Rassegna a cura di Daniele Flavi
Sfatato il tabù: prima Coppa Davis per l’Argentina
Stefano Semeraro, la Stampa del 28.11.2016
Buona la quinta. Dopo 4 finali perse (l’ultima nel 2011) l’Argentina ha conquistato la sua prima Coppa Davis superando la Croazia a Zagabria per 3-2. Gli slavi erano in vantaggio 2-1 dopo il doppio di sabato, la rimonta dei gauchos, in una Zagreb Arena infuocata da una «hinchada» guidata da uno scatenato Maradona, ha in calce la firma di due eroi: Juan Martin Del Potro, che per la prima volta in carriera (su 15 occasioni) ha rimontato da 2 set di svantaggio contro Marin Cilic (n.6 Atp) vincendo in 5 set (6-7 2-6 7-5 6-4 6-3) il punto del 2-2 grazie al crollo dell’avversario. E Federico Delbonis, che nel quinto e decisivo incontro ha liquidato in tre set (6-3 6-4 6-2) i 211 centimetri un po’ ingrigito di Ivo Karlovic. E la conferma delle qualità di davisman di Delbonis (a luglio aveva eliminato quasi da solo l’Italia nei quarti) e la consacrazione definitiva di Juan Martin Del Potro, che è riuscito dove avevano fallito Vilas, Clerc e Nalbandian. La sua straordinaria rimonta ha rappresentato la fine di una maledizione per l’Argentina, fino a ieri la più forte nazione a non aver mai alzato la Zuppiera. Dopo il ritorno dall’ennesimo infortunio, il rientro nei top-50, l’argento a Rio, la Davis sigilla il suo incredibile 2016. Non una buona notizia per l’Italia, che in Argentina a febbraio giocherà il 1 turno di Davis
Che rimonta, la Davis va, finalmente, all’Argentina
Riccardo Crivelli, la gazzetta dello sport del 28.11.2016
La maledizione, se c’è una giustizia, non poteva che svanire così, dopo sette ore e due minuti di una domenica pomeriggio di cuore, sangue, orgoglio, volontà, feroce determinazione di cambiare finalmente il corso della storia, di completare una rimonta che li avrebbe portati dritti dritti nella leggenda. Così, dopo quattro finali perse e l’ossessione per una vittoria che sfuggiva ogni volta che sembrava li da abbracciare, l’Argentina incide il suo nome sul piedistallo della Coppa Davis, precipitando nel dramma la Croazia e il suo condottiero Cilic, che sono arrivati a un set dall’apoteosi prima di arrendersi a un’idea, a una passione, a un sogno, più che a un avversario. E’ la vittoria di un eroe ritrovato, Del Potro, uno che a gennaio sembrava perso per il tennis e che da allora ha recuperato 1007 posizioni in classifica (da 1045 a 38), è tornato a firmare un torneo (a Stoccolma) dopo più di due anni, ha conquistato un argento olimpico e con esso, finalmente, l’amore di una nazione e ha inflitto l’unica sconfitta al numero uno Murray dagli Us Open, nel primo singolare della semifinale contro la Gran Bretagna, probabilmente il momento in cui l’Albiceleste delle racchette ha capito di poter scavalcare il muro fin qui impenetrabile dell7nsalatiera. Soprattutto, è la vittoria di una squadra coesa, risorta grazie al c.t. Orsanic dalle macerie lasciate dal precedente capitano Jaite, che aveva spaccato il team in clan che non si parlavano. Una squadra che, recuperato Delpo ad alto livello riconoscendogli anche il ruolo di leader carismatico, ha saputo pescare dal mazzo, ad ogni turno, protagonisti diversi ma sempre fedeli alla causa. In Polonia ha portato due punti Mayer, contro l’Italia ha deciso la doppietta di Delbonis, in Gran Bretagna i punti determinanti sono stati timbrati da Pella e Mayer, a Zagabria nell’ultimo singolare, sotto il peso di un dentro o fuori da brividi, è ancora Delbonis a prendersi sulle spalle l’Argentina, giocando la partita della vita a suon di passanti e dritti uncinati sulla riga contro un Karlovic piegato dall’emozione, cui il servizio funziona a singhiozzo (solo 14 ace). Federico da Azul è soltanto l’ultimo dei classici animali da Davis, buoni giocatori (è numero 41 Atp) che si esaltano nel clima di Coppa e con lo spirito del Paese cucito addosso che ti fa superare una stagione certamente non memorabile (negli ultimi 13 tornei è uscito 10 volte al primo turno): «E’ un sogno che si avvera — dirà senza mostrare emozioni — ho cercato di rimanere concentrato su ciò che dovevo fare punto dopo punto, perché se avessi pensato a quello che stava accadendo avrei combinato un disastro». RICONCILIAZIONE Il sogno, però, non sarebbe