Interviste
Nei dintorni di Djokovic: la lunga strada di Ivo Karlovic. “A volte non bisogna essere realisti”
Rientrato in Croazia dalla Florida, “Dr. Ivo” ha ricordato le difficoltà di inizio carriera. Con un po’ amarezza (“A mio figlio direi che non ne vale la pena”), ma con la consapevolezza di aver fatto qualcosa di non scontato (“Non è stato un percorso normale”). Ovviamente, senza prendersi troppo sul serio (“Non c’era niente che sapessi fare meglio”)

Avevamo lasciato Ivo Karlovic a Melbourne, in gennaio, dove alla sua 17° presenza nello Slam australiano aveva conquistato un altro paio di record di longevità. Era diventato il primo over 40 nel main draw australiano da Ken Rosewall nel 1978 e poi, superando al primo turno Pospisil in tre set, anche il primo over 40 a vincere un match del tabellone principale, quarantadue anni dopo il leggendario “Muscle”. In realtà, il tennista zagabrese era sceso in campo ancora in un paio di ATP 250 e infine al Challenger canadese di Calgary – dove al secondo turno il francese Blancaneaux gli aveva tolto la soddisfazione di festeggiare, il giorno dopo, il suo 41° compleanno in campo – prima che la pandemia fermasse il mondo del tennis (e non solo, purtroppo).
Dopo aver trascorso il periodo del lockdown in Florida, dove vive insieme alla moglie Alsi e ai due figli Jada Valentina e Noah, il gigante croato un paio di settimane fa è rientrato in Croazia, dove è stato intervistato dal quotidiano sportivo “Sportske Novosti”. Prima tappa ovviamente la città natale, Zagabria, per riabbracciare genitori e parenti, prima di passare qualche giorno di vacanza al mare, in attesa di decidere quando riprendere l’attività agonistica. “Non ho ancora deciso se andrò allo US Open, nel caso in cui venga disputato. C’è ancora tempo. Vedremo cosa succede”. Per il momento, Ivo, è nella entry list del torneo.
Per uno che non si è ancora stancato di andare in giro per tornei dopo aver iniziato a calcare i campi a livello Challenger al crepuscolo del secolo scorso (era il 29 novembre 1999 quando esordì in India, a Lucknow, battendo il giocatore di casa Mustafa Ghouse, oggi noto per essere l’Amministratore Delegato di JSW Sport, la Divisione sportiva della multinazionale indiana JSW) la risposta alla domanda se il tennis gli è mancato, è stata un pochino – ma non troppo, conoscendo il gusto per la battuta di Ivo – sorprendente: “Devo ammettere che il tennis non mi è mancato molto. È bello stare a casa con la famiglia. Abbiamo avuto molto tempo a disposizione e abbiamo potuto fare tante cose che altrimenti non avremmo potuto fare”.
Dopo un commento su come siano cambiati i rapporti tra le persone dopo il lockdown (“Dopo qualche tempo, le persone sono tornate a una vita relativamente normale, ma si percepisce l’insicurezza nello stabilire contatti con le altre persone”) al n. 124 del mondo è stata anche chiesta un’opinione sulle varie iniziative a sostegno dei tennisti non di prima fascia, in considerazione delle loro difficoltà economiche a causa dello stop. “Penso che alcuni tennisti abbiano sicuramente bisogno di un aiuto finanziario. E per me, personalmente, è molto bello vedere la solidarietà dei tennisti di vertice nell’aiutare i colleghi meno fortunati”.
Quando si parla di Ivo Karlovic il pensiero va immediatamente al “suo” colpo: il servizio. Logico che sia così, considerato che si tratta del giocatore che ha piazzato più ace di tutti nel circuito ATP – ben 13.599 in 687 match – e che sull’efficacia di questo fondamentale ha basato la sua ormai ultraventennale carriera. Ma un best ranking di n. 14 della classifica mondiale, otto tornei ATP vinti e altre undici finali disputate, 369 partite vinte nel circuito maggiore, non sono risultati che si raggiungono solo con il servizio, seppur scagliato da 211 cm di altezza, ma con un impegno e una dedizione al lavoro assoluta. Specie se parliamo di un giocatore che da ragazzo erano veramente in pochissimi a pensare avesse qualche chance di sfondare nel tennis che conta. “Credo che nessuno si aspettasse che raggiungessi la top 100, figuriamoci il 14° posto e vent’anni di carriera professionistica”.

Chi conosce anche solo un po’ la storia del tennista croato, sa che il percorso di Karlovic per arrivare al tennis che conta non è stato per niente facile. Basterà ricordare come a causa del fallimento dell’attività imprenditoriale del padre il giovane Ivo si trovò a non aver la possibilità di affidarsi ad allenatori costosi o ad accademie e a non poter viaggiare per disputare i tornei in cui avrebbe potuto guadagnare qualcosa, privo anche di un qualsiasi sostegno da parte della Federtennis croata. Persino trovare degli sparring partner era un’impresa: in pochi infatti volevano giocarci assieme, dato che il servizio era già a ottimi livelli mentre gli altri colpi assolutamente no e quindi le sessioni di allenamento con lui erano ritenute poco proficue (una situazione con cui si è ritrovato a convivere anche a livello “pro”).
