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La libreria di Ubitennis: 500 anni di rovesci. Dai fratelli Doherty a Wawrinka (prima parte)
Piccola libreria. Abbiamo sezionato per voi “500 anni di tennis” di Gianni Clerici e ricostruito con testi, immagini e video l’evoluzione del colpo più misterioso e simbolico del tennis: il rovescio. Dai fratelli Doherty a Wawrinka (prima parte)

Clerici G., (1974), 500 anni di tennis, Mondadori, 2004.
In più di cent’anni di questo glorioso sport i cambiamenti sono stati massici, talvolta rivoluzionari, altre volte osteggiati. Se diritto e servizio hanno lentamente modificato la loro dinamica sino a raggiungere l’attuale conformazione, nella quale le rotazioni s’accompagnano al colpo piatto e senza fronzoli, il rovescio è addirittura cambiato nelle intenzioni del gesto, da colpo meramente d’appoggio a valida arma offensiva, sino alla rivoluzione bimane che l’ha trasformato nel colpo più sicuro per molti tennisti.
Nel titolo, i primi due rovesci prototipici – rigorosamente a una mano – fratelli (diversi) come gli autori del gesto, accanto all’ultimo e più riuscito degli esemplari moderni, che ne mantiene l’eleganza e vi annette una spietata brutalità targata nuovo millennio.
I fratelli Doherty furono a cavallo dei due secoli i dominatori di ben nove edizioni del singolare di Wimbledon. Inglesi in terra inglese, vinsero anche in doppio, pur tra qualche bisticcio. Diversi nel portamento, diversi nell’eseguire il rovescio. Reggie fu tra i pionieri del classico back hand drive, il colpo tagliato che divenne per tutti i tennisti di inizio secolo lo schema di riferimento. Il tennis era quasi esclusivamente su erba, e le traiettorie basse seppur non offensive per via del taglio inverso divennero la strategia più adottata. Anche perché si abitava spesso la rete, e per l’attacco si sceglieva piuttosto il diritto. Nell’esecuzione, se si eccettua una eccessiva rigidità delle gambe, si riscontrano diverse analogie con il colpo di oggi.
Il più piccolo Laurie soleva colpire piatto, pur utilizzando la stessa impugnatura di suo fratello. Si tratta(va) della presa continentale, la stessa con la quale si eseguono oggi servizio e rovescio in back, che assunse questa denominazione proprio per essere l’impugnatura utilizzata (dai più) nel vecchio continente. L’angolo tra braccio e racchetta superava di poco i 90°, nel permettere un certo gioco di polso seppur con i limiti degli attrezzi utilizzati.
Siamo attorno al 1900, e non va sottovalutato l’apporto dei due Doherty all’evoluzione di questo colpo. Specie ripensando a pochi anni prima, quando ancora di rovescio si colpiva con la stessa faccia della racchetta utilizzata per il diritto – fratelli Renshaw, attorno al 1885 – o ai tempi del Royal Tennis, il gioco dei re, le cui raffigurazioni ci suggeriscono l’abitudine di una maldestra presa a metà manico (per la gioia di Archimede..)
Oltreoceano le cose erano abbastanza diverse: negli States il seguito del tennis cresceva e la relativa impossibilità di confrontare tecniche e segreti con i britannici produsse il curioso effetto di uno sviluppo parallelo della tecnica del rovescio, un difetto di comunicazione non privo di fascino. Gli americani, la cui scuola tennistica era inizialmente ridotta alla costa orientale, presero a impugnare all’incirca come l’attuale eastern, con angolo braccio-racchetta molto più ampio dei 90° inglesi e una quasi totale estensione nell’impattare, di rovescio come di diritto. L’impugnatura western arriverà dopo, con i primi – e agguerriti – migranti provenienti dai duri cementi californiani.
