Una delle cose meno corrette, a livello di analisi di una partita di tennis, che possano derivare dal tifo o anche dalla semplice simpatia nei riguardi di un giocatore, è la tendenza – quasi inconscia a volte – a non accettare la superiorità dell’avversario nel momento in cui il proprio beniamino viene sconfitto. Tipicamente, tale errato ragionamento si svolge così: il tennista che io reputo più forte, se ha perso, vuol dire che non ha giocato al meglio, sennò avrebbe vinto. Nulla di più lontano dalla verità.
Come in tutti gli sport, è ovvio che una giornata negativa, una fase in cui il proprio gioco non va o non si riesce a esprimerlo, può capitare. Ma l’unica giustificazione oggettiva e condivisibile per questi momenti di bassa prestazione è l’eventuale infortunio fisico, magari anche leggero. In tutti, ma davvero tutti gli altri casi, quella giornata non brillante, quel numero insolitamente alto di errori o di scelte tattiche e strategiche poco lucide, fanno parte del giocatore in questione, entrano nella media che definisce la qualità del suo tennis e la sua competitività, tanto quanto le occasioni in cui funziona tutto alla grandissima e la palla viaggia e viene colpita in scioltezza e con successo.
Troppo facile dire che Djokovic (o Federer, o Nadal), quando è al meglio non perde mai. Non è vero, per il semplice motivo che uno sport come il tennis – tra gli altri – è fatto di continuità così come di picchi di prestazione. Pensiamo a un gran premio di Formula 1: in qualifica, conta il giro più veloce. Ma alla fine, il vero risultato, cioè l’ordine di arrivo alla conclusione della gara, viene determinato dalla sessantina di giri necessari al completamento della corsa, compresi di giri più veloci e più lenti. Nella stagione, nella carriera di un tennista, funziona allo stesso modo, entrano nella media (e ci mancherebbe altro) tutti i match giocati. Altrimenti, se si guardano e si evidenziano solo i match “no” o i match “sì”, non si potrà mai avere un quadro oggettivo e plausibile interpretando i risultati.
Che vuol dire “essere al meglio”? Rispetto a cosa, a se stessi? E quante volte, in che ambito, su quanti elementi presi in considerazione? Dobbiamo guardare una stagione, un torneo, una partita, un singolo colpo? In questo caso, per dire, praticamente chiunque giochi a tennis, potrebbe teoricamente affermare “al mio massimo, sono meglio di Djokovic”. Prendiamo un buon terza categoria che serve bene, gli diamo 100 tentativi con Nole in risposta, e sono sicuro che un paio di punti diretti, magari quando azzecca la botta a occhi chiusi sulla riga, glieli fa pure lui. Quindi cosa dovremmo concludere, che quel 3.2 al suo meglio (quando prende la riga esterna servendo alla massima velocità possibile) è al livello di Djokovic? Dimenticandoci le altre 98 risposte che Nole non gli fa nemmeno toccare? Troppo comodo.
Di conseguenza, si deve semplicemente prendere atto che a volte anche i migliori vengono “messi sotto”, che sia a livello tecnico, tattico o psicologico. Sono i migliori perché gli capita meno spesso che agli altri, ma le volte in cui accade vanno considerate esattamente come quando sono loro a surclassare gli avversari. A Parigi l’anno scorso Stan Wawrinka ha superato Novak Djokovic, dimostrandosi migliore sia tecnicamente che fisicamente e mentalmente, così come a New York Nole ha superato Roger Federer, punto. Le cosiddette “attenuanti”, circostanze o giustificazioni (per tacer dei discorsi totalmente assurdi su fortuna e sfortuna) non hanno importanza, perché fanno parte del gioco e della realtà di come funziona il tour professionistico. Eh ma Djokovic era scarico e stanco in finale al Roland Garros, eh ma Federer ha avuto 23 palle break a Flushing Meadows: e allora? Una volta è andata male, un’altra è andata bene, e questi due risultati, entrambi giusti e ineccepibili (come è nella natura meritocratica dello sport, e in particolare del tennis per il meccanismo a “compartimenti” del punteggio) entrano a far parte della carriera e della storia del giocatore serbo. Che a volte trova tennisti migliori di lui in un match, e semplicemente ci perde. Il motivo per cui è il numero uno è che è in grado di esprimere con molta più continuità della concorrenza un livello che si dimostra superiore, il che è ben diverso dal dire che “gioca meglio di tutti, sempre, e se perde è colpa sua, nessuno lo può battere se gioca bene”.
