La piccola guerra Europa-America per gestire l’ATP. Finali a Torino?

Editoriali del Direttore

La piccola guerra Europa-America per gestire l’ATP. Finali a Torino?

Djokovic studia da politico. Lui, Federer e Nadal. Le chances di Torino per le finali ATP 2021-2025. Sono ottimista. La lotta è con Tokyo. Il colpo di Stato contro Kermode. Né ostriche né champagne

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Per fortuna noi di Ubitennis abbiamo due inviati a Indian Wells (Vanni Gibertini e Luca Baldissera) che, oltre ai loro quotidiani podcast, dirette Facebook ed eccellenti cronache, possono andare a caccia di indiscrezioni riguardo al prolungato board dell’ATP che si sta svolgendo lì a margine del torneo e che va avanti per giorni. C’era in ballo la leadership dell’ATP e c’è anche la decisione riguardo a chi debba ospitare per 5 anni le prossime ATP Finals (2021-2025). Decisione che, forse anche per via della tardiva comunicazione del Governo Italiano riguardo alla candidatura Torino (ma chi può sapere che non ci fossero anche altre città in ritardo nella presentazione delle dovute garanzie per 78 milioni di euro?) pare sia slittata dal 14 marzo a Indian Wells a data da destinarsi durante il torneo di Miami. Può anche essere che dopo il defenestramento di Chris Kermode (che ha servito l’ATP per due mandati triennali), la stessa ATP si sia trovata un attimo in difficoltà nel prendere una decisione che riguarderà il torneo più importante – sotto tutti i profili, prestigio, economia – per la stessa ATP. Si tratta di assegnare una sede per cinque anni, non per uno.

IL COLPO DI STATO CHE HA FATTO FUORI CHRIS KERMODE

Non potranno aspettare fino a dicembre/gennaio quando il successore di Kermode sarà noto, ma che abbiano avuto bisogno di prendersi un po’ di tempo per un aspetto così importante, è ragionevole. Anche per capire se Kermode avesse in qualche modo – sia pur informalmente – fatto capire di voler appoggiare una qualche candidatura. Giovedì, dopo ore e ore di dibattito e come ha già scritto Vanni Gibertini, si è deciso di “far fuori” Chris Kermode, l’inglese di 54 anni che da sei era il chief executive, colpevole secondo il canadese Pospisil in primis di non aver instaurato un bel braccio di ferro con gli organizzatori degli Slam che “se la cavano distribuendo ai tennisti soltanto il 15% di quanto guadagnano al netto delle spese, mentre negli altri sport americani gli atleti-attori dello show, riscuotono mediamente il 50%”.

IL RUOLO DI NOVAK DJOKOVIC

Novak Djokovic, presidente dei giocatori che in passato e non solo in Australia aveva già fatto intendere di non essere per nulla contento della gestione Kermode, a Indian Wells ha cercato di fare un po’ il Ponzio Pilato, di mostrarsi super-partes. Ma penso che il “colpo di Stato” debba essere però imputato in buona parte proprio a lui. Non è certo un Pospisil che può trascinare tutti gli altri. Anche se Novak ha sottolineato il fatto di “essere soltanto uno dei dieci… del Player Council (con Anderson, Haase, Isner, Querrey, Lu, Pospisil, Jamie Murray, Soares, Dowdeswell, Vallverdu… se non è cambiato qualcosa), il mio ruolo non è decisivo…”. Mmmm, io non ne sono convinto.

 
Novak Djokovic durante il media day al BNP Paribas Open 2019, Indian Wells (foto Twitter @BNPPARIBASOPEN)

Nole ha anche sottolineato la necessità di cambiare il peso del CEO, visto che essendo assai spesso d’accordo da una parte i tre giocatori del Pro Council e dall’altra parte i tre direttori dei tornei, andava a finire che il parere del CEO finiva spesso per essere determinante (anche se il CEO di tanti anni, Mark Miles ad esempio, praticamente cercava di non votare mai ma di svolgere principalmente una funzione moderatrice fra le parti).

Va apprezzato il senso di “appartenenza” di Djokovic alla “mission ATP”. Non è facile per un numero 1 del mondo che deve concentrarsi primariamente sulla propria carriera – che come abbiamo visto per lui e per gli altri top player può essere ricca di alti e bassi – imbarcarsi in vicende che sono alla fine molto “politiche” e che inevitabilmente ti espongono a critiche da una parte e dall’altra. Se scontenti i top player fai magari felici i minor-player, se fai viceversa idem. Idem anche con i tornei: se proteggi i piccoli si lamenteranno i grandi, e viceversa.

DAL LEADER SENIOR FEDERER (CON NADAL), AL LEADER JUNIOR DJOKOVIC. QUANTO DIVERSI!

Prima di Djokovic si erano messi i panni del leader sia Federer sia Nadal. Federer è sempre stato l’incarnazione dell’uomo politically correct. Ho la sensazione che nel cercare di accontentare sempre tutti non sia stato determinante nell’affrontare annosi problemi irrisolti. Nadal è sempre stato un po’ più chiaro in quello che pensava, ma è anche tipo orgoglioso: non gli danno retta? Lascia perdere con l’aria di chi dice “peggio per voi!”. Questa almeno è la sensazione che io, conoscendoli un poco, ho di loro. Credo che Djokovic, per natura, sia più deciso e determinato a dar corso ai propri pensieri. Diplomatico con i media, quando fa lunghi discorsi che spesso si arrotolano su loro stessi e non ti fanno tanto capire dove vuole andare a parare, nella sua testa però le idee le ha chiare e le porta avanti.