A queste si aggiungevano le difficoltà nella sfera personale: timido e riservato, Ivo non aveva molte amicizie, anche perché la balbuzie di cui soffriva lo ostacolava nel rapporti con gli altri. E proprio in virtù del suo vissuto, giusto chiedere al gigante croato se abbia dei consigli da dare ad un giovane che desidera diventare un giocatore di tennis (“Beh, molti giovani giocatori con cui mi alleno mi chiedono un consiglio. Soprattutto negli Stati Uniti, dove le persone sono generalmente più disponibili a ricevere consigli”), soprattutto se con lui Madre Natura sembra non essere stata particolarmente generosa quando ha dispensato il talento tennistico. “Nel mio caso hanno giocato un ruolo determinate la mia perseveranza e la mia volontà di allenarmi quando ero giovane. Non ho avuto delle buone condizioni, spesso nemmeno le opportunità, per allenarmi, ma ho lottato in tutti i modi per progredire il più possibile. Nel tennis, a volte, è necessario non essere realisti e perseverare, qualunque cosa accada“.
E se a chiedergli un consiglio fosse suo figlio? “Se decidesse di farlo, lo sosterrei. Perché so che per lui la strada sarebbe più semplice rispetto alla mia. Se dovesse passare tutto quello che ho passato io, gli direi che non ne vale la pena.” Dalle parole di Ivo si percepisce che tanta è stata la fatica e tanti sono stati i bocconi amari ingoiati, ma nel chiedergli quali siano state le maggiori difficoltà, la sua ironia e la sua capacità di sdrammatizzare hanno la meglio. “La cosa che mi ha facilitato nel cercare di sfondare nel tennis mondiale è stato il fatto che non c’era niente che sapessi fare meglio. Per me, in quel momento, era una cosa normale. Non ero consapevole di nient’altro se non dei bisogni fondamentali. Oggi, a volte, ripenso a com’è stato il mio percorso: non è stato normale!”. Una risposta più di tutte, seppur sempre tra il serio e il faceto, fa capire quanto “Dr. Ivo” si sia impegnato per arrivare. Quella alla domanda se abbia mai saltato un allenamento perché non aveva voglia, soprattutto all’inizio della carriera. “Mai, quando ero più giovane. Adesso capita sempre più spesso”.
Interessante anche sapere se secondo lui – un giocatore da vent’anni nel circuito professionistico – fosse più facile diventare uno sportivo di alto livello ai suoi tempi o se sia più facile adesso. “Oggi dal punto di vista logistico-organizzativo tutto funziona molto meglio. Dall’organizzazione del viaggio alle tattiche in campo, dove molte informazioni si possono ottenere anche su You Tube. I bambini si allenano meglio. Quindi da un lato oggi è più facile sistemare le cose che non vanno e raggiungere un certo livello nel tennis, ma dall’altro è più facile per tutti e quindi questo crea più competizione, cioè ci sono molti più tennisti di prima”.
E quale sarà il domani di Ivo Karlovic? Ivo si vede ancora nel tennis il giorno che smetterà di impallinare gli avversari con la prima di servizio? ”Penso che rimarrò sicuramente nel tennis. In che modo… Questa è una domanda a cui devo ancora trovare una risposta. Dipende da dove sceglierò di trascorrere la maggior parte del mio tempo al termine della carriera. Naturalmente ho anche altri interessi, che spero quindi di aver il tempo di approfondire”. Un’ipotesi è quindi anche quella di allenare. Anni addietro, prima di mettere radici in Florida, Ivo aveva manifestato il desiderio di aprire una propria accademia a Zagabria. Un’idea che sembra non del tutto tramontata, magari spostando la sede al di là dell’Atlantico. “Vedremo a fine carriera”. Anche se, come detto, una decisione su dove la famiglia Karlovic si stabilirà definitivamente una volta che il capofamiglia appenderà la racchetta al chiodo non è stata presa. Sebbene un’idea di massima ci sia già. “La Croazia è un paese bellissimo, e indipendentemente da ciò che la gente dice la qualità della vita è buona. Trascorrerò sicuramente parte dell’anno in Croazia. Allo stato attuale, molto probabilmente il rapporto sarà otto mesi negli Stati Uniti e quattro in Croazia”.
Ma quali doti deve avere, secondo Karlovic, un allenatore? “La cosa più importante è adattarsi al singolo giocatore. Cioè capire come il giocatore recepisce le indicazioni più facilmente. Il tennis è uno sport individuale in cui i livelli di stress sono piuttosto elevati e frequenti. Affrontare tante situazioni stressanti tende a far diventare le persone testarde. Di conseguenza non è facile riuscire a relazionarsi con un tennista”.