La presa eastern presupponeva un colpo piatto e tendenzialmente privo di rotazione, probabilmente derivante dalla maggiore verve atletica dei primi tennisti a stelle e strisce che li condusse a sviluppare un gioco maggiormente di ritmo, con meno affezione verso i colpi di volo e una battuta più aggressiva. Tra i migliori esecutori del tipico rovescio piatto statunitense troviamo William Larned, sette volte vincitore a Forest Hills tra il 1901 e il 1911. Le immagini di repertorio lo raffigurano a busto chino e braccio teso mentre colpisce un rovescio esteticamente non eccelso ma – a quanto riferiscono le sue vittorie – molto efficace nel risultato.
Mentre in terra australe era il neozelandese Wilding ad esibirsi nel rovescio più interessante, con presa continentale ma taglio meno accentuato, iniziarono i primi viaggi transoceanici e con essi le prime contaminazioni di stile. E si palesarono anche i primi corsari della racchetta: Laurie Doherty fu il primo straniero a imporsi sui campi newyorchesi di Forest Hills (1903), forse anche per il suo rovescio simile a quello americano, mentre l’australiano Brookes si permise di profanare l’erba di Wimbledon fino al 1907 feudo esclusivo dei sudditi della corona inglese. E lo fece, con un velo di anacronismo, colpendo il rovescio ancora alla vecchia maniera, richiamando la stessa faccia della racchetta usata per il diritto. Pareva avesse un polso magico.

La pallina cromaticamente fusa con la manica di camicia, Brookes ci mostra la sua bizzarra versione del rovescio
Adesso comunque si giocava a carte scoperte, e ognuno tornando nel proprio paese d’origine dai logoranti viaggi in nave meditava su quanto scoperto in terra straniera, cercando di mettere a punto nuove tecniche per sorprendere gli avversari al successivo appuntamento. La guerra congelò i primi progressi, e si dovette attendere quel personaggio rivoluzionario che risponde al nome di Bill Tilden, al secolo “Big Bill”, che dominò fino al 1931 il tennis mondiale prima di fungere da pioniere – anche lì, esatto – per l’istituzione del circuito professionistico e lasciare il mondo dei dilettanti.
Lo statunitense sconquassò non solo l’abitudine di pensare al tennis come sport per soli gentleman, ma rivoluzionò anche alcune tecniche di gioco. Fu nello specifico il primo a colpire il rovescio con un marcato anticipo, applicando la potenza delle sue lunghe leve alla chiusa impugnatura americana, e generando il primo vero rovescio aggressivo della storia del tennis. Tilden costruì questo colpo con il tempo, poichè nelle sue prime apparizioni risultava ancora molto attaccabile sul lato sinistro del campo: una grande dimostrazione di lungimiranza.
Come ogni pioniere, Big Bill fece scuola, già nella sua epoca. Il sudafricano Brian Norton lo emulò e finì per sviluppare un gran rovescio, forse di potenza ancora maggiore, e come lui altri in terra americana e non. Più restii i britannici ad evolversi con questo fondamentale, principalmente per la loro abitudine ad attaccare la rete con costanza, lo affinarono quasi esclusivamente come colpo d’approccio.
Accanto all’immobilismo dello stile inglese, iniziò a imporsi la scuola francese, quella che produsse i quattro moschettieri delle sei Davis consecutive (1927-32). Vero artista del rovescio fu René Lacoste, vincitore anche a Wimbledon, che perfezionò il gesto di marca inglese fino ad aggiungerne eleganza e spinta, soprattutto sulle traiettorie lungolinea. Il francese impose l’utilizzo del polso e una meno pigra ricerca di palla con i piedi, in una sorta di versione primordiale dell’attuale rovescio di Gasquet con però una maggiore propensione a seguire il colpo a rete.
Nacque però negli Stati Uniti la miglior sintesi tra la compassata esecuzione europea e la più violenta sbracciata americana: Donald Budge coniò probabilmente il miglior rovescio dell’era pre-open mutuando il colpo di mazza tipico del baseball. Egli si formò infatti praticando questo sport, e una volta passato al tennis pensò bene di provare a staccare la mano sinistra e colpire di rovescio con la stessa tecnica di un battitore. Il risultato fu un colpo devastante, che i suoi avversari non riuscirono mai ad arginare: il Grande Slam centrato nel 1938 ne è manifestazione palese.
