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Rassegna stampa

Berrettini: “Qui per restare” (Semeraro). Lorenzi: “Ho visto posti assurdi” (Semeraro)

Last updated: 04/01/2018 12:34
By Redazione Published 04/01/2018
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6 Min Read


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Intervista a Matteo Berrettini: “Qui per restare” (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport 04/04/2018)

Matteo Berrettini sorride, nonostante la sconfitta contro il tedesco Peter Gojowczyk… [segue]. Anche perché in Qatar, dove è accompagnato dal suo coach Vincenzo Santopadre, in allenamento si è divertito e ha imparato una lezione con Paolo Lorenzi. “Paolo è veramente straordinario”, ammette. “Uno che non molla mai, ma è sempre pronto a scherzare e divertirsi. A mostratela sua voglia di stare qui”.

“Qui” nel senso dei tornei che contano: è l’obiettivo dal 2018?
L’obiettivo è migliorare tutti i giorni, e giocare con continuità come ho fatto con Troicki. Sono contento perché sto ritrovando l’energia e la determinazione che mi ha caratterizzato fino a un certo punto della scorsa stagione: poi, lo ammetto, ho iniziato un po’ a barcollare dal punto di vista dell’atteggiamento.

Perché?
Mi sono ritrovato con una classifica decisamente migliore, a giocare tornei che mi sembravano di alto livello, e che poi sono diventati la normalità. Non ero pronto.

Non essere entrato alle ATP Next Gen Finals, nonostante la miglior classifica fra gli italiani, è stata una delusione?
Sì, ma non le avrei cambiate con una finale di un Challenger. Mi è dispiaciuto soprattutto arrivare scarico al torneo di qualificazione. L’ho superata pensando a quello di buono che avevo fatto in precedenza.

La preparazione per il 2018 è stata diversa?
Gli anni scorsi avevo più tempo non dovevo giocare subito in tonni come Doha o Australian Open, quindi è stata più corta, ma intensa. Ho lavorato molto fisicamente e tecnicamente: sul servizio, rallentando il movimento per avere più tempo per caricate con le gambe e buttarmi avanti: l’anno scorso avevo perso ritmo. Sul rovescio, dove non ho molta varietà di rotazioni. E sul diritto, che deve diventare un’arma eccezionale. Ora mi muovo anche meglio, entro certi limiti perché sono abbastanza alto.

Ora si impone una programmazione diversa?
Cercherò di giocare soprattutto nei tornei ATP, oltre che in qualche Challenger, perché sono partite come quelle con Troicki, o sconfitte come quella con Gojowczyk, che ti fanno fare il salto di qualità. Match del genere capiterà di doverne giocare anche nello Slam, e al meglio dei cinque set. Farò le qualificazioni degli Australian Open, poi i tornei indoor europei, Sofia o Montpellier, forse Indian Wells e Miami, vedremo.

Il posto dove sarebbe più bello fare un colpaccio?
Roma, o Wimbledon dove ho giocato da junior: spettacolare. O agli Australian Open.

Nel mirino c’è anche una convocazione in Coppa Davis?
È il mio sogno. Da piccolo la guardavo in tv, ora ascolto i racconti di Lorenzi e mi piacerebbe tanto ritrovarmi in squadra con lui.


Intervista a Paolo Lorenzi: “Ho visto posti assurdi” (Stefano Semeraro, Secolo XIX 04/04/2018)

La camera in uno degli alberghi da sogno che germogliano sulla skyline di Doha, gli autisti a disposizione, i bambini adoranti in fila per gli autografi. Ma non è sempre stato così, nella lunga e comunque felice carriera di Paolo Lorenzi, 36 anni, 4 mesi più giovane di Roger Federer, n. 43 ATP ma fisso da 15 anni nella top-5 dei tennisti più simpatici del mondo. “Quello che mi frega è che mi divertivo anche quando giravo in certi posti – ridacchia -. Figuriamoci qui”.

Qualche esempio?
Abidjan, Costa d’Avorio. Con me c’era Petrazzuolo, dopo due giorni mi dice: me ne vado, è troppo brutto. Per me non lo era. O a Lermontov, in Russia: l’albergo sembrava una caserma. O a Esikhir, in Turchia, dove però ho vinto il torneo. Oppure in certi posti in Cina, dove nessuno parla inglese e per ordinare da mangiare serve il vocabolario.

Come ha resistito?
Ho sempre amato i viaggi, conoscere gente diversa, alzarmi la mattina per allenarmi. Sono arrivato a 16 settimane filate di trasferta. E non mi pesavano.

Si è mai detto: basta, tanto non sfondo?
No. Momenti difficili ne ho avuti. A 27 anni ero n. 230, senza un coach e sono finito per caso a Livorno. È da allora che sono col mio coach Claudio Galoppini e il preparatore Stefano Giovannini. Quell’anno persi subito a Noumea e agli Australian Open, ma ho continuato a crederci.

Determinazione?
Sana incoscienza. Mia e dei miei genitori. Sapevano che il tennis era il mio sogno e che mi impegnavo. Ero iscritto a Medicina, ma l’Università andava a rilento, i risultati non arrivavano. In quei casi un genitore si preoccupa, invece mi hanno sempre sostenuto.

Con il suo coetaneo Federer ne parlate mai?
A volte, lui però può permettersi cose diverse. È molto cordiale, ma fatica a fare una vita normale. Nello spogliatoio lo vedi poco.

Sogni rimanenti?
Giocare un’altra volta nella seconda settimana di uno Slam, come mi è capitato a New York. E ancora in Coppa Davis, un evento fantastico.


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