Una contro tutte: Lindsay Davenport, l'amazzone americana lontana dai riflettori

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Una contro tutte: Lindsay Davenport, l’amazzone americana lontana dai riflettori

Dal 1975, 28 giocatrici hanno occupato la prima posizione del ranking mondiale. Ripercorriamo la storia di Lindsay Davenport

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Ognuno ha il proprio passato e la propria storia. Non c’è un modo giusto per fare di un giocatore un tennista professionista, o per diventare il migliore al mondo. Per quanto mi riguarda, so che a tutti piace dire che la mia è stata una delle storie più normali” Lindsay Davenport

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Lindsay Ann Davenport fu la rivale di Martina Hingis, l’unica giocatrice in grado di scalzarla dalla prima posizione del ranking nei suoi anni migliori, capace di disinnescare le geometrie della svizzera semplicemente giocando. Nativa di Palos Verdes come Tracy Austin, classe ‘76, l’americana è figlia di un ex pallavolista professionista e, diversamente dalle sue colleghe, non ha preso in mano la racchetta fino ai 15 anni. L’ascesa però fu repentina. Dotata di un fisico amazzonico che sfiorava il metro e 90 di altezza, fu difficile per Lindsay coniugare la mole con la necessità di scattare rapidamente nel rettangolo di gioco.

 

La storia di Lindsay piace agli appassionati perché è la storia di una ragazza normale, riservata, che amava stare nell’ombra più che sotto i riflettori come altre sue colleghe invece iniziavano a fare sin da giovani. Il suo gioco era costruito sulla solidità dei colpi, un servizio potente e un rovescio bimane spesso definitivo.

La sua prima stagione da professionista fu il 1993 – a soli due anni dal primo diritto giocato, raggiungendo nel suo primo anno la top 25 e mettendo in bacheca il suo primo titolo sulla terra di Lucerna. A livello Slam, il primo successo fu nel doppio, in coppia con la connazionale Mary Joe Fernandez, sulla superficie per lei più difficile della lenta terra rossa del Roland Garros 1996.

Fu proprio il 1996 l’anno della svolta e della consapevolezza con la vittoria alle Olimpiadi di Atlanta 1996 giocata in casa contro la spagnola Arantxa Sanchez Vicario in tre durissimi set. Quel match fu decisivo per la consapevolezza di Lindsay: da quel momento, la fiducia nel suo gioco era pressoché totale e come spesso accade, è l’aspetto mentale a diventare la vera forza di queste grandi campionesse, ciò che fa davvero la differenza.

Il triennio 1998-2000 la vide campionessa Slam una volta per anno. Il titolo più significativo, che le regalò anche la prima posizione del ranking, è stato lo US Open 1998. La stangona di Palos Verdes, al termine di un’appassionata sfida contro l’allora numero 1 del mondo, Martina Hingis, terminata 6-3 7-5, scoppiò in un pianto a dirotto: la vittoria dello Slam di casa fu l’emozione e la vittoria più bella della sua carriera. Da 16 anni, il paese a stelle e strisce aspettava la sua campionessa – non un’atleta naturalizzata, ma una americana come fu la grande Chris Evert (qui la sua storia).

Lindsay Davenport: US Open 1998. via ITHF

Il suo tennis era ordinato e penetrante, costruito sulla potenza da fondo campo; una di quelle giocatrici che, quando tutto funziona, è pressoché imbattibile ma se perde le misure del campo rischia di regala vittorie a colleghe meno quotate. I problemi a un ginocchio la costrinsero, nel 2001, a fermarsi per sottoporsi alla ricostruzione della cartilagine. Il rientro fu lento e dovette aspettare il 2004 per riprendersi la vetta del ranking grazie alla conquista di 7 tornei nell’anno – ma nessuno Slam alla fine della stagione: dall’ottobre 2004 all’agosto 2005 per 44 settimane consecutive, è lei la tennista da battere.