Di certo senza quella testardaggine, che lo ha aiutato a non mollare quando in molti gli consigliavano di lasciar perdere, quel timido e silenzioso giovane spilungone del quartiere zagabrese di Salata non si sarebbe ritrovato a battere nel 2003, all’esordio in un tabellone Slam, il campione uscente Lleyton Hewitt al primo turno di Wimbledon (era la prima volta nell’Era Open e la seconda nella storia del torneo – nel 1967 Charlie Pasarell batté Manolo Santana – che il defending champion veniva subito eliminato). Fu la vittoria della svolta: il 24enne Karlovic raggiunse poi il terzo turno e due mesi dopo entrò per la prima volta in top 100, lui che prima di quella edizione dei Championships non era mai nemmeno arrivato tra i primi 150.

Ma a farci percepire quanto lavoro, quanta dedizione e quanti sacrifici c’erano dietro a quel risultato e a tutti quelli che seguirono, è ancora una volta una risposta semi-seria di Ivo ad un’altra domanda, quella del ricordo della sua prima volta a Church Road, ovviamente lo Slam preferito per un battitore di razza come lui. “Uh, è stato tanto tempo fa. Avevo 21 anni. Persi al terzo turno delle qualificazioni (contro l’attuale capitano di Coppa Davis israeliano, Harel Levy, ndr), giocate su un prato a venti minuti da Wimbledon (in realtà i campi del “The Bank of England Tennis Center” di Roehampton, ndr). Ma dopo quella partita andai a Wimbledon a vedere l’allenamento di Goran (Ivanisevic, ndr). Ma più che all’atmosfera di Wimbledon, ero interessato all’allenamento di Goran”.
Ancora convinti che Ivo Karlovic sia arrivato ai vertici solo perché aveva un gran servizio?
Flash
Robin Haase: “Il livello complessivo si è alzato, ma i top 15 sono meno forti”
L’olandese Robin Haase, ex n. 33 ATP, fa paragoni tra il presente e i suoi primi anni nel Tour, parlando anche di stili e superfici. E suggerisce qualche nuova regola perché “il tennis dev’essere più veloce”

Classe 1987, Robin Haase ha raggiunto il 33° posto nel ranking nel 2012. Numero 3 del mondo da junior, due operazioni al ginocchio durante i primi anni di professionismo non hanno certo aiutato l’ascesa di questo olandese che rientra tra coloro che danno l’impressione di giocare meglio a tennis di quanto non dica la classifica. A una settimana dal trentaseiesimo compleanno, Robin ha parlato con Clay del futuro non solo suo bensì soprattutto del tennis, della necessità di renderlo più veloce, del livello attuale paragonato a quello di dieci anni fa, delle superfici e di altro ancora.
Forse doppio e coaching, ma con moderazione
Con il ranking sceso al n. 269, ora frequenta principalmente il circuito Challenger. Lo scorso gennaio ad Adelaide 2 è però arrivata una vittoria ATP rocambolesca non solo e non tanto per il 7-6 al terzo con match point annullato, quanto per come era arrivato a disputare quell’incontro. L’intenzione, a ogni modo, è di giocare in singolare il più possibile, per poi decidere se dedicarsi solo al doppio. Dopo diciotto anni, “non mi vedo ancora per molto tempo nel circuito” spiega. “Però dipende. Se hai un compagno e siete almeno in top 20 potendo giocare solo 18 tornei a stagione, ok. Ma devi trovare un compare che sia d’accordo”. Per ora ha ripreso il sodalizio con il connazionale Matwe Middelkoop, 14a coppia della Race. È anche un coach certificato e occasionalmente aiuta i giovani olandesi che “sono contenti quando dico loro qualcosa su cui lavorare”. Occasionalmente è la parte facile. “Ma il secondo giorno, il terzo, il giorno 245, cosa dici? Quella parte del coaching è sottostimata dai tennisti”. E, a proposito di parti, quella dei viaggi ogni settimana è da escludere. “Magari un part-time, come la Coppa Davis”.
Tiro dentro vs tiro forte: da dove si comincia?
Un’altra osservazione interessante è la differenza tra la sua generazione e quella attuale. “Noi abbiamo prima imparato a tenere in campo la palla, poi a colpire sempre più forte. Oggi i tennisti crescono tirando più forte possibile, poi iniziano a imparare a non commettere troppi errori. Anche le superfici sono cambiate negli ultimi vent’anni. Ora non importa se duro, terra o erba perché è ancora un po’ diverso il modo di muoversi, ma i rimbalzi sono sinili, quindi non ci sono più specialisti. Non molti che fanno servizio e volée o veri attaccanti né terraioli. Giochi più o meno allo stesso modo dappertutto. C’era più varietà, ma i più giovani stanno aggiungendo cose. Diventano più pericolosi e il loro gioco si sta evolvendo”.
