Verso lo US Open 2021, GOAT gate: Djokovic sarà il più grande?

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Verso lo US Open 2021, GOAT gate: Djokovic sarà il più grande?

S’infiamma il dibattito a pochi giorni dallo US Open 2021, che potrebbe incoronare Djokovic Re di ogni epoca. Con Federer e Nadal fermi ai box

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Novak Djokovic con il trofeo - Wimbledon 2021 (via Twitter, @Wimbledon)
 

La capra non gode di buona reputazione, animale sciocco, sgraziato, indolente, non a caso Sgarbi ne ha fatto l’insulto più efficace del proprio repertorio. Nel tennis, però, da un po’ il quadrupede barbuto dal latte saporito è sinonimo di eccellenza, grazie alla sintesi grafica di Greatest Of All Times (il più grande di sempre), che produce l’acronimo G.O.A.T., in inglese, appunto, “capra”. 

Dal gustoso parallelismo zoologico è nata una delle dispute più agguerrite degli ultimi anni, da quando Federer ha smesso di dominare il circuito: chi è il più grande tennista di tutti i tempi?

Prima, il gioco era semplice, Roger era l’uomo con più settimane da numero 1 nel ranking ATP, con più Slam e ATP Finals vinti. Non era soltanto il più elegante, il più tecnico, il più duttile, era anche il più vincente. Fino alla primavera del 2018, statistiche alla mano, nessun tifoso dei restanti Big 3 – o di campioni immensi del passato –  si azzardava a promuovere il proprio beniamino a GOAT: c’era Federer, poi tutti gli altri. Tanto più che lo svizzero quell’anno aveva zittito i detrattori bissando l’insperato successo a Melbourne del 2017, a 36 anni e mezzo, dopo aver messo in cascina l’ottavo Wimbledon pochi mesi prima: trascorse cinque stagioni senza Slam, archiviata l’operazione al menisco, Federer si era ripresentato in pompa magna, tre Slam vinti sui quattro giocati, e nel quarto, New York 2017, comunque quarti di finale con un ottimo Delpo. In quel gennaio di tre anni fa, gli inseguitori più vicini erano Nadal (16 Slam), Sampras (14 e ormai fuori gioco) e Djokovic (12 Slam), distante in modo apparentemente siderale dai suoi 20.

Poi, a giugno, Rafa vinceva l’ennesimo Roland Garros, il suo Slam n. 17, e poco dopo Nole metteva tutti in riga a Londra e New York, salendo a 14 Slam: i levrieri avevano cominciato la caccia alla lepre che, peraltro, non riusciva più a vincere, anche quando gli mancava un solo punto, con quattro servizi a disposizione, nel giardino di casa. Fu quella memorabile finale 2019 a Wimbledon, riacciuffata per l’ultimo capello, a convincere Djokovic di poter raggiungere e, perché no, superare i due rivali. Il brutto anatroccolo che sorpassava i cigni, eccolo, il sogno di Nole.

E ora il sogno è lì, a portata di mano: vincendo lo US Open, il serbo – già padrone del maggior numero di settimane da n. 1 del ranking – potrebbe diventare l’uomo con più Slam conquistati in carriera. Non solo, infilati in saccoccia i primi tre Slam del 2021, potrebbe completare il Grande Slam, uguagliando Rod Laver, l’unico a riuscirci in era Open. Impresa stratosferica che innalzerebbe Nole a tennista più vincente di chiunque altro, dal momento che né Roger né Rafa – e tantomeno i rampolli della ormai ex-Next Gen – sarebbero in grado di emularlo. Trionfando a New York, Djokovic agguanterebbe un risultato storico, ma sarebbe sufficiente per celebrarlo, oltre che come tennista più forte di ogni tempo, anche come il più grande?