I frequenti infortuni e la gravidanza obbligano Lindsay allo stop tra il 2006 e il luglio 2007. Intanto, una nuova generazione di future campionesse si è affacciata al circuito: le sorelle Williams, Kim Clijster, Jennifer Capriati, Justine Henin, Maria Sharapova non erano certo avversarie di poco valore. Pochi mesi dopo il rientro, i problemi al ginocchio destro condizionarono le prestazioni dell’ormai ex 1 numero del mondo che, poco prima dell’Australian Open 2009 appendeva la racchetta al chiodo a seguito della scoperta della sua seconda gravidanza.

In bacheca 55 titoli WTA, il titolo di Maestra 1999 e l’oro alle Olimpiadi. Ma non solo. La prima posizione del ranking anche nella specialità di doppio con 38 titoli tra cui 3 titoli Slam: il Roland Garros 1996 con la connazionale Mary Joe Fernandez, lo US Open 1997 con la ceca Jana Novotna e Wimbledon 1999, in coppia con l’americana Corina Morariu.

Insieme a Chris Evert, Martina Navratilova e Steffi Graf condivide anche un altro record: solo loro 4, dal 1975 hanno chiuso almeno 4 stagioni da numero 1 del mondo.

SCONFITTE SUBITE DA LINDSAY DAVENPORT DA NUMERO 1 DEL MONDO

1998S. Graf – DAVENPORT4-6 6-3 6-4Philadelphia
1998M. Hingis – DAVENPORT7-5 6-4 4-6 6-2WTA Finals
1999A. Mauresmo – DAVENPORT4-6 7-5 7-5AUS Open
1999A. Coetzer – DAVENPORT2-6 6-4 6-3Tokyo
1999V. Williams – DAVENPORT6-4 7-5San Diego
2000G. Casoni – DAVENPORTNDRoma
2005S. Stosur – DAVENPORTNDSydney
2005S. Williams – DAVENPORT2-6 6-3 6-0AUS Open
2005M. Sharapova – DAVENPORT6-1 3-6 7-6Tokyo
2005K. Clijsters – DAVENPORT6-4 4-6 6-2Indian Wells
2005J. Henin – DAVENPORT3-6 6-3 1-0 RITCharleston
2005M. Pierce – DAVENPORT6-3 6-2Roland Garros
2005V. Williams – DAVENPORT4-6 7-6 9-7Wimbledon
2005A. Groenefeld – DAVENPORT5-0 RITStanford
2005E. Dementieva – DAVENPORT6-1 3-6 7-6US Open
2006J. Henin – DAVENPORT2-6 6-2 6-3AUS Open

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WTA Miami: Rybakina batte Pegula in due set e mette nel mirino il Sunshine Double

La kazaka regola l’americana in due set pur senza brillare: è finale. Attende la vincente di Kvitova-Cirstea

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Elena Rybakina - WTA Miami 2023 (Twitter @wta)
Elena Rybakina - WTA Miami 2023 (Twitter @wta)

[7] E. Rybakina b. [3] J. Pegula 7-6(3) 6-4

Arriva in finale da testa di serie numero 7, ma probabilmente il suo valore attuale è ben superiore. Elena Rybakina si conferma la tennista più in forma del circuito WTA; dopo aver vinto Indian Wells, arriva in finale anche al Miami Open e può mettere nel mirino il Sunshine Double. Nella notte italiana ha sconfitto pur senza brillare l’americana Jessica Pegula in due set, 7-6(3) 6-4 in un’ora e 54 minuti, conquistando la sua tredicesima vittoria consecutiva (se non si conta il forfait di Dubai) in un match caratterizzato dalle interruzioni per pioggia ormai consuete in questa settimana di Miami. Attende in finale la vincente del duello Kvitova-Cirstea, che si giocherà venerdì, con il vantaggio di un giorno di riposo in più. Cogliesse il titolo a Miami, salirebbe al numero 6 del ranking WTA e al numero uno della WTA Race. Semplice conseguenza, quest’ultima, di una prima parte di 2023 quasi perfetta.