Siamo qui per il tennis o per divertirci?
Sorprende un po’ vederlo allineato a quelle affermazioni estemporanee di Jessica Pegula e Frances Tiafoe, secondo i quali sarebbe incomprensibile dover starsene zitti durante quei pochi secondi di ogni scambio e non poter continuamente lasciare il proprio posto e tornarci facendo alzare tutta la fila – neanche fossero al cinema. Per Robin, in modo simile, è inconcepibile dover aspettare dieci minuti prima di poter accedere allo stadio. “Entra e siediti” è la sua soluzione. “Magari con qualche eccezione, tipo le prime file. Se comprassi un biglietto e dovessi aspettare dieci minuti, direi, ‘ma che è sta roba?”’. Una considerazione che rientra nel più ampio discorso secondo cui “nel tennis, l’unico divertimento è lo sport. Non c’è granché oltre quello. Niente musica, niente altro per la gente”. Qualcuno potrebbe obiettare che a volte, di musica, ce n’è anche troppa e di pessima qualità, ma è un’opinione (la qualità, la quantità è un dato oggettivo). Il tutto partendo dalla tecnologia delle chiamate elettroniche, con il sistema originale che incontra i favori del nostro: “Hawk-eye era molto divertente. I tennisti potevano chiedere il challenge e alla gente piaceva. Ora non c’è più interazione con il pubblico”. Qui sarebbe stata perfetta una citazione del tipo, “il progresso andava forse bene una volta, ma è durato troppo” (legge di Ogden Nash), ma Haase è una personcina seria. In definitiva, l’idea è che “le regole devono cambiare”. Quali regole?
L’inafferrabile concetto del let in battuta
“Non ha alcun senso il let sul servizio. L’unica argomentazione a favore è la tradizione, mentre quelle contrarie sono molto migliori” e fa l’esempio della pallavolo prima di analizzare le obiezioni. “Se tiro una bella battuta che sarebbe ace ma tocca appena il nastro, devo rigiocarla – perché? Se il nastro accomoda la palla per il ribattitore, è perché ho servito male. Poi, il marchingegno costa un sacco di soldi e neppure funziona bene”. Sul costo non siamo troppo sicuri, ma poi Haase cade nella solita retorica: “E, più importante di tutti, la gente non lo capisce”. Ok, Robin, togliamolo, ma che non sia per darla vinta agli stupidi o presunti tali.
Non importa dove, purché ci si vada in fretta
Se non pensa che il tennis sia esattamente noioso, ma dovrebbe andare più veloce e, in quest’ottica, il punteggio della spettacolare vetrina under 21 attualmente in cerca di una nuova casa con cinque set ai 4 game è meglio dei noiosi tre ai 6. Il motivo è presto detto. “Adesso ai giocatori non importa tanto dei primi game. Hai vinto il primo set, 1-1 nel secondo, l’altro è 40-15, a volte pensi, ‘vabbè, quel punto non mi interessa’. Invece, dovendo arrivare a quattro, è meglio che ti giochi quel punto perché non hai tante occasioni per brekkare. Non dico di cambiare adesso, ma possiamo sperimentarlo di più”.
Per Haase, rimane intoccabile il punteggio degli Slam anche perché i numeri in termini di presenze dicono che godono di ottima salute, ma lo stesso non vale per gli ATP 250 ed è lì che si potrebbe cambiare il punteggio: “Diamo al pubblico più divertimento”.
Poche palle, diamogliene di più
Non è però che gli siano venute queste idee ora che ha più anni nel Tour alle spalle che non davanti. “Le ho da 15 anni” assicura. “A casa ho uno schema con tutti questi suggerimenti, di quando ero nel Consiglio dei Giocatori. Nei Challenger, si gioca con quattro palline. Perché mai? Se ne possono usare sei come nell’ATP, non costano più così tanto. Se giochi con quattro, si deteriorano prima e, quando le cambi, è ancora più difficile controllarle. Eppure i Challenger sono parte del Tour ATP – perché non c’è la stessa situazione?
Una volta i top erano più forti, ma…
Lo scorso anno, Toni Nadal ha avuto occasione di affermare che il Rafa 2022 avrebbe perso dal Nadal passato, per esempio quello del 2013, 2011, 2008. Lo stesso valeva per Djokovic. E il fantastico Federer 2017? Inferiore a quello di dieci anni prima. Insomma, il livello si è abbassato. Robin c’era ed perfettamente d’accordo. A metà. “Dipende dal punto di vista. Dieci anni fa, la top 20 o la top 15 erano incredibili. Poche sorprese negli ottavi degli Slam. Roddick, Hewitt, Wawrinka, Davydenko, Nishikori… Toni ha ragione, quelle top ora sono più deboli. Tuttavia, la top 100, 250 o anche 400 sono molto più forti. Il livello complessivo è più alto. Una volta era più facile vincere i Challenger. Adesso è più dura e chi li gioca può far bene nel Tour ATP”.
