Ci sono atleti che travalicano il confine dello sport per finire direttamente nelle didascalie che spiegano le foto di un secolo. Dick Fosbury un giorno si è svegliato e ha deciso che il salto in alto doveva essere fatto in un altro modo, e da quel giorno il salto in alto è diventato un altro sport. “Effetto Fosbury“, “rivoluzione Fosbury“. È quello che ancora leggiamo, persino traslato in altri ambiti come espressione significante l’anno zero di qualcosa. Il punto di svolta, uno storico cambio di tendenza. Si può entrare nella storia con la forza dell’innovazione.
Peter Norman era un velocista australiano che un altro giorno, nell’ottobre 1986 a Città del Messico, si insediò tra due saette afroamericane nella gara olimpica dei 200 metri. Norman veniva da un paese in cui la legislazione era marcatamente a favore dell’apartheid; John Smith (oro) e Tommie Carlos (bronzo) scelsero proprio quella premiazione per manifestare apertamente contro le oscenità razziali. Scalzi, pugno alto, e sul petto lo stemma del Progetto olimpico dei diritti umani. In pochi sanno che l’australiano, medaglia d’argento, per la decisione di unirsi silenziosamente alla loro protesta non avrebbe praticamente più potuto essere uno sportivo. Dopo essere stato osteggiato in ogni modo dalla federazione australiana moriva nel 2006, quasi dimenticato. Non da Carlos e Smith, che erano lì a reggere la sua bara il giorno del funerale. In uno dei momenti più intensi che l’antologia sportiva possa ricordare.
Ha pagato il prezzo della sua scelta. Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa
(Tommie Smith)
Arthur Ashe rientra in questa cerchia di atleti. Come Muhammad Alì non poteva essere un pugile, Arthur Ashe non è mai stato un tennista. Nonostante nel 1963 sia il primo nero a militare nella squadra statunitense di Coppa Davis, per poi diventarne il capitano nel 1981. Nonostante vinca l’US Open nel 1968 (prima edizione dell’Era Open), primo fra tutti i tennisti di colore. Nonostante si ripeta nel 1970 agli Australian Open, in Era Open ormai conclamata. Nonostante nel 1975 diventi il primo e finora unico “non bianco” a sollevare il trofeo di Wimbledon (nel 1996 MaliVai Washington sarebbe arrivato in finale, perdendo contro Krajicek). Nonostante questi traguardi che già lo consacrerebbero nell’olimpo del tennis, Arthur è stato in grado di sobbarcarsi il peso di diverse battaglie. Non una, diverse battaglie. Ed è andato oltre il tennis.
Muore di AIDS nel febbraio 1993. Contrae l’infezione a causa di una trasfusione di sangue fatalmente infetto, resasi necessaria come corollario di uno degli interventi cardiaci che è costretto a subire e per i quali abbandona il tennis. Si rifiuta di parlare pubblicamente delle sue condizioni di salute fino a che un cronista indiscreto di USA Today (4 anni dopo la diagnosi) lo induce alla confessione. Dall’aprile 1992, per il tempo che gli resta da vivere, accetta di fungere da cassa di risonanza delle insidie di una malattia che sta per diventare una piaga sociale. Se oggi non lo è più, o lo è in misura marcatamente minore, lo si deve anche a quelli come lui. Simbolo della lotta contro l’apartheid e a favore dei diritti civili, nei suoi ultimi mesi di vita riesce a trovare le forze per fondare la Arthur Ashe Institute for Urban Health (in piedi ancora oggi) e presentarne gli scopi davanti alle Nazioni Unite. Per poi lasciare, grazie al tramite di sua figlia, una testimonianza tangibile delle sue lotte:
“Lungo la strada, inciamperai, e forse cadrai; ma anche questo è normale e previsto. Alzati, rimettiti in piedi, mortificata ma più saggia, e continua per la tua strada“. Si conclude così la lettera – destinata a sua figlia Camera, 7 anni – con cui Arthur si congedava da una vita che gli aveva restituito soddisfazioni, inciampi e dolore. La stessa vita che gli aveva consegnato anche l’immortalità.