Novak Djokovic – Roland Garros 2021 (via Twitter, @rolandgarros)

Porsi questa domanda è come passeggiare fischiettando in un campo minato, a ogni affermazione si rischia di saltare per aria. Senza contare i cecchini di Nole, pronti a impallinarti al primo sgarbo verso il loro campione, e quelli degli altri due, terrorizzati dal vedere Rafa e Roger cedere lo scettro degli Slam al serbo e, dunque, tutti concentrati nel ridimensionarne la “consistenza” delle vittorie. Forse dovremmo aprirci una via di fuga semiseria, citando McEnroe e la sua famosa frase per cui, se si giocasse ancora con le racchette di legno, il più grande sarebbe lui. Eppure vogliamo azzardare alcune riflessioni, alcune mutuate dalle suggestive discussioni che si accendono in coda agli articoli di Ubitennis.

Molti commentatori contestano la “valenza” effettiva delle vittorie negli Slam: si riconosce che, in quanto più lunghi degli altri – sette partite, tre set su cinque – Melbourne, Parigi, Wimbledon e New York rappresentano sulla carta i tornei più impegnativi e, quindi, rilevanti, prestigio a parte. Tuttavia si eccepisce anche come numerosi tabelloni Slam abbiano accompagnato il vincitore al successo senza fargli affrontare avversari degni prima dei quarti o addirittura delle semifinali, a volte evitandogli scontri con top 10 per le intere due settimane. Meglio allora i Masters 1000, meno nobili, ma più “sostanziosi” in termini di scontri tosti già ai primi turni. Qui però i problemi di credibilità sono il numero minore di partite da vincere (grazie all’introduzione del “bye” sette 1000 su nove s’intascano con soli cinque successi) e la frequente assenza di top10, spesso fermi ai box per leccarsi le ferite in attesa degli Slam. Comunque, vincendo a New York, Djokovic metterebbe tutti d’accordo, giacché deterrebbe il record sia di Slam che di Masters 1000 vinti.

Riguardo al “peso” dei tornei, malgrado si giochino a fine stagione, su una superficie neutra e indoor, per molti ha una maggiore attendibilità il numero di ATP Finals vinte: ci si incontra solo tra top 10, anzi tra top 8 (la Race arriva a coincidere col ranking ATP al termine della stagione) e bisogna batterne almeno quattro per imporsi, eventualità più che remota in Slam e Masters 1000. A volte è difficile individuare nel vincitore delle Finals un possibile GOAT – penso a Dimitrov o Zverev – ed è impossibile escludere Nadal dal novero dei papabili solo perché non le ha mai incassate, ma conquistarne cinque (Djokovic) o sei (Federer) qualche suggerimento ce lo può dare.

Altro record di Djokovic è quello già citato delle settimane al n. 1 del ranking. Parecchio risalto, a ragione, è stato dato al giorno in cui, nel marzo di quest’anno, Djokovic ha messo la freccia su Federer, raggiungendo le 311 settimane in cima al mondo, oggi salite a 335. È indubbio che avere più punti di chiunque altro in classifica per quasi sei anni e mezzo comprova i risultati formidabili del serbo, oltretutto in un arco di tempo decisamente lungo. 

Per restare sulle statistiche vincenti, Djokovic risulta in attivo nei confronti diretti coi due maggiori rivali contemporanei, 30-28 su Nadal, 27-23 su Federer. Qui il discorso è articolato: se uno batte i più bravi, di norma è il più bravo, ma ciò potrebbe indurci a concludere che i veri GOAT siano Nick Kyrgios e Dustin Brown, in vantaggio 2-0 nei testa a testa rispettivamente con Djokovic e Nadal, o che Thiem sia migliore di Federer, visto che lo ha battuto cinque volte su sette. Sappiamo della forza dell’austriaco e di come l’australiano abbia raccolto assai meno di quanto i suoi mezzi gli consentirebbero, ma da qui a farne i più grandi… E poi c’è l’aspetto non marginale di soffrire gioco e personalità di un determinato giocatore e, magari, trovarsi sempre a proprio agio con un altro; pensiamo alle 19 vittorie su 21 match di Federer con Gasquet, non proprio il meno talentuoso del circuito, o, viaggiando a ritroso, le 17 su 17 di Borg con Gerulaitis. 