Forse anche perché – ma questa è mia “psicanalisi da supermercato” – mentre Federer e Nadal godono di un prestigio e un carisma personale ormai cementato nei secoli, lui un pochino deve ancora costruirselo nel proprio ambiente. O forse sente di doverselo costruire. Lui è un po’… lo junior del trio di dominatori del terzo millennio. Roger il primo leader, la nave scuola e il campione dal talento innato, Rafa il primo rivale con più muscoli e tanta energia straripante, Djokovic colui che fra i due rivali (più amici che litiganti ma pur sempre binomio extraterrestre) è riuscito ad imporsi anche nei loro confronti come il campione che ha trovato il modo di eliminare ogni errore e debolezza. Dimostrandosi pronto a sobbarcarsi anche un ruolo di leadership con tanto di responsabilità “politica” nei confronti di colleghi tennisti e non. Federer ha presieduto il Council dal 2008 al 2014, con Nadal che ha fatto da suo consigliere per 4 anni…

NOVAK STUDIA DA POLITICO PER LA SERBIA?

Novak ha sempre respinto – finora – le ipotesi di occuparsi politicamente del proprio Paese, la Serbia, dove è più popolare del Presidente della Repubblica sebbene abbia scelto la propria residenza a Montecarlo, ma magari sta pensando – chi può saperlo? – di far training da homo politicus nel microcosmo tennistico. Per non essere da meno degli altri due top-star, o magari giusto per apprendere… un nuovo mestiere.

CHI SARÀ L’EREDE DI KERMODE? LA GUERRA IN ATTO

Il prolungato board dell’ATP in corso a Indian Wells ovviamente deve affrontare – innovando… – parecchie situazioni, ora che si sa che Kermode dal 2020 non sarà più il leader. Tutti quei motivi che hanno portato al suo defenestramento dovranno essere rivisti sotto una nuova luce. Vanni Gibertini ha ricordato che Nadal e Hewitt si erano espressi in favore di Kermode, e così altri giocatori grazie anche al fatto che il prize money per l’ATP è cresciuto del 60% nei cinque anni di suo mandato.

Gli alleati di Djokovic nel suo “colpo di Stato” sono il discusso ex tennista americano nonché “player representative” Justin Gimelstob – l’ex doppista e commentatore televisivo (i conflitti di interesse al centro di una questione giudiziaria collegata alla presunta aggressione denunciata dal finanziere Randall Kaplan e anche per presunte vicende sessiste precedenti) – i due tennisti americani Isner e Querrey che sono apparentemente fedelissimi a Gimelstob, l’altro player representative David Egdes (che è nel board di Tennis Channel, network che ha ingaggiato anche Gimelstob…) mentre una posizione più sfumata avrebbe il terzo player representative, il doppista inglese Alex Inglot. Per far capire al lettore di Ubitennis come stanno le cose, il board of directors che avrà fino a fine 2019 il CEO Kermode, ha sette componenti. Insieme ai tre Player Representatives sopracitati anche tre rappresentanti dei tornei: Gavin Forbes, Charles Smith e Herwig Straka.

A pagina 2: la struttura dell’ATP, Torino vs Tokyo per le Finals

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Coppa Davis

Coppa Davis – Il “caso” Nazionale: io penso che Sinner meriti l’assoluzione

L’opinione del direttore di Ubitennis. “Non la merita chi lo ha sollevato”. Fossi Volandri convocherei serenamente un Sinner disponibile. Binaghi e la Real Politik di Otto von Bismark

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Jannik Sinner - Toronto 2023 (foto Twitter @atptour)
Jannik Sinner - Toronto 2023 (foto Twitter @atptour)

La prendo larga per sostenere che secondo me Jannik Sinner non merita proprio di essere lapidato, già proprio preso a pietre in faccia come è accaduto, a seguito di alcuni interventi – da Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta, sollecitati dalla linea editoriale della Gazzetta che ha sollecitato le reazioni scandalizzate di campioni di altri sport con una campagna di stampa massiccia, quasi feroce – e da tutti i colpevolisti che si sono scagliati virulentemente contro la decisione di Jannik di saltare il girone di Coppa Davis di Bologna.

A Bologna, cioè laddove  – almeno sulla carta anche se poi non è stato così – l’Italia avrebbe dovuto passare in carrozza alle finali di Malaga trovandosi alle prese con 3 squadre che (unica eccezione il Cile per via di Jarry) per quattro quinti non potevano schierare tennisti compresi fra i primi 100/150 del mondo.

Sostengo l’innocenza di Jannik anche se lì per lì mi è certo dispiaciuto che non ci fosse a Bologna –  anche ma non solo per coerenza con quanto sostenni 15 anni fa nel “caso Bolelli”.

 

E mi trovo semmai un po’ in imbarazzo per capire come dovrei reagire nel registrare invece una certa assenza di coerenza in chi vorrebbe applicare due pesi e due misure, cioè regole che valgono per alcuni e non per altri.

Regole diverse infatti sembrano valere per i tennisti molto forti, Jannik Sinner, n.7 del mondo e n.4 della Race, ma non per quelli più deboli, meno noti e con un impatto mediatico meno “forte”, Bolelli n.34, Seppi n.46 e altri condannati obbligati senza sconti a passare sotto le Forche Caudine. E’ anche vero però che si sta parlando di regole “pensate” e applicate fra il 2008 e il 2010

LA RAGION DI STATO

Tutto ciò, anche se alla fin fine anch’io accetto in parte laRagion di Stato che ha certamente ispirato recentemente Angelo Binaghi. Cioè quella “ragione” che può permettere soluzioni pragmatiche che sacrifichino la morale e la coerenza pur di risolvere in modo vincente un problema.

Si tratta…almeno un po’, senza lasciarsi prendere troppo dall’irriverente confronto, come fu per la Ost Politik del cancelliere tedesco e social democratico Willy Brandt che non era davvero comunista, ma “aprì” ragionevolmente alla Germania dell’Est e meritò anni dopo di essere insignito di un Premio Nobel per la pace. Brandt proseguiva nella tradizione della “Real Politik” dell’altro cancelliere tedesco Otto von Bismark (1815-1898), che decise di privilegiare  la politica concreta fondata sugli interessi del Paese e sulla realtà (interna e internazionale) del momento e non sui sentimenti, le ideologie, i principi.

