Wimbledon viaggia verso la resa (Semeraro). I duelli di John McEnroe con Borg e con il mondo (Azzolini)

Rassegna stampa

Wimbledon viaggia verso la resa (Semeraro). I duelli di John McEnroe con Borg e con il mondo (Azzolini)

La rassegna stampa di domenica 29 marzo 2020

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Wimbledon viaggia verso la resa (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

La prossima settimana, molto probabilmente, Wimbledon deciderà di annullare i suoi Championships. Una scelta dolorosa, visto che dal 1877 in avanti il Torneo si è fermato solo in occasione delle due Guerre Mondiali. L’11 ottobre 1940 una squadriglia di bombardieri tedeschi sganciò anche cinque bombe sull’impianto, sfondando il tetto. Nessuno immaginava che il prossimo pericolo sarebbe stata una bomba batteriologica. Una riunione di emergenza del Committee più famoso del mondo è stata annunciata qualche giorno fa, le alternative alla cancellazione scarseggiano. A rischio, dopo la stagione sulla terra, in realtà è tutta quella sull’erba, con l’aggravante che mentre il rosso può sperare di recuperare in autunno (il Roland Garros ha già deciso di partire il 20 settembre), il verde ha una finestra molto stretta. «Al momento – hanno spiegato dall’All England Club – in base ai consigli che ci vengono dalle autorità sanitarie, la finestra molto limitata in cui potremmo organizzare The Championship a causa della natura della superficie suggerisce che un rinvio non sarebbe privo di difficoltà». Tradotto dal “wimbledonese”, una dichiarazione di resa quasi certa. «Non so di quanto potrebbero rinviarlo – ha spiegato Andy Murray, che quest’anno sognava di dare un addio in grande stile sul Centre Court – Ci sono le esigenze di altri tornei da considerare e molte altre cose, come le ore di luce disponibili, che calano ogni giorno». […]