Roger Federer – Roland Garros 2021 (via Twitter, @rolandgarros)

Distinguo e analisi a parte, a livello di numeri Djokovic sembrerebbe già ora non avere più avversari verso il titolo di GOAT, e, a maggior ragione, qualora si accaparrasse anche Flushing Meadows 2021, con annesso Grande Slam. Però qui ritorna la domanda: sarebbe il più grande se fosse il più vincente?

Great”, nella lingua di chi il tennis l’ha inventato, significa sì “grande”, ma non in senso fisico, bensì di valore. Perfetto, ma di quale valore parliamo? Se lo ancoriamo alle vittorie, il GOAT è Nole, senza tentennamenti. Ma si può ridurre la grandezza nello sport soltanto a questo? Non esistono valori “altri” da considerare?

Pensiamo alla longevità: il più grande sarebbe Ken Rosewall, il quale nel 1972, a 37 anni e 2 mesi, ha vinto l’Australian Open, e nel 1974, a 39 anni e 7 mesi, ha perso soltanto in finale a Wimbledon e allo US Open contro un imberbe Jimmy Connors, record entrambi imbattuti. Oppure alla continuità: in questo caso nessuno sarebbe più grande di Federer, quattro anni e mezzo al comando del ranking ATP, dal 2 febbraio 2004 al 17 agosto 2008. Se consideriamo la prolificità, dovremmo ergere a GOAT proprio Jimbo Connors e i suoi 109 tornei in 26 anni di professionismo. Potremmo introdurre il valore della dominanza, e impalmare come più grande di tutti Nadal, capace di aggiudicarsi tredici coppe dei moschettieri a Parigi, sulla cui terra rossa ha portato a casa 105 match su 108, e insieme a lui Borg, l’uomo con la più alta percentuale di incontri vinti nei 27 Slam giocati, 89,8 %, che sa di mostruoso. 

Ma stiamo ancora parlando di numeri, di oggettività; se volessimo deragliare nella valutazione di parametri irrazionali, “fluidi”, come lo stile, l’atteggiamento, la sportività, l’empatia, perfino il talento, ogni appassionato di tennis piazzerebbe il proprio idolo in vetta a qualsiasi classifica, a prescindere dal suo palmarès. Chi scrive troverebbe in Robertina Vinci la sua GOAT personale, qualcuno potrebbe addirittura azzardare Dolgopolov o Paire. Certo, a giudicare dall’amore del pubblico – il parametro irrazionale per antonomasia – Federer vincerebbe a mani basse ogni graduatoria di grandezza e Djokovic forse perderebbe qualche posizione, ma, per quanto significative, le dimostrazioni di affetto collettivo non aiutano a dirimere la questione, altrimenti dovremmo candidare anche Bublik e precipitare McEnroe in fondo al pozzo. 

Non sappiamo se Djokovic vincerà New York (probabile) o almeno un altro Slam (ancora più probabile), ma in ogni caso la faccenda G.O.A.T. è un labirinto in cui è meglio non inoltrarsi: ma se ci si entra, una possibile via d’uscita sta forse nel cogliere le doti dell’uomo nascoste nel tennista, le virtù impalpabili dell’anima intrecciate ai risultati sportivi, per scorgere nei modi sciocchi, sgraziati e indolenti della capra lo spirito unico del campione. Oppure limitarsi a guardare i numeri delle vittorie, come abbiamo suggerito all’inizio. In quel caso, e con ogni probabilità a prescindere dall’esito di questo US Open, sarebbe doveroso rivolgere un inchino all’indirizzo di Novak Djokovic.

Articolo a cura di Andrea Negro

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