Insomma capisco oggi anche l’atteggiamento di Binaghi, così come non lo capii 15 anni fa.

L’ANTICA STORIA DI QUANDO IL SOTTOSCRITTO ERA LO…”ZIO” DI BINAGHI

Occorre fare un po’ di storia, anche personale, prima di arrivare al “caso” Sinner e a come viene affrontato oggi rispetto a come sarebbe stato una affrontato una volta.

Neppure chi legge Ubitennis da tempo e apprezza la nostra linea giornalistica sempre autonoma, orgogliosamente indipendente dai poteri forti ATP, WTA, ITF, 4 SLAM (più in Italia FITP) e quindi esposta a correre fastidiosi rischi e brutte conseguenze, probabilmente immagina e sa che fino al 2008, il presidente federale Angelo Binaghi in carica dal 2000 a oggi, considerava – incredibile dictu! – il sottoscritto persona cui affidarsi, cui poteva convenire chiedere consiglio in virtù della sua maggiore età, esperienza e conoscenza del tennis internazionale, anche per certi aspetti comunicazionali.

Esperienze e conoscenze maturate e coltivate 30 anni prima della sua prima elezione a presidente FIT. Quindi fin dall’inizio degli anni Settanta, quando ancora – sebbene modesto giocatore – riuscivo grazie ai miei risultati da doppista fra i seconda categoria a qualificarmi per affrontare i “prima” agli Assoluti Nazionali, a vincere con il C.T. Firenze uno scudetto tricolore a squadre di prima categoria, prima di “sopravvivere” per oltre  mezzo secolo fra i giornalisti, frequentando non solo i più grandi tennisti di 6 decadi, ma anche i più grandi dirigenti dei grandi tornei e delle federazioni (un nome per tutti Philippe Chatrier),  tanti manager del tennis mondiale (Mark McCormack, Donald Dell), non senza aver avuto anche qualche piccola esperienza come promoter di qualche weekend tennistico (come l’evento similDavis Italia-Stati Uniti grazie al quale misi di fronte Adriano Panatta e Paolo Bertolucci a due mostri sacri come Arthur Ashe e Vitas Gerulaitis in Toscana), come per più anni organizzatore/direttore del torneo ATP di Firenze, quando ancor giovanissimo ero diventato amministratore delegato di una agenzia di pubblicità, D&A, Design&Advertising.

Angelo Binaghi usava allora chiamarmi zio” e mi consultava con una certa frequenza su svariati argomenti. Conservo sul mio cellulare i suoi messaggi. Fui anche consulente FIT e KPMG per una ricerca affidata all’Istituto per il Credito Sportivo.

QUANDO CONSIGLIAI ALLA FIT DI PROCURARSI UNO SPAZIO TV PER IL TENNIS

Inciso inedito: fra i vari suggerimenti che potei dare allora – ricordo che accadde nel corso di un viaggio in treno con Binaghi da Firenze a Bologna – ci fu anche quello di studiare il modo di “conquistare” uno spazio televisivo per il tennis, comprando spazi settimanali in un qualche network privato economicamente “raggiungibile”. Parlammo allora di piccoli network nazionali.

I fatturati FIT di allora non permettevano voli pindarici di altro tipo. Con meno di 30 milioni di fatturato annuo non era come averne 180 e, almeno secondo me, la FIT doveva prima di ogni cosa sistemare il settore tecnico maschile e rivedere la sua politica nei confronti dei team privati, per diversi anni per nulla incentivati, quando non addirittura osteggiati. Perfino le mie modeste conoscenze in termini di costi tv mi permettevano di escludere che una TV federale potesse chiudere i conti col break-even in tre anni, come fu invece annunciato all’esordio di Supertennis. Chiudo l’inciso, sennò dimentico Sinner e la sua presunta innocenza…

QUANDO I RAPPORTI IDILLIACI CON IL PRESIDENTE FIT CROLLARONO

Tutti questi rapporti idilliaci con Angelo Binaghi durarono dunque soltanto per i suoi primi 8 anni di presidenza. Fino al 2008. Ma che cosa accadde nel 2008?

Accadde che, settembre 2008, l’Italia di Coppa Davis doveva giocare a Montecatini per la permanenza in serie B (nel gruppo EuroAfricano) contro la Lettonia di Gulbis e…nessun altro!  Beh sì, il n.2 lettone era tale Andis Juska, n.394 del mondo…e non valeva più del suo ranking. Non avrebbe vinto contro nessuno dei primi 20 tennisti italiani.

Difatti perse i suoi due singolari senza vincere un set con Seppi e Starace che non giocarono neppure particolarmente bene. Inevitabilmente trascinò alla sconfitta in doppio anche il talentuoso Gulbis che in singolare aveva dominato nettamente Fognini in prima giornata (7-6,6-1,6-1) e avrebbe poi rimontato Seppi al quinto in terza dopo aver perso i primi due set.

Era stato anche in virtù di questa scontata debolezza del team lettone, che Simone Bolelli – consigliato dal suo coach Claudio Pistolesi – aveva osato dir di no alla convocazione in Davis emessa dal capitano Corrado Barazzutti.

C’era stato un precedente. L’anno prima Filippo Volandri, quando l’ItalDavis doveva affrontare un’altra squadretta ancor più debole, il Lussemburgo, su un campo in cemento approntato ad Alghero, fu concesso a Filippo di disertare l’evento in terra sarda, visto che voleva prepararsi per un torneo sulla terra battuta (Stoccarda?).

Bolelli era allora n.36 ATP. L’obiettivo che lui e il suo coach volevano centrare nell’autunno di quel 2008, era riuscire a rientrare almeno fra i primi 32 in modo da assicurarsi un posto fra le teste di serie all’Australian Open. Una legittima valvola di sicurezza per evitare di affrontare i più forti nei primi 2 turni.

C’erano due tornei in Oriente, Bangkok e Tokyo a settembre dove Simone era convinto di poter fare bene e conquistare punti preziosi. Ma per lui le cose non andarono come per Volandri. Il “gran rifiuto” di Bolelli scatenò un putiferio.