I duelli di John McEnroe con Borg e con il mondo (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Comprava Picasso e Renoir. Aveva solo ventun anni. E non era ancora John McEnroe. Entità suprema, già allora, negli anni Ottanta. Ed erano solo gli inizi. Una divinità magrolina e in costante trambusto con se stessa, ma con pretese artistiche rivolte a tutto il mondo. E investimenti mirati. Pierre-Auguste Renoir era il preferito. Soldi spesi bene, i primi vinti agli Us Open. E una visione dell’arte che coincideva con la sua. Applicabile al tennis. L’obiettivo tennistico di John era raffigurare qualcosa d’indescrivibile. Un’esperienza tennistica non ripetibile. Chiusa dentro di lui ed estinta con il suo ritiro. Molti anni dopo, nel 1992. Sempre che non fosse spuntato, da qualche parte, un suo uguale. Ma non è mai successo. […] «Oggi non si lascia niente al caso, tutto è computerizzato, studiato, dall’allenamento tecnico a quello fisico, dall’alimentazione agli schemi, alla programmazione dei punti e del rendimento», ebbe a dire anni dopo. «Ma non c’è più fantasia, non c’è personalità. E il tennis ne soffre. Anche quando arrivai io sembrava che tutti avessero il collo della camicia inamidato. Reagii tirando fuori la mia personalità. Chissà se fra un po’ arriverà qualcun altro, magari con idee diverse, ma in grado di fare altrettanto». Un campione senza eredi. Tanto più che qualcuno è arrivato, alla fine, a riempire il nostro sport della personalità che serviva, per quanto diversa da quella di McEnroe. Federer, poi Nadal. E John è stato uno dei cantori in diretta delle loro gesta, riconoscendone i meriti e i talenti infiniti. Lui che quella parola, talento, se l’era giocata come un dardo per trapassare la logica impenetrabile di Ivan Lendl, il nemico insopportabile della seconda metà del suo mandato agonistico. «Ho più talento io nel mignolo della mia mano, di quanto ne abbia Lendl in tutto il suo corpo». Sul campo vinceva Ivan, 21 a 15. In quel 1980 reso indimenticabile da un tie break di 34 punti uno più bello dell’altro, che avvicinò di molto McEnroe al concetto stesso di imbattibilità, rappresentato in quegli anni da Borg e dalle sue cinque vittorie filate ai Championships, in molti collocano l’avvio dell’Era McEnroe. […] L’immagine della perfezione era ancora lontana da quel tipetto esile e incazzoso che nel breve volgere di pochi secondi strappava applausi e faceva raggrinzire la pelle degli spettatori per le frasi che gli uscivano dalla bocca. Borg, se non altro, ne dava un’interpretazione più solida. Quella di una perfezione bionda e distaccata dagli umani affanni. Una perfezione svedese. Il 1980 quasi perfetto di Borg finì per trasmettere a McEnroe una sensazione d’incompiutezza che poco lo fece esultare per l’avvenuta conquista del numero uno. L’altro aveva ancora una marcia in più. Così sembrava… Era stato sconfitto per la prima volta in esibizione a Dusseldorf, Coppa delle Nazioni, ma per il primo k.o. nel circuito fu necessario attendere agosto, la Rogers Cup a Toronto. E per ritiro. Eppure, quella corsa a due, spalla a spalla, finì per consumare lo svedese, per primo. Aveva tanto più da perdere, Bjorn, ma fece fatica soprattutto a rendersi conto che un rivale lo avesse ormai appaiato. Fu come se in quel tie break nel quarto set a Wimbledon, che tutti pensavano cancellato dalla vittoria al quinto, Borg avesse inalato un virus potente, che prese a consumarlo da dentro. Prima lentamente, poi a morsi. Battuto sull’erba per l’ultima volta, McEnroe superò il ghiacciolo svedese al quinto nella finale degli Us Open, la seconda che vinceva. Infine lo cancello da quella del Masters. Borg mantenne per poche briciole la vetta della classifica a fine anno. Ma la perse a Wimbledon dell’anno dopo, insieme con il torneo. Era il 1981. E lì davvero tutti compresero che il tennis era passato nelle mani di Mac. […] In quel palcoscenico che era il campo da tennis, Mac e Bjorn finirono per assumere il molo di autentici innovatori. Uno cambio il gioco. L’altro lo rese teatro. Borg imprimeva ai colpi rotazioni allora fuori da qualsiasi schema. Lo faceva colpendo la palla nella parte superiore, da maestro del top spin. La sfera subiva un’accelerazione in avanti e un innalzamento della traiettoria, al contempo anticipava la ricaduta. Si disse, a ragione, che Borg aveva allargato il campo da tennis. McEnroe tocchettava, smistava, accelerava d’improvviso e piombava a rete per volleare con naturale eccentricità, tenendo la racchetta fra le dita come un cucchiaino da the. Le due finali a Wimbledon del 1980-81 furono al centro di una disputa finita nel mito. Borg vinse il primo confronto (e il suo quinto Championship) ma non riuscì a impedire a McEnroe di realizzare, anche nella sconfitta, l’impresa della giornata, vincendo al 34° punto il tie break del quarto set, forse il più avvincente mai giocato. Borg si vide cancellare, uno a uno, 5 match point. Ma vinse al quinto (1-6 7-5 6-3 6-7 8-6), perché, disse, «ero ancora convinto di essere il più forte». […] Ivan Lendl fu il secondo grande avversario di McEnroe. Da fantascienza le tre sole sconfitte subite da McEnroe nella stagione che gli consegno la sconfitta più devastante fra tutte. Tre sconfitte in 85 match. Una con Vijay Amritraj a Cincinnati. Un’altra con Henrik Sundstroem nella finale di Coppa Davis in Svezia. Ma la prima di tutte, contro di lui, Ivan Lendl. Anno 1984, finale del Roland Garros. «L’esperienza più dolorosa della mia vita nell’anno in cui sfiorai la perfezione». Di rado un match di tennis produsse effetti così sconquassanti nella vita di due giocatori: accadde una sorta di mutazione che lasciò stremato e incerto il tennista che fin lì aveva dominato, e l’altro invece rinvigorito, quasi avesse succhiato la linfa vitale dell’avversario. Nessuno accetterebbe di accusare Lendl di vampirismo, seppure il suo tennis abbia finito per prosciugare decine di avversari, ma da quell’incontro i due non furono più gli stessi. Mac vinse ancora, tantissimo. Tredici trofei. E tornò a battere Lendl nella finale degli Us Open e in quella del Masters. Ma subì l’affronto della sconfitta a Parigi come una malattia debilitante. E dalla fine del 1984 non seppe più conquistare uno Slam. Lendl invece, da grandissimo perdente (il pollo) divenne irresistibile, fino a instaurare una vera e propria dittatura In largo vantaggio (due set), McEnroe trovo il modo di distrarsi in una guerricciola da quattro soldi con un tecnico della tv. Dette in escandescenze, strappo gli auricolari al poveretto, inveì e dimentico Lendl. Quando tornò a occuparsene i magnifici congegni del suo gioco si erano inceppati, mentre l’avversario, per quei misteriosi meccanismi che fanno la storia segreta di tanti avvenimenti sportivi, era rinsavito e aveva trovato nel lob un formidabile alleato. Il match si rovescio (3-6 2-6 6-4 7-5 7-5) e Mac ancora oggi non se ne dà pace. «È stata la peggiore sconfitta della mia vita, una sconfitta devastante: a volte ancora mi tiene sveglio la notte. Persino adesso è dura per me parlare di quel Roland Garros. Mi fa star male ripensare a quella partita, a cosa ho gettato via e a come sarebbe stata diversa la mia vita se avessi vinto. E so che sarà un dolore che mi porterò dietro per sempre». «Avessi vinto», disse anni dopo a Panatta durante una cena, «lo avrei perfino incoraggiato. Una bella pacca sulla spalla e via. Gli avrei detto: non te la prendere Ivan, in fondo sei sempre il numero due». La replica gli giunse in anni ancor più vicini ai nostri, tagliente come solo la lingua di Ivan sapeva essere. La raccontò lo stesso McEnroe, masticando amaro. «Aveva organizzato un evento dalle sue parti, nel Connecticut, e m’invito a fare da voce fuori campo, in pratica da intrattenitore. Gli dissi volentieri di sì, fra l’altro la paga era buonissima. Quando arrivai, ci salutammo e per rompere il ghiaccio gli dissi: “Dì la verità, Ivan, non sai proprio fare a meno di me’: Mi guardo serio. “Non direi,’ mi rispose, “ma sono sempre stato convinto che prima o poi avresti lavorato per me».

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