Collegato a questo, il fatto che solo due Slam siano stati vinti da tennisti ora nei loro vent’anni fa dubitare della forza mentale di quella generazione. Haase vuole precisare la questione: “Se entri nei primi 100, sei fortissimo mentalmente. Chi sostiene che il numero 10 non è forte di testa non ha idea di quello che dice. Vincere uno Slam è diverso, è vero. Thiem e Medvedev ci sono risuciti, anche se Djokovic e Nadal provano di essere ancora migliori degli altri, pur non dominando com’erano abituati a fare – normale per via dell’età”.
Protezione o controllo?
La chiacchierata si conclude con il cambiamento della relazione fra tennisti e media. “Più soldi sono in ballo, più alta è la pressione. I manager e i coach vogliono proteggere i giocatori. Per i manager, tenerli lontani da certe situazioni significa controllarle e di conseguenza i tennisti non sempre sanno cosa stia succedendo. Nei Paesi Bassi, qualche giornalista si occupava solo di tennis, ora anche di calcio e pallavolo e quindi non viaggia più tanto. Ci vediamo una volta all’anno, stesse domande, non c’è più relazione ed è un problema per entrambe le parti. E ci sono i social che permettono ai tennisti di comunicare con i fan”.
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WTA Miami, Cirstea dopo la vittoria su Sabalenka: “Non le lo ho lasciato dettare i punti, il servizio mi ha aiutato nei momenti cruciali”
La rumena Sorana Cirstea torna in semifinale di un WTA 1000, dopo 10 anni: “Il mio livello è stato alto anche i passato, solo che mi è mancata continuità”

Dieci anni dopo la sua prima semifinale in torneo di categoria ‘mille’, ad una settimana dal suo 33esimo compleanno (compirà gli anni il 7 aprile), Sorana Cirstea ritorna ad assaporare il gusto della vittoria nei quarti di finale di un evento del circuito così prestigioso. Dal WTA 1000 di Toronto 2013 dove si arrese all’immarcescibile Serena Williams, al penultimo atto in Florida dove attende la vincente di Kvitova-Alexandrova – rinviata al programma odierno a causa della pioggia torrenziale abbattutasi su Miami nella serata di ieri -. Il successo su Sabalenka è stata per la romena l’occasione giusta per ripercorrere nel post-gara le vicissitudine di questo decennio di lontananza dall’élite del tennis femminile mondiale, con anche qualche curiosità venuta a galla come l’essere cresciuta a suon di gelati per via dell’azienda di famiglia.
D. Si è potuto notare svariate volte che Aryna [Sabalenka, ndr] durante i cambi di campo prima di sedersi si mettesse un impacco di ghiaccio in testa, per poi coprirsi il volto con un l’asciugamano. Si è capito dunque che stesse lottando tanto per contrastare il caldo. Tu invece mi sei sembrata molto più calma, quasi come se non stessi per nulla sudando. Com’è stato affrontare e vivere tutte queste situazioni? Potresti dire che sei stata in grado di approfittare della sua stanchezza?
Sorana Cirstea: “Ad essere onesta, non mi sono resa minimamente conto della sua sofferenza. Per quanto riguarda me, invece, posso solo dire di ritenermi estremamente fortunata dato che in tutta la mia carriera non ho mai avuto gravi problematiche in partita nel sopportare il caldo. Ad esempio posso dire di non sapere fortunatamente cosa si provi ad avere i crampi, non li ho mai avuti. In generale poi, non ho mai avuto problemi al riguardo. Anzi mi è sempre piaciuto molto giocare al caldo, non mi dispiace affatto. Dunque, dalla mia prospettiva è stato semplicemente un giorno di lavoro come un altro. Naturalmente, però, penso che il mio personale rapporto con certe condizioni atmosferiche abbia rappresentato indubbiamente un vantaggio decisivo nel match, tuttavia nel corso dei miei anni di carriera non ci ho mai prestato veramente attenzione. Ultimamente, però, sto iniziando a rendermi conto che io riesca ad esprimere il massimo delle mie potenzialità con un clima caldo più di quanto riescano a fare la maggiore parte delle altre giocatrici“.
D. Prima del torneo avevi parlato del tuo coach e di come ti aiuti ad affrontare ogni tipologia di avversaria. Alla luce di questo, volevo sapere quagli aspetti del tennis di Sabalenka credi tu sia stata in grado di sfruttare e far sì che fossero tuoi punti di forza? Inoltre sei sempre sembrata molto calma in tutti i momenti di tensione del match, dove ad esempio ci sono stati punti di rottura dell’equilibrio. Quindi non ti sei mai innervosita, neanche dentro di te, pensando alla grande opportunità che avevi davanti di poter andare in semifinale?