Nicola Pietrangeli (che giocava la Coppa Davis quando quella era molto più importante degli Slam) arrivò a dire che Bolelli “aveva sputato sulla bandiera”, la FIT proclamò una squalifica di 4 anni (poi rientrata), Binaghi disse che Bolelli non avrebbe mai più giocato in Coppa Davis (“Finchè sarò io presidente”, ma anch’esso fu provvedimento rimangiato quando Bolelli abbandonò il suo coach Pistolesi). Per un certo periodo gli fu impedito di allenarsi nei circoli italiani affiliati alla FIT.

Io avvertii Binaghi – che avrebbe desiderato il mio sostegno in quella battaglia sbagliata – che non lo avrei sostenuto perché non ero per nulla d’accordo.

Cercai di fargli presente che Connors aveva giocato in oltre 20 anni in Davis soltanto nel ’75, nell’81 e nell’84 (con pessimi risultati…perché era un gran individualista e non un uomo squadra come il suo “nemico” McEnroe).

Gli ricordai che l’ATP era nata sulla protesta e il boicottaggio di Wimbledon 1973 da parte di un’ottantina di tennisti per il “caso” di Nikki Pilic che era stata squalificato dalla federazione jugoslava perché aveva scelto di giocare il “mondiale” di doppio a Montreal anziché la Coppa Davis.

Ricordai che non solo ai tennisti USA veniva chiesta all’inizio di ogni anno una disponibilità “contrattualizzata” a giocare la Davis.

Ricordai come l’Argentina non fu quasi mai in grado di schierare contemporaneamente le sue due star top-5, Vilas e Clerc perchè un anno non accettava di giocarla l’uno e un altro anno l’altro…e via dicendo….-e del resto ben più recentemente, nel 2014, Juan Martin del Potro scatenò una guerra contro la federazione argentina e il proprio capitano di Coppa Davis Martin Jaite dicendo che non avrebbe difeso i colori albiceleste “Ho deciso che non giocherò la Coppa Davis quest’anno

Fatto sta che Bolelli rimase talmente sconvolto da tutte le sanzioni e le polemiche che seguirono al suo presunto “oltraggio alla bandiera” che la sua tournee asiatica si risolse in un disastro. Perse al secondo turno a Bangkok e al primo (da Suzuki n.593 ATP) a Tokyo.

Ma la FIT proseguì sulla sua strada. Due anni dopo Andreas Seppi fu costretto a fare il giro del mondo per presentarsi a capo chino a Castellaneta Marina (non la località più semplice da raggiungere) alla vigilia di Italia-Bielorussia che schierava il solo (e già vecchio) Mirnyi. Un’inutile costrizione alle forche caudine. 

Lì i rapporti fra chi scrive e Binaghi si incrinarono pesantemente. Successivamente le mie forti critiche alle modifiche statutarie che lui apportò nell’autunno 2009 e che gli hanno astutamente consentito di non avere più candidature alternative alla sua presidenza FIT per quasi tutte le elezioni successive dal 2008 in poi, dettero il colpo di grazia ai nostri rapporti.

Per me Binaghi era il miglior dirigente possibile per quegli anni, e magari anche per quelli successivi, ma non trovavo giustificabile che un dirigente, per quanto bravo, potesse brevettare statutariamente un sistema per diventare “imperatore” a vita. E lo scrissi chiaramente inimicandomelo per sempre. (n.b. per sempre perchè quello è il suo carattere). Scrissi che aveva trovato modo di restare presidente fino al 2016. Mi ero sbagliato per difetto. Ciò detto, però, pur restando io critico su diverse metodologie comportamentali, non ho alcuna difficoltà a riconoscergli diversi meriti gestionali che in questa sede non è il caso di approfondire.

Riguardo alla Davis e alla Fed Cup, però ed infatti, l’atteggiamento federale è poi mutato nel tempo. E nella stessa direzione che avevo indicato.  Francesca Schiavone chiese di “saltare” una convocazione di FED CUP in cui avrebbe dovuto far da riserva alle più giovani Pennetta, Errani e Vinci. Le fu concesso “per meriti sportivi acquisiti”. Fabio Fognini giocò un torneo a Belgrado nella stessa settimana in cui disse di non sentirsi in grado di giocare la Davis (dopo una pesante sconfitta a Roma 2010, 6-0,6-3 con Seppi). Nove anni dopo Fognini non rimase in Australia per andare con il resto del team in India per la Davis 2019, ma – sconfitto per la sesta volta di fila dalla sua bestia nera Carreno Busta (6-2,6-4,2-6,6-2) – chiese e ottenne di poter tornare in Italia.

Capisco bene quindi che oggi Binaghi, e lo stesso Volandri, non si sentano di mettere in discussione le scelte professionali del nostro miglior giocatore, di colui che più di ogni altro potrebbe rappresentare il nostro tennis ai massimi livelli per i prossimi 10 anni.

Non mi sarei messo contro Volandri, Bolelli, Seppi, Fognini, Schiavone, professionisti liberi di fare le proprie scelte, anche perché sono loro stessi i soli a conoscere davvero le proprie situazioni fisiche e i propri calendari spesso collegati a tante variabili, superfici, continenti, classifiche, periodi stagionali….

Quindi trovo abbastanza normale che Binaghi abbia detto stavolta di “condividere” le scelte di Sinner e del suo team, “tenendo conto degli altri obiettivi di carriera di un tennista che è n.4 nella Race e che mira a vincere uno Slam”.

E Sinner conosce il suo corpo (ad oggi un corpo…non straordinario se paragonato a quello di un Djokovic, ma anche di un Alcaraz, di uno Tsitsipas i suoi primi e più forti rivali) meglio di chiunque altro.

Sinner ha spesso sofferto di problemi fisici, perfino nel suo ultimo match con Evans, ma anche di stress psicofisici, all’indomani di una sconfitta pesante o perfino di una vittoria importante.