stato possibile senza il miracolo di Del Potro, senza la sua fantastica rimonta contro Cilic da due set sotto e un break di svantaggio all’inizio del quinto. Non si è arreso, e come poteva farlo chi non ha abbandonato la speranza neppure quando, con i polsi martoriati da tre operazioni chirurgiche, guardava giocare gli altri dal divano di casa. Una mazzata, certo, per il povero Cilic («Fa male perdere così»), ma l’ascesa al paradiso per Palito: «Sono rimasto calmo, sapevo di poterla comunque vincere, non ho mai smesso di sperare». E finalmente il trionfo cancella amarezze, dissapori, rotture personali che parevano insanabili nonostante legami (con Monaco, ad esempio) sbocciati e saldatisi fin dall’adolescenza. Era il 2008 quando Nalbandian, narrano le cronache ufficiose, appese ai muri degli spogliatoi di Mar del Plata il povero Delpo, che la settimana prima della finale contro la Spagna era volato a Shanghai a giocare il Masters, tornando distrutto tanto da infortunarsi dopo il primo singolare, obbligando il capitano Mancini a schierare Acasuso, battuto da Verdasco per l’1-3, nella terza giornata. Da quel momento sono state solo ombre, è stato ostracismo più o meno forzato, è stata la risposta secca di Juan Monaco dopo un successo contro la Germania nel 2013 («Se abbiamo ricevuto i complimenti di Del Potro? E chi è Del Potro?»). Il nuovo c.t. Orsanic, con la pazienza di Giobbe, ha ricucito, smussato, ricostruito. Si è affidato a un campionissimo, seppur ancora fragile, e alla fine ne ha estratto un’avventura mitica e mistica. Que viva Argentina.
Argentina, prima Davis con la favola Del Potro
Daniele Azzolini, tuttosport del 28.11.2016
Altro modo non c’è, per vincere la Davis. Noi non lo conosciamo. Resistere, rimontare, inseguire, sorpassare: sono i verbi che declinano una conquista storica Juan Martin del Potro si batte il pugno sul petto, il cuore serve, che altro? Federico Delbonis ha occhi gonfi di lacrime. Vanno bene anch’esse, anzi, fanno bene, perché i sentimenti sono genuini e non c’è niente da nascondere. Il pubblico canta. Lo ha fatto per tre giorni filati. Urlato a squarciagola, l’inno arriva distorto ma potente, nemmeno il Timi Hendrix del festival di Monterrey l’avrebbe fatto meglio. È una versione un po’ sbrindellata, parecchio eccitata, quasi ebbra, ma dà il segno di una felicità immensa, che dipinge di bianco e azzurro uno stadio intero. Ma quanti sono? Metà Arena, tutta l’Arena? Non siamo in Argentina, siamo a tredici ore buone di aereo, magli argentini sono dappertutto. Anche Maradona è dappertutto. È festa vera. La vecchia insalatiera trova casa, finalmente, nel Paese che la stava aspettando da sempre. Ora la quadratura è perfetta. L’Argentina era l’ultima grande Scuola tennistica a non aver mai vinto la Coppa. Novantatré anni di tentativi (il debutto fu nel 1923), quattro finali disperse, compresa quella giocata davanti al proprio pubblico, Estadio Islas Malvinas, Mar del Plata. Era i12008 e non c’era Nadal. Mala Spagna di allora riusciva a fame a meno, oggi chissà. Ferrei; Feliciano Lopeze Verdasco bastarono, gli argentini misero in campo Nalbandian il vecchio e Del Potro il giovane, ma solo il primo fece l’impresa battendo Ferrer. Del Potro invece rovinò tutta Si fece prendere il tempo degli scambi da Lopez, perse la testa Gli argentini non furono teneri con lui, ma ieri erano tutti lì da capo, partecipi del suo riscatto, pronti a chiederglielo, a incoraggiarlo, a sostenerlo. E arrivato, alla fine, ma come sia stato possibile solo le divinità del tennis possono dirlo. Certo, quel magnifico dritto in corsa, pesante come un container che ti cade addosso. Vero, il servizio che è diventato via via sempre più centrato. Sicuro, quei due, tre passaggi a vuoto che hanno frenato l’aire di Marin Cilic, il gemello croato di Delpo (entrambi del 1988, entrambi di settembre, i123 Juan Martin, il 28 Marin, entrambi alti 1,98 e soprattutto amici). Ma il croato era avanti di due set, giocava davanti al proprio pubblico nella Zagreb Arena, martellava con il servizio a 226 chilometri orari (fantascientifica la media dei servizi eseguiti nei cinque set, 204 orari), e insomma, teneva il gioco in mano. La Croazia, 2-1 dopo il doppio di sabato, era a un set dalla sua seconda Coppa. Ma