L'ottavo trionfo di Djokovic all'Australian Open (Scanagatta, Crivelli, Semeraro, Piccardi, Clerici)

Rassegna stampa

L’ottavo trionfo di Djokovic all’Australian Open (Scanagatta, Crivelli, Semeraro, Piccardi, Clerici)

La rassegna stampa di lunedì 3 febbraio 2020

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Djokovic è leggenda, trionfo da n. 1 (Ubaldo Scanagatta, Nazione-Carlino-Giorno Sport)

Novak Djokovic, un vero fenomeno. Non era mai riuscito a rimontare un handicap di due set a uno in una finale di Slam, ma ora il tennista di Belgrado, 32 anni, ha superato anche questa esperienza e ha conquistato, insieme allo Slam n.17 (due meno di Nadal, tre meno di Federer) anche il trono del tennis sul quale fino a ieri era seduto Nadal. Ancora una volta ha trionfato in Australia, come 12 anni fa per la prima, quando nessuno avrebbe mai immaginato che quel ragazzino serbo di 20 anni e 8 mesi vittorioso sul francese Tsonga, avrebbe vinto questo Slam Down Under altre sette volte: 2008, 11-13,15-16,19. Non sono ancora i 12 Roland Garros di Rafa Nadal, ma sono 8 come gli Wimbledon di Roger Federer. Questi tre formidabili campioni si sono aggiudicati tutti gli ultimi 13 Slam, 5 Djokovic, 5 Nadal, 3 Federer dal gennaio 2017. Lo svizzero Stan Wawrinka è stato l’ultimo “intruso” quando vinse l’US Open 2016 battendo Djokovic. Insomma, Next-Gen o no, per tutti gli altri tennisti del globo restano solo briciole.

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Dominic Thiem, che era stato in campo 4h e 10 per eliminare il n.1 del mondo Rafa Nadal e poi altre 3h e 42 m per sconfiggere Sasha Zverev, ha lottato altre 4 ore con Djokovic (fanno 12), ha dato tutto quel che poteva dare attaccando da fondocampo come un forsennato, vincendo gran parte degli scambi più prolungati, fino all’inizio del quarto set. Ma alla fine era comprensibilmente esausto. Aveva anche avuto un giorno di riposo in meno. Lì, sull’1.1, ha avuto la chance per strappare la battuta a un Djokovic che era apparso a corto di energie nel terzo set, al punto da chiedere due volte l’intervento del medico.

(…) Certo Nole non ha solo un fisico straordinario. Vero che sembra fatto di gomma, recupera palle impossibili facendo delle spaccate sul cemento che manderebbero all’ospedale tanti altri professionisti della racchetta, ma ha una forza mentale assolutamente unica. “Da dove mi viene? Sono cresciuto in Serbia, in mezzo alle guerra negli anni ’90. Tempi duri, il Paese in embargo, dovevamo fare la corsa per il pane, il latte, l’acqua, cose basiche della vita. Sono cose che ti rendono più forte, più affamati in qualunque cosa scegli di fare. lo sono venuto fuori letteralmente dal niente, in quelle circostanze difficili, e con me la mia famiglia, la mia gente. Penso da dove provengo e ciò mi ispira, mi motiva, mi spinge più forte. Questa è probabilmente una delle ragioni che mi aiuta a trovare una marcia in più per rimontare e vincere, a tirar fuori quella forza mentale necessaria a superare certe sfide…».

L’amico Vajda e Ivanisevic. Coppia d’assi per la rinascita (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Alla fine, torni sempre dove sei stato bene. Perciò, sotterrato nel morale e nella fiducia dall’incredibile sconfitta contro Cecchinato al Roland Garros, l’ultimo scempio di una fase della carriera simile a un drammatico viale del tramonto, nel giugno del 2018 Novak Djokovic bussa di nuovo alla porta di Marian Vajda, che non è soltanto il coach che lo ha plasmato fin da ragazzino portandolo in cima al mondo, ma anche l’amico e consigliere più fidato. Uno di famiglia, insomma. Così, dopo un periodo piuttosto «creativo» alla ricerca di se stesso passando da improbabili guru tennistici (Pepe Ymaz) e coach senza esperienza (Agassi e poi Stepanek), Nole torna a casa, affidandosi al conforto delle certezze consolidate.