Quando lo scorso anno in Davis a Bologna perse dallo svedese Mikael Ymer, n.98 del mondo scrissi in un mio editoriale.

“Confesso che sono rimasto un po’ disorientato per la sconfitta patita da Sinner con Mikael Ymer. E’ chiaro che Jannik non aveva recuperato appieno dal trauma della partita (persa nei quarti all’US Open 2022) con il matchpoint con Alcaraz (poi vittorioso nel suo primo Slam)”. Eppure era trascorsa una decina di giorni. Più o meno gli stessi giorni che sarebbero intercorsi fra la maratona di 4 ore e 40 persa quest’anno a New York con Zverev e l’incontro che avrebbe potuto giocare a Bologna contro il Canada.

Quella negativa esperienza “Ymer-after Alcaraz”  ha probabilmente portato consiglio al team Sinner.

Quando Jannik ha vinto il suo primo Masters 1000 quest’estate in Canada, poi ha giocato subito dopo Cincinnati e ha perso al suo primo ostacolo con Lajovic.

Simile storia era accaduta quando in Australia Jannik vinse un ATP 250 a Melbourne ma poi pochi giorni dopo perse al primo turno con Shapovalov all’Australian Open.

Insomma è legittimo, alla fine, che Jannik prenda le sue precauzioni. Anche se sembrano egoistiche, individualiste come lo sport che pratica da campione – un top 4 dell’anno lo è – poco simpatiche, apparentemente poco permeate di spirito di squadra.

Berrettini, infortunato, si è fatto vedere a bordocampo a Bologna, a sostenere la squadra. E tutti lo hanno apprezzato. Ma Matteo non doveva prepararsi per giocare i tornei cinesi che invece Jannik sta disputando.

Quindi chi ha sottolineato i diversi comportamenti di Jannik e Matteo avrebbe dovuto rendersi conto anche delle loro diverse situazioni. Che in buona parte sono state riprese e argomentate nei due articoli che sono usciti su Ubitennis, scritti da Michelangelo Sottili (“per me Sinner è colpevole”) e Federico Bertelli (“per me Sinner è innocente“), per fotografare la realtà, una situazione di un “caso” su cui sono “saltati sopra” Gazzetta dello Sport in primis, ma anche tanti campioni di altre epoche (Pietrangeli, Panatta), di altre Davis, di altri sport ben diversi da quello che è oggi il tennis professionistico.

Ecco perchè ho trovato pretestuose le pesanti critiche che sono state scagliate come frecce avvelenate sul corpo di Jannik Sinner, un patrimonio tennistico da proteggere. Ecco perchè non vedo perchè Volandri dovrebbe rinunciare tafazzianamente a convocare il nostro tennista più forte a Malaga quando avremmo le possibilità per rivincere finalmente quella Coppa Davis che ci è sempre sfuggita dal 1976 a oggi, anche se questa Coppa Davis non è davvero quella che era una volta. Ma tutto cambia e magari – spero -cambierà ancora. E se si dovesse vincere la Coppa Davis quest’anno, come io credo sia possibile, tutte le polemiche suscitate dalla Gazzetta e da altri verranno offuscate e dimenticate.

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Coppa Davis

Coppa Davis – La festa italiana è più gioiosa perché poteva essere un funerale. Ora non si esclude di poter vincere la Coppa Davis n.2

Il sorteggio delle finali martedì. A Malaga Italia fra le squadre più forti. Subito Olanda o Gran Bretagna.
Binaghi sogna una Davis con 4 singolaristi diversi, come aveva invocato Rino Tommasi. Meno male non siamo nella condizione della Svezia

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Italia – Coppa Davis 2023 (foto di Roberto dell'Olivo, Bologna 2023)
Italia – Coppa Davis 2023 (foto di Roberto dell'Olivo, Bologna 2023)

Dalle stalle alle stelle, dall’Inferno al Paradiso? Sembrano luoghi comuni, ma in 72 ore, quando sono state rovesciate in modo rocambolesco non una ma tre partite con il Cile, siamo passati da una quasi certa bruciante eliminazione ad una qualificazione per le finali a 8 nazioni di Malaga dove – assenti Spagna, Stati Uniti e Russia – potremmo teoricamente conquistare addirittura la seconda Coppa Davis della nostra storia.

Il sorteggio sarà fatto martedì. Al momento non sappiamo in quale metà del tabellone capiterà l’Italia, ma sappiamo che nei quarti ci può capitare l’Olanda di Griekspoor e Van de Zandschulp o la Gran Bretagna di Murray ed Evans.

Squadre battibilissime per raggiungere le semifinali se saremo in grado di schierare i nostri migliori tennisti, il “figliol prodigo” Sinner in primis, Berrettini in secundis. Poi, certo, ci sarebbe la Serbia di Novak Djokovic in semifinale.

 

Insomma, credo che a due mesi di distanza da Malaga, se la Davis la si giocasse oggi, credo che la Serbia sarebbe la favorita per via del “mostro” Djokovic e della “bestia nera” dei nostri Djere (senza dimenticare Lajovic che, anche lui ama darci dispiaceri quando può).

Ma… insomma, quando si ascoltano le telecronache tennistiche di questi tempi i vocaboli più abusati sono “incredibile” e “pazzesco”…(insieme all’espressione “spesso e volentieri” anche quando il volentieri non ha alcun senso, ma viene detto comunque), ma devo confessare che qui a Bologna l’uso anche da parte mia di quei vocaboli mi sembra abbastanza giustificato.

Il giorno più…banale è stato certamente l’ultimo, non quello dello 0-3 con il Canada, non quello del 3-0 con il Cile. La Svezia era davvero poca cosa. Perderci una, due, tre partite non era possibile neppure in questa settimana…incredibile e pazzesca!

