C’è stato un giorno nella vita di Mats Wilander in cui tutto gli riuscì alla perfezione. Si alzò al mattino in una grande capitale europea e fece colazione insieme a Sonya Mulholland, fotomodella sudafricana sposata appena un anno prima. Non sappiamo cosa mangiò, né se la colazione si protrasse a lungo. Neppure sappiamo se Wilander si perse negli occhi della bella Sonya. Quel che sappiamo è che con lei tardò al check-in di un volo già prenotato per New York. Che strani i casi della vita: un regolarista che non era mai arrivato in ritardo a colpire una sola palla da tennis in carriera, fece tardi all’aeroporto e perse un aereo. In cambio ebbe salva la vita.
Era il 21 dicembre 1988 e quel volo, il Pan Am 103 decollato da Londra, esplose sopra i cieli di Lockerbie in Scozia, uccidendo 270 persone, che dovevano essere 272. Alcuni morirono in volo, altri all’impatto col terreno. Altri ancora, gli incolpevoli cittadini di Lockerbie (ma chi aveva colpe quel giorno?), investiti nelle loro case da una “palla di fuoco” e dall’enorme fusoliera con ancora le ali agganciate. Qualunque sarebbe stata la sua specifica sorte a bordo di quell’aeroplano, come negare che fu quello il giorno migliore nella vita di Mats?
In realtà altri sostengono che non fu così, e che la palma di giorno della vita il fuoriclasse svedese debba assegnarla al 5 giugno dello stesso anno. In quella data Wilander giocò la sua ultima finale al Roland Garros, quella che alcuni definiscono la sua partita perfetta.
È un’opinione comprensibile. Noi conosciamo Mats Wilander solo perché è stato (ex aequo) il tennista più vincente negli Slam degli anni ’80, l’unico di quell’epoca a vincere tornei dello Slam su tre superfici differenti (e non solo per il colore, come è oggi). Per noi è stato un grande tennista, come oggi è un commentatore mai banale, alle volte bastiancontrario, che non eccelle particolarmente nei pronostici. Se fosse stato invece solo un cittadino svedese molto fortunato, sul suo perfect day non ci sarebbe alcun dubbio.
Quel 5 giugno 1988 i dubbi invece c’erano e insieme alle nuvole di Parigi, aleggiavano sui riccioli biondi di Mats. Lo svedese si era issato alla finale di quella edizione degli Internazionali di Francia non proprio con il percorso netto da dominatore. Inopinatamente prossimo alla sconfitta contro Slobodan Zivojinovic in terzo turno, costretto ancora al quinto set in semifinale per domare l’astro nascente Agassi, affrontava per la seconda volta in una finale parigina un idolo di casa. La prima volta, cinque anni prima, mal gliene aveva colto, dominato da Yannick Noah.
Ora gli toccava Henri Leconte, giocatore che a Noah assomigliava per estro. Attaccante come Noah, ma di quella razza oggi scomparsa che preferiva farlo sulla lenta terra battuta (qualcuno si ricorda di un tale Adriano Panatta?). Talento immenso, braccio sinistro letteralmente capace di tutto: di far innamorare chi scrive del gioco del tennis, ma anche di portare cibo in eccesso e qualche calice di Borgogna di troppo alla bocca. Leconte viaggiava sulle ali di una tiepida infatuazione parigina in quel giugno così simile a un ottobre. Aveva eliminato Becker nella più bella partita del torneo, superato Chesnokov in una strana partita in cui sembrava che i due in campo giocassero sport differenti. Svensson in semifinale si scansò quasi, eppure Parigi riservava a Leconte un amore tiepido, estetico, apollineo.
Non si poteva non apprezzare la bellezza del tennis di “Riton”, né restare indifferenti ai suoi alti e bassi, così capaci di fare breccia nei cuori più materni. Ma Henri Leconte, a differenza di Noah, era troppo tipicamente francese, nei pregi e nei difetti. Non aveva quel sapore esotico e cosmopolita che aveva il gemello nero Noah. La Francia avrebbe anche potuto amare Henri ed il suo tennis, ma Parigi non è Francia, Parigi è Parigi, e per farsi amare occorre stupirla.
Wilander era invece un libro scritto, del quale si sapeva tutto e dal quale non ci si attendeva nulla di nuovo. Di conseguenza qualcuno, non pochi in verità, pensarono che il tennis estemporaneo e offensivo del mancino francese, come quello di Noah cinque anni prima, avrebbe destabilizzato Mats. Si sa, la madre degli ottimisti è sempre incinta, parafrasando i latini.
Qui in alto trovate l’intera riproposizione della partita. Se amate i finali scontati, ebbene, è lo spettacolo che fa per voi. Wilander scese in campo non solo come un libro scritto, ma anche come uno che i libri li aveva letti. Sun-Tsu, Confucio, o forse gli era bastato leggere in tivù da ragazzo le partite di Borg. Scese in campo con un piano tattico semplice, ma installato in una mente impermeabile al caos, capace costantemente di attingere alla strategia eletta, senza che il match, il vento, il pubblico, l’avversario potessero distrarlo. Dall’altra parte c’era Leconte, che era un fascio di nervi, un innamorato che trema per l’emozione e che per questo è condannato a non farsi mai amare.