la Davis è strana, lo sapete. Se il tennis l’ha inventato il diavolo, la bowl d’argento per servire il punch, poi diventata trofeo, fioriera moglie di Norman Brookes la utilizzava così, in attesa di riconsegnarla ai finalisti), infine insalatiera per noi italiani fantasiosi, quella coppa dicevamo, l’hanno forgiata nel fuoco infernale. Del Potro si è rilanciato ritrovando il servizio, e quello gli ha restituito l’uno-due che smonta gli avversari. Colpo di obice a 220 orari e dritto a campo aperto. Sotto quel fuoco incrociato, Cilic ha perso la bussola, si è fatto timido. E bastato poco, e Del-po gli è finito addosso, lo ha risucchiato punto su punto. Sul 2-1 del quinto è passato perla prima volta in testa, macerano già stati due break L’ultimo è giunto sul3-2 e Cilic non l’ha più recuperato. Quattro ore e 53 minuti per stabilire che era tutto in perfetta parità, come se niente fosse accaduto. Forse, alla fine, la differenza l’ha fatta proprio lei, la Davis. Quella “old style”, che non tutti sanno giocarla, nemmeno certi campioni. Quella che ti gonfia di apprensioni e ti intorcinai pensieri. La Davis con il pubblico che ti fischia, che sghignazza quando sbagli una palla, che parla durante gli scambi, che chiamai punti fuori. La Davis e la bolgia. Quella che agli argentini riesce meglio. In casa e anche fuori. Così, sul 2 pari Delbonis non ha avuto remore ad avventarsi sul corpaccione da 2 metri e 11 di nonno Karlovic. Ha fatto valere la sua verve giovane, ha giocato con grande solidità spalmando quattro break in tre set all’uomo dal servizio più veloce del mondo, senza concederne uno. Povero nonno trentasettenne, non doveva manco esserci in questa sfida Poi si è fatto male Coric, e l’hanno chiamato. Non era pronto, e lo si èvisto. L’ultima immagine è il grappolo umano che si forma su Delbonis, steso sul cemento dell’Arena Finisce così. Giusto così.
Argentina anima e grinta la rimonta vale la Davis
Angelo Mancuso, il messaggero del 28.11.2016
Ci sono voluti Diego Maradona scatenato in tribuna e l’impresa di Juan Martin Del Potro, tornato al top dopo i tormenti di un polso malandrino, per far salire su un aereo direzione Buenos Aires la prima Coppa Davis della storia dell’Argentina. Il gigante di Tandil ha tenuto in vita la sua squadra, che partiva dall’1-2 delle prime due giornate, rimontando due set a un altro colosso di quasi due metri, Marin Cilic: 6-7 (4) 2-6 7-5 6-4 6-3 in quasi 5 ore davanti ai 15 mila spettatori dell’Arena di Zagabria. Un match epico, tra i più appassionanti di tutto il 2016. IL RIBALTONE Il croato nato a Medjugorje ha vinto la battaglia degli ace (34-16), ma ha perso la guerra sopraffatto dalla potenza del ragazzone argentino di 28 anni dal diritto che ti lascia fermo. Quando si parla di Davis talvolta scatta la retorica, ma giocare con la maglia del proprio paese trasmette emozioni e tensioni moltiplicate rispetto a un torneo. Quindi Federico Delbonis ha completato l’opera fissando il risultato sul 3-2 grazie al successo su un altro spilungone del circuito, Ivo Karlovic: 6-3 6-4 6-2. Assente l’emergente Cork, reduce da un intervento al ginocchio, il capitano croato Krajan si è affidato ai 211 centimetri del veterano del team nella sfida decisiva. Una scelta dettata dalla superficie velocissima, tanto che alla vigilia della finale gli argentini avevano chiesto all’ITF un test di verifica della regolarità del tappeto indoor scelto dai croati. Logico puntare sugli ace di Karlovic, che però in campo ha pagato il peso dei suoi 37 anni contro un rivale più giovane di 11 e molto solido nei fondamentali. “Asignatura pendiente”: un conto in sospeso con la storia, una maledizione. L’Argentina era il paese ad aver giocato più finali senza aver mai vinto: 4 tra il 1981 e il 2011. Non sono il popolo più unito del mondo, ma quando c’è di mezzo lo sport conta solo la bandiera. Prova ne sia i circa 500 tifosi accorsi a Zagabria nel segno dell’incessante “vamos a ganar” cantato a squarciagola. Del Potro e compagni sono n usciti laddove avevano fallito campioni del calibro di Vilas, Clerc e Nalbandian. Proprio i sudamericani saranno i prossimi avversari dell’Italia nel primo turno della Davis 2017 (3-5 febbraio): a metà settimana comunicheranno la scelta di sede e superficie.