Leo Borg non ha demeritato contro Arnaldi, ma alla fine ha perso così come aveva perso le altre partite. E’ migliore del suo ranking, 334, ma del padre ha solo il cognome e il passaporto. E Matteo Arnaldi non poteva bagnare meglio il suo esordio che vincendo i due singolari in cui è stato impegnato, rimontando Garin e tenendo a bada Borg junior pur subendo un break nel terzo gioco che tradiva la sua comprensibile tensione.

Noi italiani siamo passionali per antonomasia, così come gli scandinavi – sarà pure uno stereotipo – vengono definiti …freddi.

E allora io mi chiedo come avremmo reagito noi con la nostra passionalità se ci fosse capitato quel che è accaduto al tennis svedese negli ultimi 25 anni.

Prima del ‘98 ultima finale vinta e ultima giocata dagli svedesi, 25 anni fa, la Svezia aveva vinto 7 Coppe Davis (1975, 1984,1985,1987,1994,1997,1998), non una come noi!

E fra l’83 e l’89 aveva giocato sette finali consecutive, vincendone quattro.

La loro ultima Davis l’hanno vinta per l’appunto a Milano 1998 contro l’Italia di Gaudenzi (che si fece male, malissimo, contro Magnus Norman nel set decisivo).

Credo di averle viste tutte, diverse anche commentandole in tv seppur non quella del ’96 a Malmoe quando Stefan Edberg fece il canto del cigno, chiudendo sfortunatamente con un infortunio la sua ultima finale con la Francia. Doppia sfortuna perché quella volta la Svezia ebbe tre matchpoint nel singolare decisivo con la Francia sul 2-2, ma Niklas Kulti finì per perdere con Arnaud Boetsch.

Il contrasto fra i successi svedesi e quelli italiani è stridente.

 Non solo per 7 Coppe Davis a 1, ma per 25 Slam a 3Borg ne vinse 11 (e chissà quanti ne avrebbe vinti se a 26 anni non si fosse stufato dei dirigenti della federtennis internazionale che lo volevano obbligare a giocare troppi tornei quando lui, antesignano dei tempi moderni, avrebbe voluto fare Federer, Nadal e Djokovic e giocare solo i tornei cui teneva, i Majors, qualche Masters 1000…che non si chiamava così), Wilander 7, Edberg 6, Johannson 1. 25 titoli colti in tutti gli Slam, tutte le superfici.

E L’Italia invece solo due di Pietrangeli e uno di Panatta tutti al Roland Garros.

E vogliamo misurare i top-10 svedesi contro quelli italiani?

Beh, 13 svedesi contro 5 italiani nell’Era Open (Più Pietrangeli prima di quell’Era…che sennò si arrabbia! Ma meritava di starci).

E della qualità di quei top-ten vogliamo parlare?

L’Italia ha avuto Panatta, best ranking n.4, Berrettini e Sinner best ranking n.6, Barazzutti n.7, Fognini n.9), la Svezia tre n.1 (Borg, Wilander e Edberg), un n.2 (Norman), tre n.4 (Soderling, Bjorkman e Enqvist, che era qui a Bologna), un n.5 (Jarryd), due n.6 (Sundstrom e Carlsson), due n.7  (Johansson e Nystrom), quattro n.10 (Larsson, Gustafsson, Pernfors e Svensson).

Ma da più di un ventennio  (dal 2002 quando Thomas Johansson vinse l’Australian Open) gli svedesi non hanno praticamente più raccattato pallino.

Vi immaginate le polemiche che sarebbero sorte in Italia se fossimo stati vittime di tali continue debacle?

Se ci fossimo trovati a giocare in Davis con giocatori mezzo etiopi e mezzo italiani, così come i due Ymer sono mezzo etiopi e mezzo svedesi, salvo lanciare in squadra un…figlio di Panatta che fosse classificato n.334 del mondo.

Vabbè dai, allora non lamentiamoci. Stiamo molto meglio degli svedesi. Da un quarto di secolo, più o meno.

 Ho raccolto, e ne parleremo diffusamente, 37 minuti di conferenza stampa di Angelo Binaghi, che abbiamo registrato sia in video sia in audio, e ne faremo sintesi anche testuale dopo che ne ho accennato sommi capi anche nel video che avete sul sito e su You Tube.

Sono d’accordo con Binaghi– udite udite! – sul fatto che se la Davis deve essere assimilata a un campionato del mondo non si possono usare per essa gli stessi parametri di quanto Dwight Davis andò a far coniare la Coppa che ha preso il suo nome nella celebre gioielleria di Boston Shreve&Low&Crump, anno del Signore 1900.

Se la Davis dovrebbe esaltare la profondità del movimento non può farlo basandosi su uno o due giocatori che da soli possono vincerla. Nel ’75 Borg la vinse praticamente da solo, due singolari ogni volta e il doppio con il gigante Ove Bengtson che era appena n.100 del mondo in singolare (quando il 100 di allora giocava come il 250 di oggi).

Binaghi ha ricordato che Rino Tommasi, come al solito ante litteram, aveva suggerito che ogni duello avrebbe dovuto consistere in 4 singolari e un doppio, ma che quei 4 singolari avrebbero dovuto essere giocati da 4 giocatori diversi. In altre occasioni Rino si era spinto più in là: sei singolari e 3 doppi, impegnando quindi 6-7-8 tennisti diversi.

Però Luca Marianantoni ha trovato dove Rino parlò di come sarebbe dovuta cabiare la Coppa Davis. Non l’ha scritto su uno dei suoi libri, ma sul mio Blog Servizi Vincenti, il padre di Ubitennis!

http://www.blogquotidiani.net/tennis/index574f.html?p=2446

Io sono d’accordo in linea di principio…con Tommasi e Binaghi (mai avrei detto che ci saremmo trovati tutti e tre sulla stessa linea!).

Ma aggiungo che si sarebbe dovuto studiare un regolamento diverso soltanto da applicare per le nazioni facenti parte del World Group.

