarà il primo tennista di colore in campo a Johannesburg. Nel 1976 scoppia la rivolta a Soweto e ventotto nazioni boicottano le Olimpiadi di Montreal. Un anno dopo il Commonwealth sottoscrive l’accordo di Gleneagles, che scoraggia ogni tipo di contatto sportivo con il Sudafrica.

Nel 1979 il governo francese stoppa la programmata tournée di una selezione mista, i South African Barbarians, nel Paese. Due anni dopo Errol Tobias sarebbe diventato il primo rugbista sudafricano non bianco a giocare in nazionale, durante un match contro l’Irlanda.

Ma il 1981 è soprattutto l’anno del tour del Sudafrica in Nuova Zelanda, in violazione dell’accordo di
Gleneagles. Una decisione presa con l’assenso, di fatto, del governo neozelandese. Il Primo Ministro Robert Muldoon esprime infatti una posizione di non interferenza della politica nello sport: i critici sostengono che si tratti di una mossa studiata per assicurarsi i voti nelle zone rurali in vista delle elezioni, in programma di lì a breve (e che in effetti il suo partito, il National Party, vincerà). La decisione fa esplodere la protesta degli attivisti maori, che in due occasioni riescono a fermare gli incontri: ma la società si spacca e vive i più cruenti scontri di piazza della sua storia, seppur senza morti.

L’Apartheid viene ufficialmente abolito tra il 1990 e il 1991, e nel 1992 gli Springboks sono riammessi nel rugby internazionale. Nel primo due match perdono 27-24 dalla Nuova Zelanda: all'inizio, al posto dell'inno nazionale, in cui viene suonato Die Stem, l'inno degli afrikaner.

La grande occasione di redenzione per quella che l’arcivescovo Tutu ha definito la Rainbow Nation
sono i Mondiali del 1995, che si disputano proprio in Sudafrica: «Una squadra, una nazione» è il motto che accompagna gli Springboks, elaborato dal CEO della South African rugby union, Edward Griffiths.

Ma se quella nazione riesce a sentirsi davvero una nel tifare per una stessa squadra lo deve soprattutto a Nelson Mandela e Francois Pienaar. Il loro incrocio di destini trasforma questa storia in un simbolo epico di cui mai si perderanno le tracce nella memoria collettiva.

La presidenza e l’incontro con Pienaar
Mandela viene liberato l’11 febbraio 1990, e nel 1991 viene eletto presidente dell’ANC. Il 10 maggio 1994, dopo le prime storiche elezioni multirazziali del 25 aprile, diventa presidente del nuovo Sudafrica. E decide di usare proprio la leva del rugby per dare il primo segnale di novità. Pensa a Francois Pienaar, «il figlio biondo dell’apartheid», il capitano degli Springboks, che come molti Afrikaner, non ha mai contestato l’apartheid e la sua supposta moralità, non si è opposto alle discriminazioni.

Il 12 giugno 1994 Mandela, presidente da poco più di un mese, lo convoca nel suo ufficio, gli offre il tè e gli presenta l’essenza del suo audace piano per il futuro. «Con lui mi sentivo sicuro», racconterà Pienaar «ho lasciato il suo ufficio con la convinzione che il Sudafrica fosse in buone mani».

Mandela deve affrontare anche l’opposizione “interna”, dei neri, in vista del Mondiale di rugby del 1995. Per
loro la maglia verde degli Springboks è stata per anni il simbolo tangibile delle discriminazioni; per questo i neri sudafricani hanno sempre tifato contro la nazionale. Mandela sa che probabilmente anche i giocatori che parteciperanno al Mondiale saranno quasi interamente bianchi, con l’eccezione dell’ala Chester Williams. Ma vuole convincere anche i neri che adesso quella maglia verde come la speranza rappresenta la nazionale di tutti.

Il miracolo si compie il 24 giugno, il giorno della finale tra il Sudafrica e la Nuova Zelanda, tra gli Springboks quasi tutti bianchi e gli All Blacks. Si gioca a Ellis Park, a Johannesburg. Lì dove 22 anni prima Arthur Ashe aveva sfidato il regime, chiedendo spalti desegregati per le sue partite, sfidando la consuetudine dell'apartheid, e dimostrando che un nero può giocare uno sport da bianchi, può giocare contro i bianchi e farsi applaudire dai bianchi.

Uno sport che appassiona anche Mandela, che nel 1980 si fa portare a Robben Island una radiolina per seguire Borg-McEnroe, la finale di Wimbledon, nel tempio del Lawn Tennis, ultimo retaggio di tennis aristocratico in cui tutti devono vestirsi di bianco, e dove cinque anni prima Ashe aveva trionfato dando una lezione di intelligenza e strategia a Jimmy Connors. Quello stesso anno, McEnroe si rifiuta di giocare a Sun City, in Sudafrica, per un milione di dollari. "Era una cifra enorme, Sinatra ci andò a cantare, io dissi no. Era la prima volta nella mia vita che prendevo una posizione", ha raccontato a Emanuela Audisio di Repubblica.

Mandela arriva allo stadio alle due del pomeriggio, un’ora prima dell’inizio della finale. I 62 mila spettatori intonano Shosholoza, la canzone ufficiale dei Mondiali mentre le parole in zulu dell’inno scorrono sui due maxischermi agli estremi dello stadio. IIl pre-game show ha un secondo capitolo, che ha per protagonista Laurie Kay, pilota delle SA Airways che in passato si era interessato poco alla politica né si era mai opposto all’apartheid. Kay incontra Mandela poco dopo il suo rilascio: è il capitano del Boeing 747 SAA da Rio de Janeiro a Cape Town su cui vola anche il presidente.

«È stato il mio unico incontro con Mandela» ha raccontato. «Mi hanno comunicato che voleva vedermi, così sono uscito dalla cabina. Lui era con sua moglie, Winnie, seduti ai posti 1D e 1F. Appena mi ha visto si è alzato e ha insistito per stringermi la mano. Non mi era mai capitato, e non mi sarebbe successo più con un passeggero. Fino a quel momento, per me era solo un nome, una faccia nera che avrebbe potuto anche costituire una minaccia per la mia vita: ero infatti esposto alla mentalità Afrikaner e mi ero interessato poco di politica. Mi ha detto che il resto della sua delegazione viaggiava in economica e mi ha chiesto se potevano essere fatti passare in prima. Ho dato subito l’ordine. Da quel giorno per me è cambiato tutto. Mandela è un mago, ha un’aura di bontà che lo circonda».

Kay vola bassissimo sopra l'Ellis Park su un jumbo 747 con la scritta «Go Bokke» dipinta sul ventre. Cinque minuti prima dell’inizio della partita, poi, Nelson Mandela scende sul campo per stringere la mano ai giocatori. Indossa il cappellino verde e la maglia verde degli Springboks, abbottonata fin sotto la gola. Appena il pubblico lo vede sul campo, un coro parte dagli spalti, prima basso poi sempre più forte. Sono quasi tutti bianchi eppure con una sola voce gridano «Nelson! Nelson! Nelson!».

È l’epifania di un futuro possibile. Per decenni, Mandela aveva rappresentato tutto quello che i bianchi temevano e odiavano di più; la maglia verde degli Springboks era diventata l’icona di tutto quello che i neri odiavano di più. In quel momento, davanti agli occhi del mondo, quei due simboli negativi si fondono in un’unica immagine di speranza.

 

Alessandro Mastroluca

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