Quando Boris Becker puntò tutto sul rosso di Montecarlo

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Quando Boris Becker puntò tutto sul rosso di Montecarlo

Breve storia di una partita memorabile e di un tennista inquieto

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Thomas Muster e Boris Becker - Montecarlo 1995
 

Manca una settimana all’inizio dell’edizione 2019 del torneo di Montecarlo; venerdì alle 18:30 verrà sorteggiato il tabellone, domenica si comincerà a giocare. Ci avviciniamo al primo grande torneo della stagione sul rosso ripercorrendo alcune delle sue storie più belle. Questa risale a 24 anni fa, quando un tedesco andò all in sulla terra del Principato

Il casinò di Montecarlo nel pomeriggio del 30 aprile 1995 era sicuramente aperto, malgrado fosse domenica. Rispetto all’ordinario era soltanto un po’ più vuoto del solito, tra chi smaltiva il pasto, chi rispettava la siesta domenicale, chi guardava la finale del torneo di tennis tra Boris Becker e Thomas Muster. Un tedesco ed un austriaco: comune la lingua, comuni le origini. Al netto dell’Anschluss, estrazioni del tutto simili. Eppure nulla di più diverso poteva fronteggiarsi in quegli anni su di un rettangolo di terra battuta.

Boris Becker era quel giorno, ed è ancora, il più giovane tennista ad avere mai conquistato Wimbledon. Forse grazie al precoce successo sui campi, al tedesco di Leimen era rimasto il tempo per esprimersi a sufficienza anche al di fuori di essi. Personaggio da rotocalchi, incapace di trattenere il proprio “io” all’interno di un mondo tedesco e sportivo inevitabilmente convenzionale. Tennista capace di vivere autentiche faide con taluni avversari. Fidanzato, in una Germania che non si immaginava multirazziale, con una donna di colore e per questo sotto il mirino dei gruppi di estrema destra, che vedevano nella sua biondezza quasi albina una mancata rinascita ariana.

La traccia di quel carattere inquieto, sarebbe apparsa infinite volte in campo e qualche volta in più nella sua vita privata. Barbara gli avrebbe dato due figli, un altro sarebbe arrivato da un nuovo matrimonio con Lilly. Un altro ‘Beckerino’ nacque durante il matrimonio con Barbara, ma dal ventre di un’altra donna. Avrebbe sfidato Kasparov agli scacchi, giocato a poker da professionista, commentato per la televisione. E sperperato una fortuna economica. La storia della sua miseria avrebbe raccontato gli anni della sua maturità. Con successo gli sarebbe riuscito soltanto di stare al fianco di Novak Djokovic. Per poco tempo però: com’è nel carattere di alcuni, si sta seduti sempre su di una sedia rovente.

Insieme alla complessità della sua vita fuori del campo, la terra battuta esaltava la complessità del tennis del tedesco. La sua mole, over size in quegli anni, non digeriva le corse laterali. La sua potenza nel servizio mal sopportava il freno della superficie. La sua volée, così perfetta sui prati, consentiva quasi sempre all’avversario un’ultima parola. Viceversa, Thomas Muster. Uno che di precoce aveva avuto una gamba spezzettata da un ubriaco in un incidente stradale. Uno che sembrava fare fatica anche al momento del sorteggio. Uno che di facile non faceva nulla.

Si era arrampicato alla finale dopo lo strazio del giorno precedente con Andrea Gaudenzi. Contro l’italiano Muster parve boccheggiare, svenire, collassare, mentre Gaudenzi frustrato ed incredulo per le infinite resurrezioni del suo avversario gli cedeva la partita. L’austriaco fu persino ricoverato in ospedale. Si parlò malevolmente di doping dopo quella partita, dimenticando che Gaudenzi e Muster si allenavano insieme. Ne riparlò Becker all’indomani della finale, beccandosi una reprimenda dall’ATP. Si pensava che il relitto visto di sabato contro Gaudenzi, non sarebbe stato neanche in grado di scendere in campo l’indomani. Che per Becker sarebbe stata una passeggiata di salute e che dopo tanti vani tentativi, il ‘pindarico acrobata del net’ (copyright di Gianni Clerici), avrebbe finalmente stretto tra le mani sporche di mattone un trofeo da vincitore.

Con un avversario parcheggiato in ospedale, è certo che Boris Becker avesse avuto il tempo di ripensare alle due finali già giocate sul centrale del Montecarlo Country Club. Contro Alberto Mancini nel 1989, aveva giocato alla Becker: attaccando ma con giudizio, ed aveva perso. Contro Bruguera nel 1991, aveva giocato alla Bruguera: restando molto indietro, palleggiando ed adattandosi al fondo paludoso, ed aveva perso. Per questo contro Muster, ospedale o no, scelse di indossare un abito diverso. Certo, Boris sapeva che il suo avversario aveva passato la sera precedente con la flebo in vena. Per questo non lo si poteva privare di un cauto ottimismo.