Il solco scavato da Budge era profondo, e quantomeno nel gesto a una mano mano sono state poche le ulteriori migliorie apportate prima che giungessero, inesorabili, le rotazioni. L’acme della scuola americana del rovescio piatto fu raggiunta dal colpo di Jack Kramer, colui che con il perfezionamento del circuito professionistico preconizzato da Tilden ha mandato ai matti decine e decine di statistici e comparatori di professione. E che nel tempo libero bastonava i suoi avversari a forza di inesorabili rovesci a braccio – estremamente – teso.
Prima di addentrarci nella rivoluzione bimane, val la pena citare i casi di Pancho Gonzalez e di Ken Rosewall, due tra i primi “Immortali” – come lo Scriba usava definirli – del secondo dopoguerra, che hanno consegnato alla storia due fulgidi esempi di rovescio. E anche quello di Rod Laver, per un motivo che scopriremo.
Il messicano naturalizzato americano torreggiava in campo dall’alto del suo metro e novanta eppure riusciva a dissimulare la sua ingente mole con movenze felpate da tanghero. Fu infatti nell’eseguire l’approccio a rete di rovescio che brevettò il cosiddetto “passo di tango”, che consiste nell’incrociare il piede sinistro alle spalle del destro durante la corsa verso la rete, guadagnandone in fluidità, velocità e – innegabilmente – in eleganza.
Quel piccolo diavolo di Rosewall invece faticava a raggiungere i 170 cm, ma dalla sua compattezza luciferina riusciva a sprigionare una sorprendente potenza, frutto dell’assoluta padronanza nell’utilizzo del braccio come leva. Il suo rovescio, che nella tecnica era uno slice ma nell’esecuzione finale e nella velocità con cui veniva giocato si approssimava più ad una palla piatta, va sicuramente annoverato tra i migliori dell’era-open, a buon diritto rivale del letale “colpo di mazza” di Don Budge.

A sinistra Budge non impressiona un elegante spettatore, a destra Rosewall esegue uno dei suoi inimitabili rovesci
Siamo nel dopoguerra, impazza la guerra tra pro e dilettanti, Rod Laver svolge il suo lavoro di modesto artigiano della racchetta. Il formidabile equilibrio nei colpi dell’australiano poggia su una grande innovazione, che verrà interiorizzata soltanto diversi anni dopo e peserà non meno della rivoluzione bimane. Il suo allenatore lo aveva dotato – oltre che di un avambraccio da pugile – di un doppio rovescio, un colpo tagliato all’europea ed uno coperto, dotato anche di lift, più aggressivo. È bene ricordare che ai tempi l’abitudine per i tennisti era di perfezionare un unico tipo di rovescio, e plasmare il proprio gioco su quello. Laver fu il primo, quantomeno ad alti livelli, a dimostrare la rivoluzionaria utilità del poter giocare il rovescio in due modi, a seconda delle situazioni di gioco.
Ormai entrati nell’epoca del “tennis moderno”, come il nostro Autore definisce quel che sui campi da tennis succede alle macerie del conflitto atomico, ci prendiamo una piccola pausa dal nostro incedere diritti sulla storia del rovescio.
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Premio “Gianni Mura”: vince Giorgia Mecca con “Serena e Venus Williams, nel nome del padre” come miglior libro sul tennis
Il libro sulle sorelle Williams si aggiudica, alla prima edizione, il premio “Gianni Mura” a Palazzo Madama e riceve la menzione speciale della giuria

Sabato 12 novembre, una settimana prima che anche il direttore Ubaldo Scanagatta varcasse la soglia di Palazzo a Madama per chiudere la rassegna stampa di 8 giorni di ATP Finals, prendeva vita la prima edizione del premio Gianni Mura. Un premio intitolato a uno dei più illustri giornalisti sportivi italiani, storica firma del giornale Repubblica, scomparso a Senigallia nel marzo del 2020.
