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Rassegna stampa

Intervista a Riccardo Piatti: “I top ten? Sono un villaggio globale” (Semeraro)

Last updated: 23/11/2016 11:13
By Alberto Giorni Published 23/11/2016
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5 Min Read


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Intervista a Riccardo Piatti: “I top ten? Sono un villaggio globale” (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Non ci sono più le mezze stagioni, lo sappiamo. E neppure le grandi scuole tennistiche. Perlomeno nell’accezione di un tempo, quando a dominare erano le nazioni tradizionalmente depositarie del sapere. Prima quella inglese e poi soprattutto quella americana – all’inizio con Big Bill Tilden, fuoriclasse e insieme geniale teorico del gioco, poi con il motivatore Nick Bollettieri – e quella australiana, forgiata fra a partire dagli anni ’50 da Harry Hopman. Esistono ancora paesi di antica tradizione tecnica, come la Francia e la Repubblica Ceca, che sanno sfornare in quantità giocatori di medio-alto livello, ma gli steccati sono caduti. La globalizzazione ha travolto gerarchie e consuetudini e oggi un talento che nasce a est può allenarsi a ovest, “delocalizzandosi” come avviene con le aziende. di questa opinione Riccardo Piatti, il più famoso dei nostri coach, perfetto conoscitore del tennis mondiale, che oggi segue il n. 3 del mondo Milos Raonic, fresco semifinalista al Masters. E che in passato ha allenato tanti campioni, da Caratti a Camporese, da Grosjean al giovane Djokovic.

I Top Ten di fine anno appartengono 10 nazioni diverse, quando nel 1979 a dominare erano gli americani – oggi in grande crisi – con ben 7 fra i primi 10. Spiegazioni?

«In realtà non ne esistono, nel senso che non riesco a individuarne una capace di spiegare l’intero fenomeno. Fra i Top Ten di quest’anno riesco a vedere una caratteristica tecnica comune a quasi tutti: tranne Raonic, puntano sulla risposta più che sul servizio. E sono abbastanza simili come impostazione: Murray ricorda Djokovic che ricorda Nishikori…».

Le tante academy, più o meno illustri, producono dunque tennisti omologati?

«Non credo in realtà che le academy siano in grado di produrre campioni. Anche gli spagnoli del resto non sembrano più in grado di rimpiazzare un Nadal o un Ferrer. Djokovic ha una sua storia personale, Nadal fa caso a sé. La Francia forse è quella che riesce a mantenere un livello medio molto alto, ma se Federer o Wawrinka sono diventati casi forti non è merito di una scuola svizzera. Io stesso aprirò un centro l’anno prossimo a Bordighera ma non sarà una scuola tradizionale. Lavorerò facendo consulenza, corsi peri coach. Anche perché oggi non conta la scuola: contano gli investimenti».

L’industria del tennis?

«Faccio l’esempio di Raonic. Su di lui la federazione canadese ha investito fino a quando aveva 18 anni, poi ha investito di nuovo affidandolo a Galo Blanco. Ora è lui che investe su me stesso. Può contare su di me, che lo seguo per 35 settimane all’anno, ma anche sull’aiuto di Carlos Moya e John McEnroe, che sono con lui in alcuni periodi. Se entri nei primi 100, e quindi puoi giocare gli Slam, come minimo guadagni 120.000 dollari all’anno, l’equivalente di quattro primi turni. Milos penso che quest’anno abbia incassato 4 milioni di montepremi (4.632.684 perla precisione, e oltre 13,4 in carriera – ndr). E ha deciso di investire sulla propria carriera. Non ha bisogno di stare in luogo ben preciso, in una academy. Gli staff dei giocatori più forti si sono allargati molto, forse anche in maniera esagerata, visto che a volte comprendono decine di persone, perché oggi a contare non sono tanto le scuole, mai coach di qualità. E in giro non ce ne sono tanti».

Infatti sempre più top player si rivolgono ai campioni del passato, come appunto Moya e McEnroe.

«Il lavoro che fa un ex giocatore è diverso da quello che fa un coach. Il coach pensa in prospettiva: lavora oggi per ottenere risultati fra due anni. Il campione agisce sul momento, sulla situazione. E va sfruttato per quello che può e sa offrire».

Ci fa un esempio?

«Raonic aveva ingaggiato McEnroe per migliorare le volée, e forse si era illuso di poter “comprare” l’esperienza di John allenandosi con lui. Ma l’esperienza non la puoi comprare, te la devi fare da solo. A McEnroe ho chiesto di insistere sull’attitudine agonistica, e al Queen’s è stato come se Milos giocasse in doppio con John, uno dentro e uno fuori dal campo (…)


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