Ma la tattica è tattica, e Boris Becker scelse quella di non dare tregua al suo avversario. Chissà se fu il suo coach dell’epoca Nick Bollettieri ad avergli suggerito che Muster non aveva mai battuto, neppure su terra, Stefan Edberg: uno simile a Becker, ma a differenza del tedesco fisiologicamente incapace di restare dietro a palleggiare. Per questo Becker si trasformò per un pomeriggio nell’arcirivale svedese. Lui, attaccante già di suo, divenne parossistico nell’abbreviare gli scambi e nel cercare la rete. Giocò aprendosi il campo anche con la seconda di servizio, attaccando ogni palla su cui giungeva con accettabile equilibrio, togliendo il tempo ai passanti di Muster, impattando col rovescio piatto la rotazione mancina del servizio avversario. Funzionò, oh se funzionò. E non smise mai di funzionare perché strappare i primi due set al Muster della primavera del 1995, all’austriaco senza remore e sentimenti che di lì a poco avrebbe dominato Parigi, non significa soltanto che stesse funzionando, ma che effettivamente funzionò.

Thomas Muster con il trofeo del Roland Garros 1995

Boris fu, passato, picchiato nei lacci, scavalcato infinite volte, ma non demorse in nessuno dei lunghi minuti spesi su quel centrale, né mutò un istante l’espressione del viso. Non lanciò un urlo, non si distrasse dall’obiettivo. Il punteggio, nel crescere, gli dava ragione mentre il sogno coltivato al mattino, di vedere Muster nuovamente con la flebo al braccio, d’improvviso non serviva più. Fu un “o la va o la spacca” perpetuo, una serie di “all in” pokeristici, di raddoppi al tavolo di blackjack, di chiamate di banco dello chemin de fer. Il Casinò di Montecarlo era più vuoto del solito non solo per la controra domenicale, ma soprattutto perché il suo miglior giocatore era temporaneamente impegnato al tavolo del tennis contro Thomas Muster.

Due set in cascina, si diceva. Ripreso fiato durante il terzo set, facile preda di Muster, nel quarto Becker tornò arrembante sino a procurarsi due palle break sul 5-5 nel quarto. Muster le cancellò, come ne aveva già cancellate una dozzina prima di allora. Un’altra palla break ed un tentativo (lungo) di approccio a rete sulla prima di servizio avversaria. Sotto le folte sopracciglia bionde, mentre i passanti dell’avversario gli sfilavano accanto, Becker, l’orgoglioso Becker, continuava a non mutare espressione. Da bravo giocatore d’azzardo. I nervi tesi ma avvolti nel piano di gioco.

E poi fu tie break, qualcosa che già di suo suona come una lotteria, in cui puntare tutto dopo esserti fatto cambiare i soldi in fiches. Una roulette di sette numeri sulla quale, dopo due ore e mezza di sole, di terra battuta e di Thomas Muster, devi per forza giocarti ogni cosa. Il copione non mutò. Becker non arretrò dinanzi ai colpi di sbarramento di Muster e continuò ad affacciarsi alla rete, alla fine ed alla anelata stretta di mano del Principe Alberto. Granitici nella loro personalità, i due non cambiarono atteggiamento in nessuna delle due ore e mezza sino a quel punto disputate. Lungo strade parallele, dimostrarono la loro perseveranza, prussiana ed asburgica, il tratto comune che inizialmente non pareva possibile trovare in due uomini e tennisti così diversi tra loro.

Becker andò avanti, fedele al piano. Questo lo aveva condotto sino al 4-4 del tie break, quando Muster, incredibilmente, mise un secondo servizio in rete. Il volto di Becker restò immobile, quello di Muster stanco e sbuffante come dopo il primo 15. Pur di avere qualche emozione da inquadrare, la regia pescò tra le fioriere il volto, le mani, i sobbalzi di Barbara Feltus. E quando tanti anni dopo tutto sarebbe mancato a Boris Becker, il cauto dolore sul volto della bellissima Barbara ci svela quale delle cose perdute sia stata la più preziosa.

Sul 5-4 Becker seguì la seconda a rete e chiuse alla seconda volée. Due match point, al 6-4 nel tie break. Forse non il 6-4 al tie break più famoso della storia del tennis, ma poco ci manca. Alle 17.38 del pomeriggio, Boris Becker serve una prima centrale da destra, a 196 km/h e ben indirizzata verso la “T”, che però termina profonda. Qui, la regia del torneo non giocò d’azzardo. Ebbe paura di perdersi anche per un solo istante il punto dell’incontro. Conscia dello spirito da attaccante di Boris, non rischiò il cambio di inquadratura e restò con la ripresa larga dal fondo del campo, Becker in lontananza, Muster di spalle. Alla chiamata dell’”out”, Becker si ricollocò subito dietro la linea, senza esitare, e ricominciò il classico dondolìo che precedeva la sua storica battuta. Il primo piano che ci aveva mostrato per quattro set il medesimo, immutabile volto dei contendenti, stavolta non ci fu donato.