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L’alchimia sembra non essersi mai interrotta e a Wimbledon, appena un mese dopo la morte tecnica di Parigi, Djokovic si ritrova, tornando a vincere uno Slam dopo due anni: «Il successo in semifinale contro Nadal — ricorderà Vajda — ha segnato la svolta». Ma siccome il Djoker nel 2010 si ribellò al do- minio che pareva inavvicinabile di Rafa e di Federer attraverso l’applicazione feroce e lo studio maniacale dei dettagli, da un Wimbledon all’altro ha pensato di rafforzare il team chiamando al suo fianco, dallo scorso luglio, Goran Ivanisevic. Non senza polemiche, perché in Serbia non tutti potevano sopportare che un croato sedesse all’angolo di un loro eroe. E invece il triangolo funziona alla grande, come si è visto ai Championships e ieri a Melbourne (…)

Divisione dei poteri Su quello che può scaturire dal binomio, Goran ha le idee chiare

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Dunque, c’è senza dubbio la mano di Ivanisevic nella perentorietà con cui il Djoker ha scelto il serve and volley in alcuni dei momenti più caldi della finale contro Thiem e in generale nelle ritrovate certezze alla battuta. Quel che conta è il feeling perfetto che si è creato nel trio, tanto che la divisione dei poteri tecnici è stata decisa già a dicembre, come ha rivelato proprio il coach croato: «Novak vuole avere un solo allenatore con sé, quindi io e Marian abbiamo concordato che lui lo avrebbe seguito agli Australian Open e al Roland Garros mentre io a Wimbledon e agli Us Open, anche se a Melbourne mi avete visto comunque presente perché mi diverte partecipare al torneo delle vecchie glorie.

(…) » Ciò che continua a stupire Ivanisevic, è l’attitudine del fresco allievo: «Nole è un perfezionista, vuole sempre migliorarsi e chiede consigli. Ha iniziato il 2020 molto motivato, perché aveva perso il numero uno e avete visto come ha reagito. Più le aspettative sono alte, più il suo rendimento sale». Si chiama regola del fuoriclasse.

Diabolico Djoker. Thiem rimandato (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Il dito punta in alto, a indicare un pensiero per Kobe Bryant, l’amico scomparso, il consigliere eccellente die gli spiegava come risalire dagli scantinati della delusione quando gli Slam sembravano un sogno lontano. Ma anche a segnare che in cima, al numero 1 del mondo, adesso, c’è di nuovo lui. Novak Djokovic , il “Re d’Australia” come lo chiama Dominic Thiem, che proprio contro lo sfidante austriaco si è presa l’ottava finale sul Centrale di Melbourne Park

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Stavolta è stata durissima. Quattro ore e 3 minuti di lotta totale contro i top spin palestrati di Thiem, che dopo aver perso il primo set lo ha messo sotto, di brutto, nel secondo e nel terzo. E nel quarto ha avuto una palla break per chiudere i conti, con la partita e con il passato, e diventare il 150° vincitore di Slam. Novak però l’ha salvata con un serve e volley che nel 2008, al tempo del suo primo successo australiano, probabilmente non avrebbe neanche immaginato.

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Poi è rinato, come sanno fare i grandi, e nel quinto si è seduto sulla sponda del fiume, aspettando che Thiem si soffocasse con la tensione, gli errori, la fretta di chiudere. Con la paura di non essere ancora all’altezza. Quando l’ultimo diritto dell’austriaco è finito largo qualcuno lo ha fischiato – come capita spesso al fuoriclasse che non riesce a farai amare – ma il centrale degli Australian Open è casa sua, e Melbourne è piena di serbi che lo hanno incoraggiato, applaudito, osannato.

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Oggi, come quando ha iniziato a colpire palline da ragazzino, nel mezzo della Guerra dei Balcani. «Io vengo letteralmente dal niente», ha detto. «Da condizioni di vita molto difficili per la mia famiglia, per tutto il mio popolo. Durante la guerra dovevamo fare la fila per tutto, per il pane, l’acqua, il latte. Sono cose che ti rendono più forte, affamato di successo qualsiasi cosa decidi di fare». Vuole diventare il più grande: se non per la maggioranza del popolo del tennis, che stravede per l’eleganza Federer e lo considera un usurpatore, almeno per le statistiche.

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Gli inseguitori restano lontanissimi. Thiem è alla sua terza finale persa dopo le ultime due a Parigi contro Rafa, qui ha giocato un torneo fenomenale, come Medvedev a New York, ma come il russo non è riuscito a muovere l’ultimo passo.