 

Primo set: Pegula serve due volte per il set ma non chiude

Il primo set è una battaglia senza esclusione di colpi e lo si capisce fin dal primo game, durato 19 punti e finito con il break di Pegula. Jessica ha un demerito: si trova per ben tre volte avanti di un break, ma non riesce a capitalizzare le occasioni create dilapidando i vantaggi accumulati, e sarà una costante per tutta la partita. In particolare, serve due volte per il set, avanti 5-4 e 6-5, ma si fa controbrekkare e alla fine il tie-break dà ragione a Elena al primo set point. Rybakina migliora il suo perfetto record nei tie-break del 2023: sette vittorie, zero sconfitte. Dopo la conclusione del primo set, c’è la seconda sospensione per pioggia della partita (la prima era stata poc’anzi, sul 2-2 nel tie-break).

Secondo set: aumentano i rimpianti per Pegula

Anche nel secondo set, per Jessica ci sono tanti rimpianti, perché si trova per due volte avanti di un break. In particolare, l’americana salva tre palle break nel primo gioco dopo l’interruzione per pioggia e poi fa lei il break, scappando sul 3-0. Rybakina controbreakka ma Pegula va nuovamente avanti di un break salendo 4-2. Da lì per Jessica si spegne la luce e la kazaka schiaccia l’acceleratore, infilando una serie di quattro game consecutivi. Elena chiude il match con 11 ace: è la prima donna da Serena Williams a Wimbledon 2016 capace di mettere a segno almeno dieci ace in cinque partite dello stesso torneo.

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Robin Haase: “Il livello complessivo si è alzato, ma i top 15 sono meno forti”

L’olandese Robin Haase, ex n. 33 ATP, fa paragoni tra il presente e i suoi primi anni nel Tour, parlando anche di stili e superfici. E suggerisce qualche nuova regola perché “il tennis dev’essere più veloce”

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Robin Haase - Sofia 2019 (foto Ivan Mrankov)

Classe 1987, Robin Haase ha raggiunto il 33° posto nel ranking nel 2012. Numero 3 del mondo da junior, due operazioni al ginocchio durante i primi anni di professionismo non hanno certo aiutato l’ascesa di questo olandese che rientra tra coloro che danno l’impressione di giocare meglio a tennis di quanto non dica la classifica. A una settimana dal trentaseiesimo compleanno, Robin ha parlato con Clay del futuro non solo suo bensì soprattutto del tennis, della necessità di renderlo più veloce, del livello attuale paragonato a quello di dieci anni fa, delle superfici e di altro ancora.

Forse doppio e coaching, ma con moderazione

Con il ranking sceso al n. 269, ora frequenta principalmente il circuito Challenger. Lo scorso gennaio ad Adelaide 2 è però arrivata una vittoria ATP rocambolesca non solo e non tanto per il 7-6 al terzo con match point annullato, quanto per come era arrivato a disputare quell’incontro. L’intenzione, a ogni modo, è di giocare in singolare il più possibile, per poi decidere se dedicarsi solo al doppio. Dopo diciotto anni, “non mi vedo ancora per molto tempo nel circuito” spiega. “Però dipende. Se hai un compagno e siete almeno in top 20 potendo giocare solo 18 tornei a stagione, ok. Ma devi trovare un compare che sia d’accordo”. Per ora ha ripreso il sodalizio con il connazionale Matwe Middelkoop, 14a coppia della Race. È anche un coach certificato e occasionalmente aiuta i giovani olandesi che “sono contenti quando dico loro qualcosa su cui lavorare”. Occasionalmente è la parte facile. “Ma il secondo giorno, il terzo, il giorno 245, cosa dici? Quella parte del coaching è sottostimata dai tennisti”. E, a proposito di parti, quella dei viaggi ogni settimana è da escludere. “Magari un part-time, come la Coppa Davis”.

Tiro dentro vs tiro forte: da dove si comincia?