Resterà dunque un mistero l’espressione che assunse il volto di Boris Becker mentre decideva di fare qualcosa che in quell’incontro giocato alla garibaldina, ancora non aveva fatto: giocare una folle seconda di servizio ancora centrale, ancora a tutta, 190 kilometri all’ora di insanità, 190 kilometri all’ora volti a cancellare in un sol botto la tensione di quelle ore. Non sapremo mai se per un istante, mentre Boris decideva di muovere tutte le sue fiches sul rosso, un tic si fosse impossessato del suo occhio o della sua bocca. Se ci fosse stato un dondolìo stoppato, un qualsiasi movimento sincopato, un impulso elettrico, effetto collaterale di un pensiero appena sbocciato. Quel primo piano che manca dalle riprese televisive, non ci spiegherà mai se la scelta di Boris Becker facesse ancora una volta parte della strategia, se ne fosse un’eccentrica divagazione o ne rappresentasse il gran finale.

In quel colpo insensato e violento, il vaso delle emozioni Beckeriane si era infranto. L’odio verso il rivale indistruttibile, il sospetto che egli fosse aduso al doping, l’essere ingabbiato nel miglior piano tattico della sua carriera, avevano compresso troppo l’uomo a sua volta già compresso nel tennista. Sarebbe bastato un altro punto giocato fingendo di essere altro ed invece l’intimo inquieto di Boris emerse in un gesto di fuga dal mondo. Quell’uomo che giovanissimo aveva pensato al suicidio dalla finestra di un grattacielo di Amburgo, perché non in grado di reggere psicologicamente alle proprie vittorie, dovette per un istante scappare dall’incontro perfetto che aveva sino ad allora giocato. Doppio fallo di mezzo metro.

Thomas Muster annullò sul suo servizio il secondo match point e sul 6-pari, giocò poi il punto dell’incontro trovando un passante in piroetta. Perso il quarto set, Becker uscì dal campo per un bisogno fisiologico. Rientrò per onore di firma. L’agonia restante fu breve. Muster non si mosse di un millimetro. Becker cercò di scappare via. Ancora una volta, come pochi minuti prima con la seconda di servizio più famosa del tennis moderno, cercò di far finire tutto nel modo più rapido che conoscesse.

La premiazione. A sinistra il vincitore, a destra lo sconfitto

In conferenza stampa, tornato ad essere pienamente Becker, definì la vittoria di Muster un miracolo aggiungendo di non credere ai miracoli. Ne venne fuori un putiferio. La sua accusa mobilitò l’ATP, Muster ne chiese la squalifica, Boris ritrattò la sua frase con tale riluttanza da riuscire a fare passare il concetto due volte. In pratica servì una seconda efficace come la prima. Il sogno di puntare tutto sul rosso svanì là. Boris Becker, oggi che è in bancarotta e si rivende i trofei, non ne ha da piazzare nemmeno uno da vincitore che sia stato conquistato sulla terra battuta.

Prima di ritirarsi avrebbe fatto in tempo a perdere un’altra finale contro Corretja a Gstaad, per chiudere i conti a sei finali perse sul rosso in una carriera da 49 trofei. Tre finali a Montecarlo contro tre grandi terraioli dell’epoca, giustamente premiate l’anno scorso con l’introduzione nella Hall of Fame monegasca. Di quella seconda palla scagliata ad occhi chiusi non si è ancora ufficialmente pentito, o almeno non si rinvengono dichiarazioni in tal senso. Forse ha ritrattato le accuse verso Muster, ma non ha ritrattato la palla più folle di quella partita. Non c’è ragione di pentirsi, non c’è ragione di mostrarsi deboli e nostalgici. Come il giocatore che ha perso tutto, rifarebbe daccapo ogni cosa. Perché la caduta verso il fondo è anch’essa una forma di volo.

Potesse rigiocare oggi il match point, appare molto probabile che tirerebbe ancora prima e seconda. Da bravo giocatore di poker, attento ai numeri, non può che coltivare l’idea per cui due battute a tutta nel 1995, e due battute a tutta oggi, ebbene, una su quattro debba per forza entrare in campo. Quattro possibilità disperse negli anni, insieme a mille altre svanite in una vita inquieta. Molte chances in più di quante ve ne siano puntando tutto sul rosso.

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