 Perché solo le prime 16 nazioni del mondo –e come abbiamo visto soltanto qui a Bologna con i casi del Canada, del Cile e della Svezia, e senza esaminare le squadre degli altri 3 gironi, purtroppo neppure tutte – possono avere 4 singolaristi “presentabili” televisivamente  per una “Davis-WorldCup” che per conquistare sponsor milionari deve poter garantire audience di primissimo livello.

Se si mostrassero partite tipo Galarneau-Ymer (che erano i n.2, non i n.4 delle loro squadre!), ma anche Garin-Borg…ve l’immaginate l’audience televisiva mondiale? Le guarderebbero a fatica anche in Canada, Svezia e Cile!

Le tv vogliono mostrare solo le star, i n.1. Faticano a mostrare i n.2 che giocano fra loro. Figurarsi i n.3 e i n.4 di squadre deboli. Ma anche di quelle forti se …non hanno nomi reboanti.

Però è vero che qualcosa vada fatto. Le federazioni più ricche – l’Italia è fra queste come quelle che sono proprietarie di Slam o Masters 1000 – possono investire per allargare sempre di più la base, ma la Davis la giocano 170 Paesi e 160 fanno fatica a tirar su un giocatore, due giocatori.

Allestire squadre da 6 o 7 tennisti di buon livello teleguardabile per la stragrande maggioranza dei Paesi è dura, durissima, impossibile.

Ma la stessa ATP dovrebbe avere tutto l’interesse – anziché combattere la Davis come hanno tentato di fare anni fa con la creazione del doppione ATP Cup – a creare più “posti di lavoro” e introiti per singolaristi e doppisti.

Avremo modo di riparlarne. Dal 24 al 26 ci sono le elezioni dell’ITF e vedremo se David Haggerty verrà rieletto o prevarrà l’opposizione filo…tedesca (per la quale è schierata l’Italia).

Nel secondo caso è più facile che qualche riforma passi. Anche se alla base ci vogliono, più che le federazioni, i soldi degli sponsor e delle tv.

Intanto rallegriamoci per lo scampato pericolo. E chissà che a Malaga (21-26 novembre), quando la Davis verrà messa in palio e l’Italia sarà fra le squadre favorite, non venga annunciata qualche grossa novità e qualche importante modifica.

La Davis ha bisogno di una nuova cera che le restituisca il prestigio che aveva. E che ha in buona parte purtroppo perso. Fra i giocatori che la disertano, fra i media, fra gli addetti ai lavori che non hanno a cuore la tradizione del nostro sport.

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Coppa Davis

Coppa Davis: se l’Italia conquista un solo punto con la Svezia, va a Malaga. Gli azzurri ringraziano la sportività del Canada. Si comincia con Arnaldi contro Borg? [VIDEO]

I canadesi, già qualificati, potevano permettersi il “biscotto”. Azzurri superfavoriti. Ymer non fa paura. Altri aneddoti bolognesi su Borg, Ashe, Franchitti, Rino Tommasi

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Canada – Coppa Davis 2023 (foto di Roberto dell'Olivo)

Coppa Davis 2023 – Group Stage
Gauppo A, Bologna

Canada b. Cile 2-1

 

A. Galarneau (CAN) b. A. Tabilo (CHI) 6-3 7-6(5)
N. Jarry (CHI) b. G. Diallo /CAN) 6-4 6-4
V. Pospisil / A. Galarneau (CAN) b. A. Tabilo / T. Barrios Vera (CHI) 6-3 7-6(7)

Ora tutto è nelle mani degli azzurri. Cui basta conquistare anche un solo punto contro la Svezia di Borghettino, alias Borg Junior e del fratello più debole degli Ymer, per staccare il biglietto per le finali di Malaga.

La vittoria del Canada sul Cile ci ha spianato la strada, perché con il Cile, nonostante la vittoria per 3-0 di venerdì, non eravamo messi bene nel conto dei set nel caso Canada, Cile e Italia avessero chiuso il girone con due vittorie per Paese.

Ok che la Coppa Davis regala spesso sorprese, ma questa davvero non sembra possibile: nella peggiore delle ipotesi gli azzurri possono perdere un match, addirittura due match, ma perderne tre sarebbe da fantascienza. Non succederà.

Non è mai facile fare il capitano di Coppa Davis. Perfino Nicolas Massu, cui tutti riconoscono grande personalità e capacità, ha probabilmente sbagliato a buttare nella mischia il doppista nato in Canada Alejandro Tabilo al posto di Cristian Garin.

Chissà, forse lo ha scelto proprio per via dei suoi natali canadesi e perché aveva giocato almeno tre volte (vincendo) con Galarneau anni addietro.

Fatto sta che Tabilo ha deluso, ha perso in due set (6-3,7-6) pur avendo avuto due setpoint per andare al terzo. E ora in Cile si chiedono perché abbia messo in campo il doppista mancino che insieme a Barrios Vera aveva finito di giocare e perdere il doppio contro Musetti e Sonego dopo la mezzanotte, quando Garin – seppur non entusiasmante ieri contro Arnaldi dopo un bel primo set – ha certo maggior esperienza e qualità.

Il Canada, già matematicamente qualificato ieri sera – come primo o come secondo – avrebbe potuto permettersi di fare il cosiddetto “biscotto” per favorire a Malaga la presenza cilena e togliere di torno in Spagna la più temibile Italia (con Berrettini e Sinner…), ma queste cose succedono più facilmente nel calcio che, fortunatamente, nel tennis.

Grazie Canada quindi. E ora Arnaldi batta Borg e si stacca il biglietto.

Leo Borg qui è piaciuto anche se ha perso 2 partite su 2 e a chi è n.334 ATP non si poteva chiedere anche che vincesse.  Anche se è il figlio di Borg. Che ora, sempre che giochi, batta il nostro …eroe dell’ultima ora, Matteo Arnaldi, mi sembra francamente super improbabile anche se giornalisticamente un exploit di “Borghettino” nella città in cui nel 1975 trionfò papà Borg –nel leggendario Palasport di piazza Azzarita, nel tempio del basket – beh sarebbe una storia non da poco. Lo dico non da anti-italiano – lo premetto eh, perché conosco i miei polli e i maligni imperversano sempre! –  ma da giornalista che ama le storie più belle, sorprendenti e imprevedibili.   