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Djokovic non abdica. La rivoluzione Thiem può attendere (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

La rivoluzione si è fermata a un set dalla ghigliottina, troppo lontano dalla meta quando in campo, sul veloce di Melbourne, c’è un satanasso di nome Novak Djokovic. Due sono le missioni impossibili nel tennis: battere Nadal al Roland Garros e il Djoker all’Australian Open benché il sovversivo con le meches e un’idea meravigliosa in testa, Dominik Thiem, manufatto di metallo temprato uscito 26 anni fa dalle acciaierie austriache, dalla sua avesse solidi argomenti: quattro successi in dieci confronti diretti con il serbo, l’ultimo alle Atp Finals, quando sembrava che la nouvelle vague (Tsitsipas, nello specifico) avesse preso il sopravvento per restare. Invece no.

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Non è servito livellare il match (4-6, 6-4) infilandosi nelle crepe di un avversario innervosito dal warning dell’arbitro per aver perso tempo e nemmeno prendere un vantaggio di due set a uno (6-2 nel terzo) approfittando del calo energetico di Duracell (…).

Assistito dal fisioterapista due volte, reidratato e sfamato ai cambi di campo, Djokovic è uscito dall’inferno con la resilienza che gli è propria incurante delle fiamme, ritrovando nel quarto (6-3) il peso specifico e la profondità dei colpi e nel quinto (6-4) la caparbia brillantezza — nel tennis, nel corpo e nell’anima —con cui si è agganciato al treno degli Immortali per non scenderne più. Minacciandoli, a questo punto, di un sorpasso a destra e senza freccia. Forte dell’ottavo titolo dell’Australian Open, del numero uno del ranking riguadagnato e del 17esimo Major della carriera, respinto il tentativo di golpe con l’ennesima restaurazione (l’ultimo successo alieno risale al 2016: lo svizzero sbagliato, Stan Wawrinka, all’Open Usa), Djokovic a 32 anni guarda al futuro con ottimismo

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Giocherà e viaggerà meno, passerà più tempo di qualità con i figli, preparerà Parigi a Montecarlo con la meticolosità di cui solo lui è capace, costruirà sulla conquista del Roland Garros (sarebbe «solo» la seconda volta) un’ipotesi di Grande Slam (quello vero: quello spurio l’ha già centrato)

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Dodici anni fa, il Djoker vinceva proprio a Melbourne il primo Slam. Vestiva un marchio tedesco, era celibe, né papà né miliardario. E ancora lì, sul pezzo, dopo una vita a rincorrere. E non ha esaurito il fiato nei polmoni.

Djokovic olte i limiti risorge dalla polvere e ritorna n. 1 (Gianni Clerici, La Repubblica)

Avevo scritto l’altro giorno che Nole Djokovic avrebbe vinto perché aveva a favore troppi precedenti, sette titoli già vinti sul Centrale di Melbourne, e molta più esperienza dello sfidante austriaco, Dominic Thiem. Nonostante le due finali perdute al Roland Garros contro Rafa Nadal, Thiem era più o meno un esordiente, non abituato a quei livelli. Uno arrivato al match senza essere davvero favorito. Con l’abitudine di anticipare il nome del vincitore ho già raccolto una collezione di sbagli e un qualche risultato positivo a sorpresa. Mentre pensavo a come si sarebbe svolta la partita ho ricevuto una telefonata. Era un professore dello Iulm milanese che insegna il tennis, oltre a svolgere la sua professione. Abbiamo iniziato a parlare della finale, e il Professore mi ha subito trovato in difficoltà sulle statistiche, come mi ha causato un deficit di memoria, prima al liceo, poi all’università.

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Quando mi sono addormentato, un sogno della partita mi è sfilato davanti, e i miei pronostici dell’altro giorno sono stati contraddetti dalle immagini: Thiem ha iniziato a grandi colpi dl diritto come uno che impugni un ombrello aperto. Ma dovevo accertarmi della realtà, sul granuloso fondo australiano che toglie il pelo alle palle e ne alza la parabola. Accertarmi che l’arbitro francese, Dumusois, punisse due volte Djokovic per il troppo tempo che impiegava a far rimbalzare la palla preparandosi al servizio

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La vicenda stava però mutando. Djokovic, che aveva avuto momenti di fatica nel terzo, ritrovava d’un tratto la propria abituale regolarità nel quarto e conduceva, riuscendo a limitare i dirittacci dell’austriaco. Per contro, ritornava esemplare nel suo rovescio bimane, e ne falliva ormai solo se in allungo nell’angolo sinistro. Era sufficiente per prendersi l’ottavo titolo australiano (6-4, 4-6, 2-6, 6-3, 6-4) e tornare numero uno del mondo, a spese di Rafa Nadal

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