Era Djokovic, il vero Djokovic, sia a Parigi che a New York, ed era il vero Djokovic anche ieri sera contro Dominic Thiem. Perché il “vero” Djokovic è il giocatore e la sua prestazione in tutte le partite che gioca, bene o male che riesca a esprimersi (come detto, al netto solo e solamente degli eventuali guai fisici), non l’idea che di Djokovic hanno i suoi tifosi, e questo naturalmente vale anche per tutti gli altri top-player. Nell’ottavo di finale contro il talento austriaco si è visto un Nole assolutamente “autentico”, proprio perché è stato messo spesso in difficoltà, e da par suo ha saputo soffrire con umiltà arrivando a rallentare (!) gli scambi da fondo per non dare ritmo al bombardiere che aveva dall’altra parte, ha saputo incassare vincenti, ha saputo rimediare ai molti errori (spesso provocati, e non gratuiti), ha saputo variare e tener duro nei momenti cruciali, e ha giustamente vinto in due set.
La differenza attuale tra Djokovic e il migliore (insieme a Kyrgios) dei giovani “emergenti” è esattamente quella, un break per set, e nonostante il punteggio parli chiaro, il match va decisamente considerato una promozione per Thiem, proprio perché per ottenere il 6-3 6-4 di ieri sera ci è voluto il miglior Nole, un Nole appunto “vero”. Il miglior Nole non è quello che dispensa 6-1 a destra e sinistra, quando tira tutto senza sbagliare e corre come fosse inesauribile, ma è il fuoriclasse che riesce a superare i momenti difficili chiudendo senza rischiare troppo anche i match in cui la qualità dell’avversario non gli permette di spadroneggiare comandando il gioco. È il Nole che annulla 19 palle break a Federer in 4 set e 14 a Thiem in 2, occasioni meritatamente conquistate da Roger e Dominic giocando meglio, e ancor più meritatamente annullate da Djokovic giocando meglio il punto successivo. Il che può anche voler dire non sbagliare, recuperare una palla in più, mica solo fare ace o tirare accelerazioni sulle righe, ma quello che conta è il risultato che viene annunciato dall’arbitro alla stretta di mano. Al Roland Garros, allo US Open, a Melbourne, a Miami. Cento errori in Australia con Simon e quinto set? Capita, ma chi ha vinto il torneo alla fine? Era il vero Nole quello con Gilles tanto e più che quello che ha poi rullato Federer e Murray, ed è esattamente lì che sta la sua forza.
Dominic Thiem è stato sconfitto, ma ha dimostrato a tutti (e per primo a Djokovic, che si è impegnato e ha dato il massimo dall’inizio alla fine, e se fosse calato di un niente si sarebbe ritrovato magari in lotta in un tie-break dove può succedere qualsiasi cosa, se non addirittura in un pericoloso terzo set) che gli manca poco per poter fare veramente match pari con il migliore. Relativamente poco in termini di punteggio, come si è visto, molto in termini di percentuali di realizzazione e precisione e determinazione nei momenti importanti. La base c’è, insomma. Ma l’ultimo gradino, come sempre, è il più alto da scalare per un giovane, e la possibilità di cadere anche rovinosamente proprio quando si è più vicini al traguardo (esempio, Eugenie Bouchard, due semifinali e una finale Slam a vent’anni, e poi un ridimensionamento tecnico e mentale terribile) è in agguato. Rimanendo però alla larga dai “se” e dai “ma”, che come detto lasciano il tempo che trovano, Thiem deve ripartire dalle 15 palle break a cui è arrivato affrontando il migliore di tutti, sperando di concretizzare maggiormente alla prossima occasione. Come Federer, come Murray, come forse nei prossimi tempi Raonic o Kyrgios. Ci riusciranno? Saranno stati più forti di Djokovic, come è già successo in passato. Non ce la faranno? Il numero uno rimarrà lui. Il resto sono chiacchiere.