Due ore di partita, con l’andamento che sembra tratto dall’epica classica del nostro sport. L’avventuroso attaccante che va avanti nel primo set e va a servire sul 5-4 in suo favore. Il pubblico di Parigi che si guarda intorno per condividere lo stupore e la meraviglia, alla ricerca di un sorso di Perrier che sgrassi l’ugola per l’imminente “marsigliese”.
Poi, nel momento della verità, arrivò un game sottotono di Leconte. Proprio quello che doveva dargli il set. Wilander, che in quei 40 minuti non aveva ceduto nulla di suo, non alzò il ritmo, né tentò cose nuove. Mats attese, cosa che gli innamorati non sanno fare, finché Leconte non sbagliò una facile volée di rovescio di un metro e perse il game. Quel che poteva essere un romanzo d’appendice divenne un verso di Baudelaire. L’albatro Henri si posò sulla terra battuta, le ali gigantesche a minarne il cammino. Il 5 giugno tornò ad esservi semplicemente una partita di tennis, e se solo una partita di tennis doveva essere, il francese doveva imperativamente sgretolarsi per fare posto alla realtà, sotto il peso di una coscienza ingombrante. Il giudice di sedia nell’annunciare il contro-break disse soltanto “Jeu Wilander”, ma avrebbe benissimo potuto aggiungere “set e match”: nessuno avrebbe protestato. Leconte avrebbe stretto tra le mani soltanto altri tre giochi, così simili a tre bicchieri d’assenzio. Wilander tutto il resto, compreso il trofeo.
La partita di Wilander stritolò quella di Leconte ma non indispose il pubblico parigino. Paradossalmente lo svedese era stato più fischiato quando, appena diciassettenne, batté Vilas nel 1982, al termine di una finale fatta di pallonetti e scambi soporiferi. Quel 5 giugno, invece, il pubblico parigino, apprezzò la inattaccabile solidità del numero due del mondo, l’assoluta perfezione ingegneristica del suo gioco. E forse, apprezzò un poco anche la lezione impartita a quel proprio connazionale troppo emotivo, inaffidabile e mediterraneo.
Sarebbe stato il secondo Slam vinto su due giocati nel 1988 per Mats Wilander. Metà Grande Slam, sarebbe riaccaduto solo 28 anni dopo a Djokovic. A fine stagione sarebbe stato numero uno del mondo, ma non servì settembre e la vittoria anche agli US Open per farci comprendere cosa il 23enne di Vaxjo aveva fatto quel giorno. Il suo gioco privo di circoletti rossi, di highlights da copertina, poco gettonato dai nostalgici su YouTube, si era mimetizzato sotto le luci sfavillanti degli estemporanei colpi di Leconte. Guardando le statistiche di fine incontro, in tempi in cui le grafiche non erano frequenti e internet un’idea di Dio, si comprese che Mats aveva prodotto una delle prestazioni più incredibili della storia del tennis.
Su 72 punti giocati nei suoi turni di battuta, Wilander aveva messo in campo per 70 volte il primo servizio. Per chi ama i numeri la percentuale di prime palle in campo fu pari al 97%. E giusto per non far credere a chi non c’era che avesse servito da sotto, un ace pure riuscì ad infilarlo. Si pensò persino che le statistiche fossero sbagliate. Ai lettori, tutti amanti del tennis, il compitino di comprendere cosa abbia significato, nell’economica della partita, quella percentuale bulgara di prime palle in campo.
Qui si suggerisce solo quanto ciò possa avere spaesato Leconte, come si sia sentito il francese a dover affrontare per due ore un destino sempre uguale, punto dopo punto, un giorno della marmotta tennistico, frustrato nella speranza di un aiuto, di un cedimento, incapace di sottostare con la mente alla routine, all’efficiente monotonia di Mats Wilander. Quel giorno Mats fu ineluttabile. Non c’è aggettivo migliore che descriva la sua prova. Lui che sapeva anche fare altro, che non era solo uomo incollato al fondo del campo, scelse di esserlo perché quella era la strada da seguire. Un esercizio mentale perfetto, di ferrea volontà, per la partita perfetta.
Ineluttabile. Nel dizionario della lingua italiana si legge: “Contro cui non si può lottare, imposto da una tragica e fatale necessità“. Nel dizionario tennistico si legge: “Come Mats Wilander il 5 giugno 1988”. Null’altro è noto di ineluttabile, se non la morte. Entrambi ineluttabili, il tristo mietitore e quel tale che stritolò Henri Leconte, quel Mats Wilander che alla morte è riuscito persino a sfuggire, scappando via da un aereo esploso in cielo, trattenendosi a colazione con Sonya mentre era comodamente assiso sul trono del tennis mondiale. Impresa facile, direte voi, un gioco da ragazzi, se con la nera signora si arriva ad avere qualcosa in comune.