Io, Sam, francamente me ne infischio

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Io, Sam, francamente me ne infischio

Donald Trump vuole militarizzare la frontiera USA-Messico. Sam Querrey se ne frega: la scavalca con un salto e conquista Acapulco, pera e sombrero

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Stelle, strisce e quattro titoli. Tanti sono gli allori di cui si sono cinti i tennisti statunitensi in questo 2017, dominatori incontrastati del febbraio tennistico con tre vincitori su dodici tornei disputati. Giusto qualche ora prima che a Indian Wells si sguainino le spade, gli USA hanno tempo di godersi questi successi. L’alfiere di punta sullo scacchiere degli States è stato Jack Sock con i successi di Auckland e Delray Beach ma il sigillo più importante, in termini di prestigio del torneo e valore degli avversari sconfitti, l’ha firmato Sam Querrey in quel di Acapulco.

Il lungo di San Francisco è stato parte attiva di uno “scacco di scoperta” in cui tutti gli altri big presenti al via si sono fatti da parte lasciando libera la linea d’attacco di Sam, che privo di ogni timore reverenziale si è liberato di quattro teste di serie pesanti prima di trionfare: Goffin (5), Thiem, (4) Kyrgios (6) e un signor Nadal (2) in finale. Due soli set lasciati per strada, uno contro l’australiano e l’altro all’esordio contro un insidioso Kyle Edmund. In Messico, proprio ora che sembra così irriverente per un americano. Un “francamente me ne infischio (e vinco lo stesso)” scritto sul campo con la fermezza del miglior Rhett Butler, e con buona pace di Rossella O’Hara. Che senza censure e storture da doppiatori diventa “Frankly my dear, I don’t give a damn“.

Il tennis, dicevamo. Per Querrey si tratta del secondo ATP 500 in carriera dopo Memphis 2010, il nono titolo complessivo. Querrey non è il tennista statunitense più vincente in attività (guida Isner con dieci titoli) ma è l’unico ad essersi affermato in un torneo di rango superiore ai 250. Se John può vantare anche qualche cameo in top 10 nel 2012, va registrato il suo terrificante score di sei sconfitte su sei finali tra ATP 500 (tre) e Masters 1000 (tre). Sam invece è stato semplicemente perfetto in terra messicana.

Il cemento di Acapulco, di media velocità e in grado di restituire un rimbalzo piuttosto alto, è il territorio ideale per i suoi kickoni e i suoi drittoni. L’aveva ammesso proprio qualche ora prima di sfidare Nadal: “Qui la palla rimbalza proprio come piace a me, mi trovo molto bene su questi campi“. Non a caso nel 2016 la sua corsa si era fermata solo in semifinale al cospetto del futuro vincitore Thiem, un altro che non disdegna le condizioni di gioco messicane. Come lo stesso Nadal, che prima di imbattersi nel ciclone statunitense ad Acapulco non aveva mai perso. Un ciclone che peraltro non era mai riuscito a lasciare il segno nel torneo sudamericano: mai nelle sue precedenti 24 edizioni l’Abierto Mexicano Telcel era finito nelle mani di un “usurpatore nordista”, neanche nella sua parentesi iniziale di Città del Messico (1993-1998).

Sam Querrey quindi si è permesso di “invadere” il territorio messicano in un momento storico in cui tra Stati Uniti e Messico non è esattamente un continuo scambio di cortesie. Il neo-presidente Trump ha promesso la costruzione di un muro al confine tra i due paesi, o meglio, di ampliare le barriere discontinue che già oggi dividono per circa un migliaio di chilometri i berretti yankee dai sombrero. Non si può quindi fare a meno di sorridere alla vista di un californiano che indossando il tipico copricapo messicano solleva, in casa del “nemico”, un curioso trofeo a forma di pera in cui è incastonata una pallina da tennis (qualcuno peraltro si è chiesto il perché di questa scelta stilistica, senza grossi risultati). Per circa trent’anni infatti la California, o Alta California, aveva fatto parte del neonato stato del Messico prima che un sanguinoso conflitto ne determinasse l’annessione (1848) agli Stati Uniti d’America. La Bassa California è rimasta – e figura tuttora – all’interno dei confini messicani. Ma la frontiera non ha mai smesso di essere una piccola polveriera.

Muro o non muro, che chissà se si farà, ma in realtà abbiamo detto che un po’ ce n’è già, lo zio Sam se n’è fregato o forse ha solo confermato nello sport quello che accade anche nella realtà: si scende in Messico molto più facilmente di quanto non si riesca a salire verso gli Stati Uniti. Andare a bere un Margarita a Tijuana, o andare a vincere un torneo ad Acapulco, è molto più facile che attraversare il confine per sorseggiare un Manhattan a San Diego. O vincere – da messicano – un torneo negli Stati Uniti, foss’anche di basso livello. Impresa ad esempio improba per il n.1 messicano Lucas Gomez, seduto sul gradino 563 del ranking, che in carriera al massimo ha raggiunto una finale negli States (Futures di Houston, 2015) per poi essere sconfitto dal Next Gen Michael Mmoh. Ma scartabellando archivi e oltrepassando frontiere… ci si imbatte in Hans Hach Verdugo, n.1077 del ranking di singolare (appena prima di Ronaldo, occhio e croce) ma addirittura 218esimo miglior doppista del mondo. Hans nel 2016 ha violato la sacralità del suolo statunitense vincendo in doppio i Futures di Buffalo e Rochester – in rapida successione – e poi chiudendo in bellezza a Houston, dove Lucas Gomez aveva fallito. Insomma, grande impresa di Sam. Ma il muro lo sanno scavalcare anche i messicani.

P.S. “Hopefully America can get behind him and we do some great things“. Spero che l’America possa sostenerlo e che si possano fare grandi cose. A parlare è Sam Querrey, il 19 gennaio. Il destinatario dell’affermazione è proprio Donald Trump. Ironia della sorte.

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