A Bologna si giocarono sette edizioni tra il 1971 e i 1981. La prima fu una bellissima finale tra Rod Laver e Arthur Ashe, ancorché vinta in 3 set dall’australiano bis-campione del Grande Slam (1962-1969), sebbene avesse quasi 33 anni. Arthur Ashe avrebbe vinto Wimbledon quattro anni dopo, nel ’75, primo “nero” a trionfare in Church Road.

Per darvi un’idea del livello di quel torneo…la finale del doppio fu vinta da Rosewall-Stolle contro McMillan-Maud. Quella finale che vinse Borg senior, nel ’75, fu ancora più bella e incerta di quella del ‘71: Bjorn la vinse 7-6,4-6,7-6 ancora ai danni di Arthur Ashe, mentre il doppio lo vinsero Panatta e Bertolucci su Ashe e Okker. Ricordo Arthur, che a Bologna aveva perso in finale anche il doppio del ’74 –lui e Roscoe Tanner da Borg  e Bengtson – dichiarare: “A Bologna mi trovo benissimo, si mangia ancor meglio, però di 4 finali fra singolare e doppio non ne ho vinta una!”.

Non ricordo invece se fu sempre a Bologna che Arthur disse a Rino Tommasi: “Se non ci fossi tu Rino, non saprei mai quante volte di fila ho perso da Rod Laver!”.

A Bologna nel ’71 in effetti Laver vinse l’11mo duello su 11! A fine carriera, ma Ashe approfittò dell’età più avanzata di Rocket Rod, il bilancio fu 20 a 3 per Laver.

Ancora non c’erano i computer né Internet e…mi viene in mente un altro aneddoto, quello di Rino che disse, e non so fino a che punto scherzando: “Prima dell’arrivo di Internet, Internet era Rino Tommasi!”.

Visto che sono in vena di ricordi, sapete da chi perse Bjorn Borg a Bologna nel 1974?

Da Vincenzo Franchitti-Vettesi. Il romano vinse 6-3,6-4. Se “googlate” trovate la foto storica dei due protagonisti, post match, su Facebook. E in quel Facebook viene ricordato anche che l’anno dopo Bjorn, che evidentemente non se l’era presa a male per quella inopinata sconfitta, decise di giocare il doppio proprio con Vincenzo.

 I due improvvisati compagni persero dai fortissimi sudafricani Hewitt e McMillan, una coppia che ha vinto Wimbledon due volte; una volta senza mai perdere il servizio e un’altra senza mai parlarsi perché avevano litigato, ma tuttavia convennero che non era il caso di separare una coppia vincente.

Spendo qui di seguito un ultimo aneddoto che forse potrei non avere più occasione di spendere (o ricordare).

Con Panatta, Bertolucci, Lombardi, Meneghini, Zardo, Avanzo, Franco Bartoni, Di Matteo, Matteoli, Binetti e Franchitti (più altri) ero stato convocato durante le vacanze di Natale da Mario Belardinelli al college della nazionale junior a Formia.

Belardinelli, che era nato proprio in questi giorni in cui si è rievocata la finale in Cile del 1976, era un padre burbero ed affettuoso con tutti, ma con lui non si doveva scherzare troppo in termini di disciplina.

Guai se Bertolucci, fisso a dieta, si permetteva di mangiare dolci nella pasticceria vicina – anche perché Panatta trovava subito modo di… denunciarlo al sor Mario – ma guai anche con chi di nascosto acquistava riviste osé.

Non porno, che a quei tempi non esistevano. Ebbene una sera Franchitti rientra nel college con un vistoso involucro nascosto sotto un maglione. Belardinelli lo scorge e gli dice: “Vincè, che hai lì sotto?Fammi un po’ vedè…”.

 Lui, arrossendo tira fuori una rivista, si chiamava “Bang!”, che mostra in copertina a tutta pagina una donna procace a seno nudo e prorompente. Il massimo permesso dalla censura italiana a quei tempi. Belardinelli esplode: “Tu domani vai a casa!”. Vincenzo reagisce nel modo più imprevedibile: “Sor Belardinelli, mi scusi ma io ho letto “Bang!” e credevo che fosse di cowboy!”.

Inutile dire che tutti scoppiamo a ridere fragorosamente e perfino il severo sor Mario non riesce a non ridere. Franchitti viene perdonato!

Ora ditemi come faccio a riprendere il filo della Coppa Davis…

Vabbè, ho scritto tutto ciò mentre i cileni – di cui da italiani non dovevamo augurarci la vittoria – avevano pareggiato con Jarry vittorioso su Diallo l’1-0 conquistato da Galarneau su Tabilo. E poi, perso il primo set del doppio giocato da Barrios Vera e Tabilo contro Galarneau-Pospisil, nel secondo i cileni avevano conquistato 3 setpoint di fila sul 5-4 e servizio Pospisil. Vanificati anch’essi, proprio come i quattro matchpoint di Jarry con Sonego. Per il Cile qui a Bologna è stato davvero il festival delle occasioni perdute. Hanno avuto quei 4 matchpoint, più 3 setpoint nel doppio e 2 setpoint Tabilo nel secondo set. Nove opportunità che stanno facendo piangere alcuni aficionados cileni.  Cui si aggiungono situazioni di punteggio che Massu non smette di enumerare, il vantaggio di un set di Garin su Arnaldi, i 4 matchpoint naturalmente e il centimetro di riga su cui ha servito Sonego per annullare tre dei quattro Matchpoint, il 6-3,3-1 del doppio contro l’Italia.
Mentre gli azzurri potrebbero già festeggiare…ma è meglio che non lo facciano. Vincano prima quel fatidico punto che ancora a loro manca. Forza Matteo, pensaci tu. Senza farci soffrire con un altro match di qualche Lorenzo.

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