Sorana Cirstea: “Conoscevo perfettamente il modo in cui Aryna [Sabalenka, ndr] gioca, ed ero conscia che avrebbe impostato la partita alla ricerca della costante aggressività. Per cui, io e il mio team avevamo preparato a nostra volta la partita per incentrarla sull’aggressività, poiché appena le dai spazio e fai un piccolo passo indietro, sei semplicemente finita. Se contro di lei provi unicamente a contenere, non farai quasi mai punto. Io posso ritenermi fortunata da questo punto di vista, perché sono una giocatrice completa in grado all’occorrenza di modificare la sua attitudine in campo. Posso attaccare, ma posso anche difendere. Però devo dire, che se posso scegliere preferisco sempre e comunque attaccare. Il mio obiettivo principale era essere aggressiva non lasciando che fosse lei a dettare i punti, ma anche essere solida e servire bene; perciò avendo mantenuto tutto ciò che mi ero ripromessa di fare non posso che ritenermi altamente soddisfatta della mia prestazione. Anche se devo riconoscere che il servizio è stato continuo, tuttavia nei punti importanti mi ha aiutato un bel po“.
D. Riprendendo e ampliando quello che hai detto sul servizio, io ho avuto la sensazione che il tuo servizio alla T le abbia creato non pochi grattacapi. C’è stato qualcosa di specifico riguardo alla sfera del servizio, su cui tu il tuo coach avete lavorato più nel dettaglio? Poi ti volevo anche domandare, quanto è importante quando si affronta una battitrice così massiccia essere in grado di rispondere bene e in generale riuscire a reggere la potenza dei suoi colpo, specialmente nei punti che pesano di più?
Sorana Cirstea: “Sì, penso che il servizio sia stata probabilmente la parte del mio tennis sulla quale io e il mio allenatore abbiamo lavorato maggiormente negli ultimi mesi. L’anno scorso dopo lo US Open ho dovuto interrompere la mia stagione a causa di un infortunio alla spalla, per poi essere successivamente costretta a due mesi di riabilitazione. Una volta guarita, abbiamo iniziato a lavorare molto sul servizio. Naturalmente non abbiamo potuto lavorare fin da subito quanto volevamo, visto che ogni tanto la spalla mi faceva ancora un pò male. Sono andato in Australia con ancora un pò di dolore presente. Ciononostante abbiamo comunque lavorato tanto, perché sentivo che il servizio non fosse in linea, ma al di sotto, con il livello delle altre componenti del mio gioco. Anche perché sono comunque una tennista mediamente alta, seppur non tra le più alte del Tour, e dunque dovevo servire meglio e con maggiore incisività rispetto a quello che stavo facendo. Quindi abbiamo cercato di migliorare aumentando la velocità di palla. Tuttavia non ha dato i risultati sperati, quindi ci siamo detti di provare a migliorare cambiando qualcosina nel posizionamento. E alla fine dopo tanto lavoro abbiamo raggiunti l’obiettivo di fare diventare un’arma il mio servizio“.
D. Sei ritornata in semifinale in un WTA 1000 dopo dieci anni. Puoi raccontarci quale sia stato il processo per raggiungere il livello attuale? E quanto hai attinto dal percorso della tua carriera nel poter affrontare al meglio la numero due del mondo?
Sorana Cirstea: “Ancora una volta, come ho detto molte altre volte, non sono a conoscenza dei numeri e dei risultati che mi riguardano. Non ne ho mai tenuto traccia. Il mio percorso in questi dieci anni è stato abbastanza semplice, ho fatto quello che credo facciano quasi tutti i miei colleghi e le mie colleghe; concentrarsi maggiormente sul lavoro piuttosto che sulle classifiche e tutto il resto. Quindi penso di essere sempre stata una buona giocatore, anche durante questi anni che sono intercorsi tra una semi e l’altra. Ritengo di essere sempre stata una giocatrice molto pericolosa da ritrovarsi contro. Ho sempre fatto grandi partite, ma delle volte mi è mancata un po’ di costanza. Puntualmente, infatti, mi capitava che per quattro mesi giocavo davvero bene, e poi succedeva che all’improvviso abbassavo il livello, il ciclo infine si concludeva con un ritorno ad alti livelli e a grandi performances. Sulla carta sono passati dieci anni, ma ribadisco di credere di aver espresso un livello alto anche in questi dieci anni; solo che non sempre i risultati mi hanno dato ragione per mancanza di continuità. E su questo non smetto mai di lavorare per crescere ancora. Essere un tennista, è come fare un puzzle. Ed ora dopo diverso tempo, tutti i pezzi stanno andando al loro posto“.
D. Considerando il livello espresso da Sabalenka finora in stagione, che tipo di dimensioni assumere per te il torneo e come giudichi questo risultato?