Giorgia Mecca, nata a Torino nel 1989, scrive per il quotidiano “Il Foglio”, per l’edizione torinese del “Corriere della Sera” e con il suo libro “Serena e Venus Williams, nel nome del padre” edito da 66thand2nd si è aggiudicata il premio con la menzione speciale della giuria come miglior libro sul tennis. Un libro che racconta la storia di due giovani tenniste di colore e del sogno di loro padre: farle diventare le più grandi.
Diciassette capitoli racchiudono in questo libro la forza, la paura, la tenacia e anche la vergogna di credere in un sogno. Un sogno che il padre di Serena e Venus aveva già in serbo per loro ancor prima che nascessero e che ha ispirato la giovane giornalista torinese a farne un libro di successo. Giorgia Mecca nei suoi capitoli ci racconta come queste due tenniste un giorno abbiano dovuto smettere di essere sorelle e siano dovute diventare avversarie. Ripercorre numerose sfide, la prima di tante nel capitolo intitolato “18 gennaio 1998 – Venus 7-6 6-1” dove racconta il giorno in cui Venus e Serena, al secondo turno degli Australian Open, hanno iniziato a giocare una contro l’altra. Ma ripercorre anche un’infanzia a tratti molto difficile e una storia di famiglia, più unica che rara. Questa la citazione più celebre del libro premiato: “Sono state nere in un mondo di bianchi, potenti in uno sport elegante, urlanti in un campo che richiede silenzio. Sempre dalla parte sbagliata. Per provocazione (loro), e per pregiudizio (altrui). Nel nome del padre due figlie sono state le prime afroamericane con la racchetta in mano, per non essere le ultime”.
Dopo aver elogiato il famoso giornalista sportivo Gianni Mura, la giornalista torinese, commossa e felice, ha chiuso così il discorso di ringraziamenti per aver ricevuto il premio: “Se anche loro si sono concesse di cadere qualche volta, forse dovremmo imparare a concedercelo tutti ogni tanto”.
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Esce oggi “Il Grande Libro di Roger Federer”, 542 pagine con il racconto (e i dati) dei giorni più memorabili del fenomeno svizzero
Stagione per stagione l’autore Remo Borgatti ripercorre tutta la sua straordinaria carriera. Tutti i suoi incontri, curiosità e statistiche, anche in rapporto alle caratteristiche tecniche degli avversari, da Nadal a Djokovic, Murray e Wawrinka, a seconda delle superfici

IL GRANDE LIBRO DI ROGER FEDERER
AUTORE: REMO BORGATTI
PAGINE: 542
EURO: 24,00
EDITORE: ULTRA SPORT

Autore del libro è Remo Borgatti, uno dei primissimi collaboratori di Ubitennis. Suo è il racconto ‘Uno contro tutti’ che ripercorre l’avvicendarsi di tutti i numeri 1 della storia del tennis, pubblicato a puntate su Ubitennis. Lo potete trovare a questo link.
Tra le sue rubriche c’è anche ‘Mercoledì da Leoni’, racconti di imprese più o meno grandi compiute da tennisti non particolarmente noti al grande pubblico. La serie la potete trovare a questo link.