Un’altra osservazione interessante è la differenza tra la sua generazione e quella attuale. “Noi abbiamo prima imparato a tenere in campo la palla, poi a colpire sempre più forte. Oggi i tennisti crescono tirando più forte possibile, poi iniziano a imparare a non commettere troppi errori. Anche le superfici sono cambiate negli ultimi vent’anni. Ora non importa se duro, terra o erba perché è ancora un po’ diverso il modo di muoversi, ma i rimbalzi sono sinili, quindi non ci sono più specialisti. Non molti che fanno servizio e volée o veri attaccanti né terraioli. Giochi più o meno allo stesso modo dappertutto. C’era più varietà, ma i più giovani stanno aggiungendo cose. Diventano più pericolosi e il loro gioco si sta evolvendo”.

 

Siamo qui per il tennis o per divertirci?

Sorprende un po’ vederlo allineato a quelle affermazioni estemporanee di Jessica Pegula e Frances Tiafoe, secondo i quali sarebbe incomprensibile dover starsene zitti durante quei pochi secondi di ogni scambio e non poter continuamente lasciare il proprio posto e tornarci facendo alzare tutta la fila – neanche fossero al cinema. Per Robin, in modo simile, è inconcepibile dover aspettare dieci minuti prima di poter accedere allo stadio. “Entra e siediti” è la sua soluzione. “Magari con qualche eccezione, tipo le prime file. Se comprassi un biglietto e dovessi aspettare dieci minuti, direi, ‘ma che è sta roba?”’. Una considerazione che rientra nel più ampio discorso secondo cui “nel tennis, l’unico divertimento è lo sport. Non c’è granché oltre quello. Niente musica, niente altro per la gente”. Qualcuno potrebbe obiettare che a volte, di musica, ce n’è anche troppa e di pessima qualità, ma è un’opinione (la qualità, la quantità è un dato oggettivo). Il tutto partendo dalla tecnologia delle chiamate elettroniche, con il sistema originale che incontra i favori del nostro: “Hawk-eye era molto divertente. I tennisti potevano chiedere il challenge e alla gente piaceva. Ora non c’è più interazione con il pubblico”. Qui sarebbe stata perfetta una citazione del tipo, “il progresso andava forse bene una volta, ma è durato troppo” (legge di Ogden Nash), ma Haase è una personcina seria. In definitiva, l’idea è che “le regole devono cambiare”. Quali regole?

L’inafferrabile concetto del let in battuta

“Non ha alcun senso il let sul servizio. L’unica argomentazione a favore è la tradizione, mentre quelle contrarie sono molto migliori” e fa l’esempio della pallavolo prima di analizzare le obiezioni. “Se tiro una bella battuta che sarebbe ace ma tocca appena il nastro, devo rigiocarla – perché? Se il nastro accomoda la palla per il ribattitore, è perché ho servito male. Poi, il marchingegno costa un sacco di soldi e neppure funziona bene”. Sul costo non siamo troppo sicuri, ma poi Haase cade nella solita retorica: “E, più importante di tutti, la gente non lo capisce”. Ok, Robin, togliamolo, ma che non sia per darla vinta agli stupidi o presunti tali.

Non importa dove, purché ci si vada in fretta

Se non pensa che il tennis sia esattamente noioso, ma dovrebbe andare più veloce e, in quest’ottica, il punteggio della spettacolare vetrina under 21 attualmente in cerca di una nuova casa con cinque set ai 4 game è meglio dei noiosi tre ai 6. Il motivo è presto detto. “Adesso ai giocatori non importa tanto dei primi game. Hai vinto il primo set, 1-1 nel secondo, l’altro è 40-15, a volte pensi, ‘vabbè, quel punto non mi interessa’. Invece, dovendo arrivare a quattro, è meglio che ti giochi quel punto perché non hai tante occasioni per brekkare. Non dico di cambiare adesso, ma possiamo sperimentarlo di più”.

Per Haase, rimane intoccabile il punteggio degli Slam anche perché i numeri in termini di presenze dicono che godono di ottima salute, ma lo stesso non vale per gli ATP 250 ed è lì che si potrebbe cambiare il punteggio: “Diamo al pubblico più divertimento”.