Sorana Cirstea: “È difficile personalmente valutare certi risultati migliori rispetto ad altri, ma penso che questo risultato nella sua totalità mostri il lavoro che ho fatto. Anche perché negli ultimi due mesi ho lavorato davvero molto duramente. Dunque per me non solo questi risultati sono degni di nota, anche prima dei quarti qui ho battuto giocatrici forti. Poi naturalmente vincere contro Aryna, una campionessa Slam e finalista la scorsa settimana a Indian Wells, ha un sapore diverso anche perché poi lei è una giocatrice estremamente aggressiva e a me queste tipologie di giocatrici piacciono tanto; nonostante ciò non saprei dove effettivamente collocare questa vittoria. Ma sicuramente, però, mi infonde gioia e nello stesso tempo anche sollievo per tutto il lavoro svolto che ora sta dando i suoi frutti“.
D. Sei tra le tenniste più “anziane” di sempre ha raggiungere la seconda semifinale della carriera in un ‘1000. Vincere una partita come questa, che si va ad unire a molte altre grandi partite che ti hanno vista protagonista di recente, pensi possa essere fonte di ispirazione per altre giocatrici che hanno l’ambizione di giocare così a lungo?
Sorana Cirstea: “Sicuramente. Io poi sono arrivata in Tour quando ero ancora molto giovane, a 17 anni ero già in Top 100, e un anno dopo ero già ai ridosso della Top 30. Quindi ho avuto un grandissimo inizio di carriera, ma se tu mi avessi chiesto allora se a 32 anni mi sarei immaginata ancora in campo; probabilmente ti avrei risposto di no. Ma naturalmente con gli anni maturi e cominci a goderti il gioco ancora di più rispetto a quando sei giovane, in questo momento mi sto talmente divertendo che forse se vedessi adesso il mio approccio al tennis di quando avevo vent’anni non piacerebbe. Tuttavia, però, chiaramente vorrei avere 20 anni e ottenere i risultati di quel periodo ma allo stesso tempo sono molto orgogliosa della mia mentalità, della mia etica del lavoro, della mia disciplina e anche della mia convinzione; perché ho sempre creduto che il mio gioco potesse essere nocivo per le avversarie. Ho sempre creduto che con questo gioco fossi in grado di fare grandi cose. Ognuno però ha il suo percorso, alcuni giocatori hanno bisogno di più tempo, alcuni ne impiegano meno, ma sono comunque orgogliosa di tutto ciò che ho raggiunto nella mia carriera“.
D. Sono a conoscenza del fatto che tuo padre possieda un’azienda che produce gelati, dunque debbo dedurre che il gelato ti piaccia molto o sbaglio? Se è così, quel è il tuo gusto preferito?
Sorana Cirstea: “Sì, è il mio dessert preferito. Sono cresciuta con il gelato in estate, inverno, in tutte stagioni. In verità la piccola azienda è di entrambi i mie genitori. Sono persone che hanno lavorato e che lavorano tuttora sodo. Per quanto riguarda il mi gusto preferito, direi vaniglia-cocco-pistacchio. Questo è il mio trio“.
D. Già a Indian Wells avevi ottenuto un grande risultato, che però credo emotivamente tu l’abbia vissuto in maniera diametralmente opposta alla tua corsa qui in Florida perché comunque rappresentava una grande sorpresa?
Sorana Cirstea: “Hai perfettamente ragione. Ad Indian Wells è stato bello ottenere quelle due vittorie prima di perdere ai quarti contro Iga {Siwatek, ndr]. Però ho avuto la netta percezione che anche nei quarti di finale, avrei potuto giocare molto meglio di quanto effettivamente abbia fatto. Quindi arrivando qui con il carico di fiducia dopo la California, considerando il duro lavoro svolto negli ultimi due mesi mi sono detta che non potevo non sfruttare l’alto livello del tennis che stavo esprimendo per cogliere un risultato importante e prestigioso; ma che per farlo al meglio rispetto a IW avrei dovuto essere meno emotiva. E così è stato, poi è normale che con la fiducia e la consapevolezza di sé le cose diventino più automatiche in campo, il che è sempre molto positivo perché ti permette di essere più sicuro di te, cioè meno pensieri negativi che ti passano per la testa. Quindi direi che in queste due settimane sono stata più calma sotto il profilo dell’emotività, per preparare al meglio ogni singola partita“.
D. Come ti senti fisicamente? Cosa hai fatto dopo la partita, a livello di essercizi defaticanti e massaggi? Credo ci sia voluta più di un’ora e mezza prima che entrassi. Ci sono stati problemi? Qual è stato il processo che hai seguito dopo la partita?
Sorana Cirstea: “No, era soltanto la routine. Mi sento abbastanza bene fisicamente. Ripeto che penso di essere fisicamente migliore di quanto non fossi dieci anni fa, mi sento molto in forma. Sento che anche a livello di mobilità nella copertura del campo sono cresciuta tanto. Ci ho messo un pò di più del normale perché questa volta avevo più interviste con i media da fare. Poi ovviamente sono andata sulla cyclette, ho fatto una chiacchierata con il mio coach, poi stretching ed infine fisioterapia e bagno con ghiaccio. Insomma, la solita routine che faccio dopo ogni singola partita“.
