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US Open: chi ringrazia gli incordatori?

NEW YORK - Cosa provano coloro che incordano le racchette quando ne vedono una violentemente sbattuta per terra? Magari dopo 18 ore di lavoro? Nadal almeno dice grazie...

Last updated: 02/09/2017 1:23
By Eleonora Magnanelli Published 02/09/2017
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4 Min Read

L’anno scorso il nostro Luca Baldissera era andato a vedere le magie che fanno gli incordatori dei grandi campioni del tennis nei laboratori sul lato est dell’Arthur Ashe Stadium, intervistando anche un incordatore italiano, dalla memoria di ferro, che gli rivelò tutte le specifiche delle marche di corde e delle tensioni utilizzate dai campioni. Potete leggere il suo pezzo qui. Ma cosa si prova quando si vede un giocatore che, spesso in un momento di rabbia, lancia la racchetta a cui si è lavorato con tanta dedizione sul campo di cemento, proprio come ha fatto l’australiano Nick Kyrgios in questo US Open dopo aver perso al primo turno contro John Millman?

Jared Maggie, l’incordatore australiano che aveva proprio lavorato a quella racchetta, non si è sbottonato commentando la scena, che aveva visto in sala incordatura. “Purtroppo noi a riguardo possiamo fare poco. E con Kyrgios purtroppo capita spesso”. Quest’anno sono 16 le persone che lavorano nel laboratorio, sotto l’occhio vigile di Ronald “Ron” Rocchi della Wilson Sporting Goods. Reclutatore e coordinatore degli incordatori, che va a scovare in tutto il mondo: dall’Australia al Giappone. Promettendo un lavoro bellissimo ma allo stesso tempo lungo e stressante che si dipana per 3 settimane e mezzo, dalle qualificazioni fino alle finali. Un impegno che comincia alle sette della mattina e termina quando anche l’ultima pallina è rimbalzata sul campo da gioco, quindi anche dopo le mezzanotte. “È un lavoro duro – dice Rocchi – che si fa solo se c’è passione. La soddisfazione è tornare a casa e avere la consapevolezza di essere uno degli incordatori più bravi al mondo”.

Perché gli incordatori sono così importanti? Perché ormai le corde sono divenute forse la parte più importante dell’equipaggiamento di un giocatore. Da cui sono diventati praticamente ossessionati, ognuno a modo suo. “Juan Martin del Potro ne usa sette”, dice Rocchi, “Jack Sock, sei, sette a volte otto. Kei Nishikori invece chiede otto racchette appena fatte per ogni singolo match, e non usa mai, nè per la partita nè per gli allenamenti attrezzi non incordati il giorno stesso”. Questo vuol dire che se un tennista va avanti nel torneo o semplicemente piove, le racchette, non usate, saranno mandate indietro al laboratorio per essere risistemate nuovamente, come racconta Maggie: “Si finisce per rifare sempre le stesse racchette. Ma non si possono incolpare i giocatori. Ci sono un sacco di soldi in ballo, devono avere quello che desiderano”.

Succede poi che a volte gli incordatori debbano andare sul campo da gioco, un po’ come il fisioterapista che scende in campo in caso di infortunio, se il giocatore non si trova più bene con la racchetta. In quel caso entrano in gioco i ball boys e le ball girls che devono correre in laboratorio e farla risistemare in approssimativamente dodici minuti. Ma la domanda più importante è: i giocatori apprezzano tutto questo lavoro che si nasconde dietro le loro racchette? “Non abbiamo mai ricevuto delle grandi lamentele“, confessa un altro veterano del laboratorio, “ma diciamolo, non riceviamo nemmeno tanti ringraziamenti“. E quando questi ci sono, non vengono dimenticati. Come quella volta, ricordano gli artigiani delle racchette, che il numero uno del mondo Rafael Nadal, venuto a lasciare le proprie racchette, se ne è andato dicendo un semplice: “Grazie mille… ci vediamo domani“. Una cosa semplice come bere un bicchiere d’acqua, ma che dopo diciotto ore di lavoro, fa decisamente piacere.

 


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TAGGED:US Open 2017
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