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Wimbledon, martedì 24 giugno 1969, pomeriggio.
Un Centre Court gremito attende l’ingresso in campo dei contendenti, siamo al primo turno e l’erba del campo è ancora di un verde splendente, amichevole, rilassante.
È verde anche l’età di uno dei due protagonisti dell’ennesima storia che quel luogo magico sta per raccontare.
Charlie Pasarell ha appena compiuto 25 anni, nato a Portorico nel 1944 frequenta la UCLA insieme ad Arthur Ashe e nel 1966 viene classificato n°11 al mondo. L’anno prima di quel che sta per avvenire ha vinto il torneo NCAA.
Sui prati dell’All England Club ha già battuto gente come Santana o Rosewall e in quell’estate del 1969 è un tennista ormai solido e affermato, un combattente dal gran servizio difficile da battere per tutti, soprattutto sul veloce. Sta per entrare nella storia del tennis ma non lo sa ancora.
È però dall’altro lato del campo che si appuntano gli sguardi dei presenti quando tutto ha inizio. Bello come un dio, alto come una torre, la guancia sinistra segnata da una cicatrice e il volto scavato da 41 anni di vita sempre al limite, Ricardo Alonzo Gonzales – per tutti Pancho – ha dominato il tennis per quasi dieci anni consecutivi.
Senza che nessuno lo sapesse, perché tutto questo avveniva nella realtà parallela del circuito pro, che a partire dai tardi anni ’20 fino al 1968 affiancò il tennis ufficiale.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale tutti i più grandi, con poche eccezioni come quelle di Pietrangeli ed Emerson, attraversarono lo specchio per diventare fantasmi, scomparire dai giornali e dalle eleganti club houses dei circoli più prestigiosi e poter vivere ufficialmente del loro talento.
Lì, nella nebbia, difficilmente visibili ma riconoscibilissimi dal suono puro che la pallina faceva sulle loro corde c’erano Sedgman, Rosewall, Hoad, Laver, Segura, Trabert. E Pancho li ha battuti tutti senza pietà.
Nato a Los Angeles nel 1928 grazie al padre che aveva trasferito la famiglia dal Messico, Gonzales ebbe una vita da star hollywoodiana e adeguato numero di mogli. Ma senza il tennis si sarebbe certamente perso.
Completamente autodidatta, abbandona la scuola presto e ciò gli sbarra le porte della federazione giovanile americana, governata da quel Perry Jones che era solito dire: “…per capire se un giovane ce la può fare nel tennis lo porto sul tetto e lo butto di sotto. Se sopravvive allora ha delle possibilità”.
Gli anni dell’adolescenza lo vedono quindi abbandonato a sé stesso, lontano da scuola e da casa, dove il padre lo aspetta per punizioni sempre più frequenti.
Sarà il tennis la sua bussola, la racchetta a indicare la strada. Certo le avventure del giovane Pancho sono spesso al confine con la legalità – “You don’t know the thrill of going out the back window when someone’s coming in the front door” – ma la gran parte del suo tempo lui la spende all’Exposition di Los Angeles, un parco pubblico all’ombra del Coliseum con otto campi in cemento e un negozietto di racchette gestito da Frank Poulain, un vero amico per tutta la vita. Un rifugio sicuro dove passare la notte o nascondersi dagli ispettori scolastici.
Gonzales guarda, ripete e impara. Fisico, coordinazione e riflessi sono in dono di Dio e a vent’anni è pronto.
Vince i campionati statunitensi nel 1948 e ancora l’anno dopo in una storica finale contro la sua bestia nera Ted Schroeder. È in cima al mondo, gioca un tennis fantastico fatto di servizi tonanti e discese a rete, back di rovescio a passo di tango e riflessi felini. È come trovarsi a rete un enorme gatto con la racchetta.
In quel 1949 Jack Kramer e il mondo pro bussano alla sua porta, non è il momento giusto ma Pancho ha famiglia e bisogno di soldi, soldi che solo Jack gli può garantire.
Per settantacinquemila dollari più una percentuale sugli incassi si impegna a incontrare in un tour di oltre cento incontri il campione dei pro, ma Kramer è ancora un osso troppo duro per Pancho, che viene massacrato per 96 incontri a 27.
In quegli scontri epici il destino del perdente era l’oblio perché la formula prevedeva sempre un campione sfidato dal migliore dei cosiddetti amateurs.
La fredda logica del tennis professionistico lo stritola
Sono anni duri per il nostro, sperpera in fretta i soldi guadagnati e si arrangia dando lezioni a star di Hollywood che in realtà lo vogliono nel loro letto. A ventitré anni sembra un uomo finito ma la bussola indica sempre la rotta giusta. Non ha mai smesso di allenarsi e l’amara esperienza del 1949 l’ha reso duro e spietato, “…always hungry and angry”. Partecipa e vince quei pochi tornei che i pro organizzano in stagione ma nulla più fino a quando Kramer lo chiama per lanciare un testa a testa contro Tony Trabert, campione di Wimbledon e Parigi nel 1955. Pancho non ha mai giocato meglio, non è mai stato più cattivo e affamato di così. Schiaccia l’avversario senza rivolgergli la parola per tutta la durata del tour, alla fine del quale il solitamente civile, manierato e gentile Trabert gli urla in faccia:
“Somebody’s going to flush you down the toilet before your life’s over–and I just might be the one to pull the handle.” [Qualcuno ti farà passare per lo scarico di un water prima o poi, e io potrei essere quello che tira la leva]
Contro Pancho era sempre così, si prendeva ogni vantaggio possibile e poco importa se questo significava influenzare arbitri e giudici con la sua magnetica personalità o spaventare l’avversario col suo ghigno selvaggio. Quando non ci riusciva erano guai.
Ecco al proposito un gustoso scambio di battute fra due dei pochi amici di Gonzales nel circo dei pro, Francisco Segura e Alex Olmedo:
Segura says laughing “In 1952 I had the day of my life and beated Gonzalez at a pro-event 6-2, 6-2, 6-2. He wouldn’t talk to me for days”.
[Segura dice ridendo “Nel 1952 ho giocato il tennis della mia vita e ho battuto Gonzalez in un evento pro per 6-2 6-2 6-2. Lui non mi ha parlato per giorni]
“Days? “I was one of his friends, and when I beat him, he wouldn’t talk to me for three months”, says 1959 Wimbledon champion Alex Olmedo.
[“Per giorni? Io ero uno dei suoi amici e quando lo battevo non mi parlava per mesi” dive il campione Wimbledon 1959 Alex Olmedo]
Così lo ritroviamo in quel pomeriggio avanzato di fine giugno, un paio di matrimoni dopo, a tener viva la sua leggenda. E ci riuscì, oh se ci riuscì!
Cinque ore e dodici minuti sull’erba sono eterni e infatti la partita dura due giorni.
Il gioco viene interrotto per oscurità non appena Pasarell conquista il secondo set per 6-1 dopo aver vinto il primo 24-22 (il tie-break non esisteva ancora…bei tempi).
È ormai buio quando Pancho torna furioso nella sua camera d’albergo, possiamo quasi vederlo trascorrere sveglio buona parte della notte, sigarette e qualche vodka per distendere i nervi e lasciar vagare i pensieri.
Improvvisamente un ricordo: Buenos Ayres, metà anni ‘50, notte fonda, un tendone da luna park ghiacciato con luci bassissime e poche persone sui gradoni di cemento. A bordo campo Tony Trabert e Jack Kramer hanno scovato un bidone e ci hanno acceso un fuoco dentro per scaldarsi mentre guardano l’incontro. Sul rettangolo Pancho e Frank Sedgman lottano per puro onore, perché quella sera l’incasso sarà magrissimo. Alla fine di una lotta selvaggia è Gonzales a prevalere 22-20 al quinto, Kramer e Trabert sono surgelati perché il fuoco si è spento da tempo.
“…E Frank era cento volte più forte di questo Pasarell” si dice, “domani vinco io”.
E domani arriva.
Il terzo set è la chiave, Gonzales parte alla battuta ma l’altro non crolla fino al trentesimo gioco, quando un doppio fallo gli è fatale. Pasarell cede d’infilata anche il quarto set. Il quinto non si può dimenticare.
Stavolta Pancho insegue nel punteggio ed è come giocare in equilibrio su una vasca di piranhas. Ma lui lo ha sempre fatto, il tennis è sempre stato il modo per sottrarsi a una vita da strada e lui con le spalle al muro si trova perfettamente a suo agio. Annulla qualcosa come sette match point, aggrappato al suo mitologico servizio, alla volée, ai refoli di vento che spingono fuori un paio di lob millimetrici di Pasarell. Charlie ha già perso quando come acqua l’ultima occasione gli scorre fra le dita. Cede di fila gli ultimi undici punti e mentre cammina verso la rete per la stretta di mano ci piace pensare che in quel triste momento abbia comunque sorriso.
Ora era certo di essere entrato nella storia.