Poche palle, diamogliene di più

Non è però che gli siano venute queste idee ora che ha più anni nel Tour alle spalle che non davanti. “Le ho da 15 anni” assicura. “A casa ho uno schema con tutti questi suggerimenti, di quando ero nel Consiglio dei Giocatori. Nei Challenger, si gioca con quattro palline. Perché mai? Se ne possono usare sei come nell’ATP, non costano più così tanto. Se giochi con quattro, si deteriorano prima e, quando le cambi, è ancora più difficile controllarle. Eppure i Challenger sono parte del Tour ATP – perché non c’è la stessa situazione?

Una volta i top erano più forti, ma…

Lo scorso anno, Toni Nadal ha avuto occasione di affermare che il Rafa 2022 avrebbe perso dal Nadal passato, per esempio quello del 2013, 2011, 2008. Lo stesso valeva per Djokovic. E il fantastico Federer 2017? Inferiore a quello di dieci anni prima. Insomma, il livello si è abbassato. Robin c’era ed perfettamente d’accordo. A metà. “Dipende dal punto di vista. Dieci anni fa, la top 20 o la top 15 erano incredibili. Poche sorprese negli ottavi degli Slam. Roddick, Hewitt, Wawrinka, Davydenko, Nishikori… Toni ha ragione, quelle top ora sono più deboli. Tuttavia, la top 100, 250 o anche 400 sono molto più forti. Il livello complessivo è più alto. Una volta era più facile vincere i Challenger. Adesso è più dura e chi li gioca può far bene nel Tour ATP”.

Collegato a questo, il fatto che solo due Slam siano stati vinti da tennisti ora nei loro vent’anni fa dubitare della forza mentale di quella generazione. Haase vuole precisare la questione: “Se entri nei primi 100, sei fortissimo mentalmente. Chi sostiene che il numero 10 non è forte di testa non ha idea di quello che dice. Vincere uno Slam è diverso, è vero. Thiem e Medvedev ci sono risuciti, anche se Djokovic e Nadal provano di essere ancora migliori degli altri, pur non dominando com’erano abituati a fare – normale per via dell’età”.

Protezione o controllo?

La chiacchierata si conclude con il cambiamento della relazione fra tennisti e media. “Più soldi sono in ballo, più alta è la pressione. I manager e i coach vogliono proteggere i giocatori. Per i manager, tenerli lontani da certe situazioni significa controllarle e di conseguenza i tennisti non sempre sanno cosa stia succedendo. Nei Paesi Bassi, qualche giornalista si occupava solo di tennis, ora anche di calcio e pallavolo e quindi non viaggia più tanto. Ci vediamo una volta all’anno, stesse domande, non c’è più relazione ed è un problema per entrambe le parti. E ci sono i social che permettono ai tennisti di comunicare con i fan”.

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Andreescu, è lesione a due legamenti della caviglia. “Ma poteva andare peggio”

La campionessa dello US Open 2019 riferisce: “Affronterò questo periodo giorno dopo giorno e tornerò presto in campo”

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Bianca Andreescu - Miami 2023 (foto Twitter @SportsHorn)

“Ho subito una lesione a due legamenti della caviglia sinistra”. Così Bianca Andreescu, dopo essersi sottoposta agli esami clinici del caso, fa luce sugli esiti del brutto infortunio rimediato al WTA di Miami. La canadese si è dovuta ritirare durante il match contro Ekaterina Alexandrova uscendo dal campo su sedia a rotelle e facendo preoccupare tutto il mondo del tennis. Un vero peccato anche perché nelle partite precedenti la campionessa US Open 2019 era apparsa in ottima forma, superando Emma Raducanu, Maria Sakkari e Sofia Kenin. “Difficile dire ora quanto tempo ci vorrà per recuperare, ma posso dire che sarebbe potuta andare peggio – dice Andreescu, che aveva affermato di aver sentito il dolore più terribile mai avvertito -. Affronterò questo periodo giorno dopo giorno, sono fiduciosa che grazie al lavoro e alla riabilitazione potrò tornare presto in campo. Il percorso è già iniziato, vi terrò aggiornati”.

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