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WTA Miami, Sabalenka: “Ho dovuto combattere contro il caldo, ora devo solo rimanere concentrata su me stessa”
“Orgogliosa della continuità di gioco espressa. Coerente e fede al percorso intrapreso”, parole positive per la bielorussa Arya Sabalenka nonostante la sconfitta con Cirstea

Un doppio 6-4, arrivato a piena maturazione quando l’orologio dell’Hard Rock Stadium del Miami Open Presented Bi Itaù comunicava che mancavano esattamente tre minuti allo scoccare dell’ora e mezza di gioco, quello inflitto dalla sorpresa del Sunshine Double 2023 Sorana Cirstea (oltre alla semifinale colta in Florida – e non è finita qui – bisogna aggiungere i quarti californiani) alla n. 2 del tabellone, e dunque favorita numero uno per la conquista del titolo vista l’assenza di Swiatek, Aryna Sabalenka che ha riportato in voga i fantasmi che furono e che invece sembravano stati finalmente riposti nel cassetto del dimenticatoio dopo il grande inizio di stagione della bielorussa con la ciliegina del primo Slam messo in cascina in Australia. Ecco come la finalista di Indian Wells ha commentato in sala stampa la cocente delusione, ora proverà già a voltare pagina per proiettarsi alla stagione sulla terra.
D. Questa è stata la prima volta che hai affrontato Sorana [Cirstea, ndr]. Cosa ha fatto talmente bene contro di te in questa partita per metterti così in difficoltà?
Aryna Sabalenka: “Sì è vero, è stato il nostro primo incontro. Io personalmente sono mancata in tanti aspetti cruciali del mio tennis, offrendole così diverse opportunità che lei è stata molto abile nel cogliere. Semplicemente nella partita odierna ha dimostrato di essere una giocatrice migliore di me, meritando dunque la la vittoria“.
D. Con quale parte del tuo gioco hai dovuto combattere di più, quale non ha funzionato come avresti voluto e perché?
Aryna Sabalenka: “Sicuramente non è stata la mia miglior partita. Ho dovuto lottare molto contro le condizioni di gioco, come ad esempio l’elevato caldo. Ho avuto la costante sensazione che una volta colpita, la pallina volasse troppo in aria e questo mi ha impedito di poter avere il controllo che desideravo. Pe cui, mi sono ritrovata a non essere in grado di controllare e gestire i miei colpi. A quel punto, nonostante le difficoltà ho provato a mettere sul campo il meglio che potevo fino all’ultimo punto del match. Purtroppo però, alla fine, anche con il passare dei minuti non sono mai riuscita ad adattarmi a queste condizioni. La prossima volta dovrò fare certamente meglio da questo punto di vista“.
D. Hai avuto un fantastico inizio di stagione. Per questo vorrei chiederti, se tu possa riflettere sui primi tre mesi del 2023 e dirci di quale dei miglioramenti che ha compiuto o dei traguardi che hai raggiunto tu sia più orgogliosa?
Aryna Sabalenka: “Credo che i primi tre mesi dell’anno siano stati fantastici per me. Sono solo molto orgogliosa della continuità di gioco che ho espresso, il mio augurio per il futuro è quello di poter continuare su questa strada non smettendo di lavorare per migliorare ancora. Dunque il mio unico obiettivo d’ora in poi, sarà fare sempre del mio meglio rimanendo coerente e fedele al percorso intrapreso“.
D. E allora, proprio a proposito di questa costanza di rendimento che vuoi mantenere inalterata; quale pensi possa essere la chiave di volta per tenere su questi livelli il tuo tennis anche durante la parte di stagione sulla terra battuta?
Aryna Sabalenka: “Penso che la chiave sia rappresentata esclusivamente dal rimanere sempre e solo concentrata su me stessa, cercando di non pensare a quello che viene detto sul mio conto sui social media e in generale non dando eccessiva importanza all’aspettative che gli altri hanno su di me. Concentrarsi soltanto su me stessa, questo è il motto da seguire. Se continuerò a fare le mie cose come in queste tre mesi, se la mia routine non subirà variazioni, sono sicura che sarà in grado di mantenere lo stello livello di gioco di questo inizio di stagione e forse addirittura fare anche meglio alzando ulteriormente: le vittorie arriveranno, anche sulla terra. Devo solamente continuare a lavorare sodo, se lo farò il prossimo futuro sarà roseo e pieno di soddisfazioni. Nonostante il mio avvio di 2023 sia stato decisamente positivo, ho comunque dovuto subire alcune battute d’arresto in questa prima parte della stagione. Sono state lezioni difficili da digerire ma imparerò (sorridendo), resetterò e ricomincerò a lavorare ancora più forte di prime come ho fatto durante la pre-season. Quello che posso assicurare con assoluta certezza è che darà tutte me stessa per portare il miglior livello di tennis anche sulla terra battuta“.