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Per anni abbiamo assistito, noi italici appassionati della racchetta, alle sconfitte onorevoli dei nostri giocatori. Le abbiamo commentate, quasi sempre, con ecumenica tenerezza. Abbiamo, come madri amorevoli, rimboccato le coperte ai nostri eroi dopo le loro imprese, fallite. La consolazione ci è stata sorella mentre il biasimo, quello lo abbiamo riservato sempre e soltanto ai calciatori. Alle volte, dopo cinque set tirati contro i mostri stranieri (chi ricorda Cané contro Lendl a Wimbledon? chi Camporese due volte contro Becker?), ci siamo illusi che sarebbe sbocciato, dal letame della sconfitta, il fiore del talento.
Siamo giunti a chiederci cosa avesse la “razza italiana” meno di quella americana, svedese o australiana. Ci siamo persino interrogati se questo diabolico sport, fatto di nervi perennemente tesi, diventato professionistico e parossistico, così totalizzante per la vita dei giocatori, non fosse inadatto alla nostra passionalità, al nostro saper vivere sotto al sole, godendo delle sue carezze e dei suoi doni. Lazzari della Napoli del 1700, i nostri si sono cibati del talento della terra, mangiando arance dagli alberi che crescevano spontanei e perdendo partite di tennis. Perché il talento lo vedevamo nei patri campi di allenamento, ma i risultati, quelli no.
Abbiamo visto intorno alle nostre frontiere autentiche rivoluzioni e capovolgimenti dei rapporti di forza tennistica. L’Europa, che secondo Yuval Harari presto diventerà provincia di un qualche impero, si consola dominando il tennis da pochi chilometri a nord, est ed ovest dei nostri confini. Romolo Augustolo è stato sostituito da un triumvirato chiamato Federer, Djokovic e Nadal. Eppure, l’Italia declinava senza mai avere conosciuto il suo apogeo.
Abbiamo vissuto la breve Era di Fabio Fognini senza scosse e senza sorprese. Fognini, in fondo, per testa, abulia, facilità di vita e di tennis, altro non era che uno di quei lazzari mangiatori di arance. Ma dei lazzari era un principe, armato di qualcosa di talmente eccelso da non poter rimanere a lungo invischiato nell’anonimato. Un lazzaro armato anche di qualcosa di talmente sbagliato da doverci ritornare presto.
Quando Sinner si affacciò alla ribalta, dovemmo più volte controllare quale bandierina fosse collocata accanto al suo nome. Ne abbiamo a lungo dubitato. Jannik sfoggiava sì il tricolore, ma era la bandiera di una terra aspra e di confine, di montagne che non ti regalano un piede in fallo e che la mattina, se non ci si alza a fare quello che faceva il nonno di Heidi, non ti ritrovi le arance nel piatto.
Jannik poteva romanticamente ricordare il ciclista italiano degli anni ’50, uscito dalla guerra con la fame nello stomaco e le gambe ancora in movimento alla ricerca di qualcosa da mangiare. Questa è chiaramente un’esagerazione: tutti sappiamo che a casa Sinner non mancava di certo lo strudel la domenica a tavola. Ma quel ragazzo doveva e deve ancora essere diverso da tutti i nostri tennisti che per anni abbiamo educato al buonismo, all’attesa, al dargli tempo, alla fiducia, al perdono, al poteva fare di più: sino a quel “potevo fare di più” pronunciato in prima persona, “e me ne accorgo solo ora che le ossa scricchiolano e che il tennis è passato”.
Sabato, in una semifinale che nell’economia di una vita tennistica ci auguriamo conti poco, Jannik ha perso contro uno che dice di sapere odiare. Scriveva Primo Levi che non si è in grado di imparare l’odio da adulti, e se Levi aveva ragione, Holger Rune viene da montagne ancora più dure e ostiche di quelle dell’italiano: solo che in Danimarca non ce ne sono.
Non è allora l’odio che ha battuto Jannik, quando Rune portava la mano all’orecchio per provocare lui e i suoi tifosi. Non è neppure l’odio di Nole Djokovic, bombardato a 12 anni dal mondo coalizzato, che ha battuto Federer, trasformando nella sua testa quel coro “Roger! Roger!” in “Nole! Nole!”, quando ogni storia d’amore del mondo voleva un diverso finale. Non è l’odio ma non è neppure una storia d’amore, quando Jannik avrà immaginato che la finale contro Rublev fosse a un passo, e che quella finale non l’avrebbe perduta. Né una storia di pietà dopo un primo set dominato.
Allora cos’è? Se chi scrive è così bravo a pontificare, avrà pure una risposta.
E invece la risposta non c’è, Jannik, perché non c’è risposta ai grandi perché della vita, sportiva e non. La vita e lo sport ti chiudono nell’angolo dei “perché?” continuamente, come solo il pugile più asfissiante e privo di pause saprebbe fare.
Se però ci tieni Jannik, se la notte di sabato a Montecarlo non hai dormito, come non dormisti in quel quarto di Wimbledon contro Djokovic, o nelle due notti tristissime di Miami, allora mostraci le tue occhiaie, le tazze di camomilla mandate in frantumi contro le pareti dell’albergo. Poi va in campo e spacca una racchetta. Perché no?
Quando sei in quell’angolo, quando non c’è uscita. Se ci tieni tanto alle tue Head, ti presto una mia Wilson che giace inutilizzata da anni, te la porgo direttamente col manico davanti, perché tu possa impugnarla come una clava e farla diventare il ritratto in grafite del tuo non accontentarti, del tuo volere spingerti oltre.
E grida Jannik, grida. Non fa niente che ti scambiano per italiano, ci penserà il tuo accento e qualche sgrammaticatura nelle interviste a mantenere le decorose distanze. Fai sentire al tuo avversario che per te è vita o morte, e che quindi per lui sarà la seconda.
Sei a metà del guado Jannik, oramai sei in ballo e si balla fino alla fine. Hai imboccato un sentiero impegnativo. Ti abbiamo già messo nel quadretto dei nuovi Big 3, perché siamo incontentabili e nostalgici persino. Ti sei spinto troppo oltre per poter tornare indietro a mangiare arance. A te non saranno perdonate le sconfitte onorevoli, non avrai madri nelle cui braccia tornare a sera. Non ci saranno più, fuori da quel campo, titoli sulle tue sconfitte onorevoli. Ti massacreranno se tu non li massacrerai per primo.
Un grido Jannik, che risuoni nelle tue montagne. Un’eco che scateni una valanga, che scenda dalle Alpi sino a Roma, a Parigi, Londra o dove vuoi tu. Una slavina che sradichi tutti gli alberi di arance di questa terra pigra e indolente, e la renda un posto nuovo, da coltivare, dove finalmente siano sovrani il lavoro e la volontà.
Vincere nella bufera sarà meno dolce e sarà diverso da come ti sei immaginato finora. Forse non ci sono altre strade, e se ci sono, sono già state battute da altri, troppo diversi da te. Forse dovrai lasciare per strada un poco di umanità, forse delle amicizie, e non essere fiero di qualche sguardo buttato nello specchio. