Rio 2016, non ci resta che piangere?

Olimpiadi

Rio 2016, non ci resta che piangere?

Il torneo olimpico di tennis non offre forse spunti tecnico tattici di particolar rilievo ma sta regalando emozioni inaspettate. Ed una strana ma sana reiterazione: nella gioa e nel dolore, l’importante è… piangere!

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Forse perché sei lì in mezzo, solo tra migliaia di persone che ti guardano ripetere gli stessi inutili movimenti; o forse perché come insegnano i saggi il tennis è una continua sfida contro sé stessi (e come puoi credere di vincere contro un nemico così?) sta di fatto che gli epiloghi delle partite spesso si sono bagnate di lacrime.

Si piange quando si perde – come dimenticare la meravigliosa Jana Novotna a Wimbledon? – ma si piange anche quando si vince, come Ivanisevic sempre a Wimbledon nel 2001. L’elenco è lunghissimo e comprende Agassi, Sampras, del Potro, Murray (con quella splendida dichiarazione “è un peccato che io possa piangere come Roger ma che non possa essere bravo come lui”), il discreto Nadal, che farà sapere solo a posteriore e con un anno di ritardo quello che successe negli spogliatoi di Wimbledon dopo la finale del 2007 e naturalmente Roger Federer, che ha passato metà della sua carriera a piangere, buon per lui, lacrime di gioia. Anche se il suo pianto indimenticabile rimarrà per sempre quello sulla spalla dell’avversario di sempre dopo una finale agli Australian Open.

Adesso il mondo – non solo quello del tennis – è stato commosso dalle immagini del numero 1 del mondo, l’imbattibile Novak Djokovic, che dopo la sconfitta contro del Potro, in lacrime anche lui ovviamente, al primo turno del torneo olimpico è uscito dal campo con il volto rigato da lacrime. Nole, come quasi tutti, è recidivo, perché un altro meraviglioso pianto lo aveva regalato dopo la sconfitta contro Stan Wawrinka, a Parigi 2015. Ma questa, complice l’ampio pubblico olimpico e il fatto che sia più recente resterà impressa a lungo nella memoria di chi ha visto la partita e non solo. Perché l’eco mediatica del robot, come ingiustamente viene definito Nole, in lacrime, la mattina dopo ha fatto il giro del mondo, attirando l’attenzione anche di chi il tennis non lo vede praticamente mai.

Ma l’edizione 2016 del torneo olimpico sta decisamente esagerando. Non siamo ancora neanche alle semifinali – gli uomini addirittura agli ottavi – e l’elenco è già corposo: piange Dustin Brown, il simpatico tedesco della Giamaica, fermato da un infortunio. Piange come se avesse vinto Wimbledon, Kirsten Flipkens, dopo aver battuto Venus Williams al primo turno. E piange l’altra Williams, quella fortissima, che quattro anni fa aveva reso il torneo olimpico un’esibizione e che quest’anno ha perso contro un’avversaria a cui aveva ceduto la miseria di due game appena 75 giorni fa. Alcuni giurano che quell’espressione del volto dell’inossidabile Ferru, al secolo David Ferrer, fosse un pianto anch’esso. Persino lui.

Cosa significhino queste lacrime, che bagnano le guance degli atleti di Rio, non solo dei tennisti, non è semplice da dire, e non ci avventureremo in para-psicologiche interpretazioni. In fondo mostrare i propri sentimenti in pubblico, in maniera così sfacciata, mal che vada è un antidoto contro l’insopportabile machismo – nella versione soft del sessismo, o forse hard, chissà – che sembra cogliere più chi racconta queste olimpiadi che chi ci partecipa. Coraggio allora, siamo soltanto a metà torneo tennistico e addirittura ad appena un quarto di olimpiade. Si parla tanto di identificazione con il proprio campione e vogliamo lasciarlo solo a piangere? Preparate i fazzoletti, tante lacrime ci attendono; non vorrete farvi trovare impreparati?

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