Di Roger Federer, nel corso della sua lunga e meravigliosa carriera, si è detto e scritto di tutto. Il ritiro ufficiale, avvenuto durante lo svolgimento della Laver Cup di Londra, ha soltanto messo la parola fine a una vicenda umana e agonistica che ha cambiato per sempre la storia del tennis e più in generale dello sport. Nel volume dal titolo “IL GRANDE LIBRO DI ROGER FEDERER” (Ultra Edizioni, 542 pagine, 24 Euro), Remo Borgatti ha raccolto ed elaborato tutti i risultati e i numeri fatti registrare dal campione elvetico. Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. Nella prima, ricca di testo, viene passata in rassegna tutta la carriera di Federer stagione per stagione e nei suoi 150 giorni più significativi. Nella seconda, vengono elencati in ordine cronologico tutti gli incontri disputati nel circuito e negli slam, con tanto di statistiche e percentuali, oltre a una serie di tabelle analitiche che vanno a sviscerare anche gli aspetti più curiosi ed inediti, come ad esempio il bilancio vinte-perse in base alla superficie e alla categoria del torneo, o in base al seeded-player degli avversari o dello stesso Federer, o ancora in base alla mano (destro o mancino) e al rovescio (una o due mani) degli avversari. Poi c’è altro, molto altro. Probabilmente c’è tutto quello che un tifoso o un appassionato vorrebbe sapere su “King Roger” e che forse nemmeno Federer conosce così bene. Certo, nell’era di internet e del web molti di questi dati (ma non tutti) si trovano anche in rete e vien da chiedersi quale sia lo scopo di un lavoro del genere. Ma pensiamo che la risposta sia semplice e venga dalla passione e dalla volontà da parte dell’autore di analizzare e svelare il fenomeno-Federer mediante le sue cifre, data l’evidente impossibilità di spiegarlo attraverso i numeri che ha fatto sui campi di tennis di tutto il mondo.
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John Lloyd, intervistato da Scanagatta, presenta l’autobiografia “Dear John” [ESCLUSIVA]
Intervistato in esclusiva per Ubitennis, l’ex-tennista britannico Lloyd si racconta tra aneddoti e ricordi. “Avrei dovuto vincere quel match” a proposito della finale all’Australian Open con Gerulaitis

L’ex tennista britannico John Lloyd, presentando la sua autobiografia “Dear John”, viene intervistato in esclusiva dal direttore Ubaldo Scanagatta e racconta tanti aneddoti relativi alla sua carriera, inclusi i faccia a faccia con l’Italia in Coppa Davis. Le principali fortune di Lloyd arrivarono in Australia dove raggiunse la finale dello Slam nel 1977: “All’epoca era un grande torneo ma non come adesso” ricorda il 67enne Lloyd. “Mancavano molti tennisti perché si disputava a dicembre attorno a Natale, ma ad ogni modo sono arrivato in finale. Avrei dovuto vincerlo quel match” – ammette con franchezza e una punta di rammarico – “ho perso in cinque set dal mio amico Vitas (Gerulaitis). Fu una grande delusione ma se dovevo perdere da qualcuno, lui era quello giusto. Era una persona fantastica”.
Respirando aria di Wimbledon, era impossibile tralasciare l’argomento. Lo Slam di casa fu tuttavia quello che diede meno soddisfazioni a Lloyd, infatti il miglior risultato è il terzo turno raggiunto tre volte. “Sentivo la pressione ma era davvero auto inflitta, da me stesso, perché giocavo bene in Davis e lì la pressione è la stessa che giocare per il tuo paese” ha spiegato l’ex marito di Chris Evert. “Ho vinto in doppio misto (con Wendy Turnbull, nel biennio ’83-’84) ed è fantastico ma sono sempre rimasto deluso dalle mie prestazioni lì. Ho ottenuto qualche bella vittoria: battei Roscoe Tunner (nel 1977) quando era testa di serie n.4 e tutti si aspettavano che avrebbe vinto il torneo. Giocammo sul campo 1. Ma era una caratteristica tipica delle mie prestazioni a Wimbledon, fare un grande exlpoit e poi perdere il giorno dopo. In quell’occasione persi contro un tennista tedesco, Karl Meiler”. In quel match di secondo turno tra i due, Lloyd si trovò due set a zero prima di perdere 2-6 3-6 6-2 6-4 9-7. Insomma cambieranno anche le tecnologie, gli stili di gioco, i nomi dei protagonisti… ma certe dinamiche nel tennis non cambieranno mai.