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Più dritti che rovesci, la storia di Adriano Panatta

Last updated: 28/03/2015 18:52
By Redazione Published 27/03/2015
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4 Min Read

Nuova puntata da aggiungere alla nostra biblioteca sul tennis. Abbiamo recensito per voi “Più dritti che rovesci”, il libro che racconta la storia di Adriano Panatta, entrato di diritto nell’empireo dei numeri uno d’Italia al fianco di Nicola Pietrangeli

Panatta A. (con Azzolini D.), Più dritti che rovesci, RCS Libri, 2009

Basta mettere vicini i due volumi e ti accorgi delle differenze. Le 210 pagine di “Più dritti che rovesci” di Panatta quasi scompaiono di fronte alle oltre 500 di “Open” di Agassi. Scritti in anni non distanti tra loro, i due libri hanno vissuto fortune diverse: apprezzamento e diffusione limitati, e solo tra gli appassionati, il primo, gloria e diffusione “mondiale” per l’altro. Da una parte i confini del tennis che nasce dai campioni degli anni ’60, come Laver, Hoad, e tutti gli altri allievi di “Geppetto” Hopman, dall’altra gli orizzonti che si sarebbero aperti al tennis globale del secolo 21°.

“Più dritti che rovesci” è la storia di un campione italiano, Adriano Panatta, che afferma: “Ho vissuto i miei anni da professionista senza angosce, convinto che troppo tennis facesse male, e che poco non sarebbe servito granché” (p. 175). Questo gli è stato sufficiente per scrivere pagine importanti nella storia del tennis mondiale (basta ricordare i tornei vinti e la 4° posizione nel ranking raggiunta nel 1976) per affiancare Pietrangeli nell’empireo dei numeri uno d’Italia e per portare l’Italia tennistica sulla vetta del mondo.

Negli anni ’70 cooptato per affinità tecnico-stilistiche dal clan degli australiani (all’epoca i migliori), ha vissuto quello che può essere considerato il punto di svolta del tennis moderno, legato alle vittorie di Borg, il primo che ha esasperato l’importanza della preparazione atletica e del top spin.

Il campione svedese che ha aperto una strada poi malamente battuta da tanti tecnici che “con pochi consigli e quattro frasi mandate giù a memoria “, e grazie all’avvento di nuovi materiali, “si potevano ottenere giocatori solidi, da circuito …” (pag. 74).

“La ricetta per la vittoria? Equilibrio psicofisico e un fondo di magia. Quando la magia si metteva in moto la captavo nell’aria”, sembra di sentire le descrizioni delle arene o dei ring degli anni ’30. D’altra parte è opinione comune che il tennis, oltre la bellezza del gesto stilistico, oggi più che altro atletico, e della interpretazione strategica del gioco, sia uno sport da “killer” dove non può esistere pareggio a nessun livello. In due, solitari, le racchette come spade o guantoni, solo uno può uscire vincitore.

Intriganti i capitoli in cui si raccontano i colleghi Borg, Nastase, Connors, così come il capitolo “Storie di Coppa”, ma sono innumerevoli le “figurine” di personaggi (assolutamente originali) ed i “siparietti” di situazioni inseriti nei diversi capitoli che rendono decisamente gradevole la lettura. Alcuni esempi: Borg e la ciucca “andata e ritorno”, la mamma di Connors che lascia affettuosi bigliettini nelle tasche del figlio del tenore “se perdi non tornare a casa”, la semplicità dei grandi come Federer e l’ammirazione per Lew Hoad, le trasferte di Coppa Davis viste come epopee: “Partivamo con le masserizie, come un esercito antico, con i carri delle cibarie al seguito”, Paolo Canè ed il suo “Ma se io vinco, tu non mi meni vero? E allora Kepiteino io vinco”.

La mano leggera, disincantata e divertente della narrazione accompagna fino all’ultima pagina, ricordando che alla fine l’obiettivo del tennis giocato è divertire e far divertire.

 

C.G. New-house


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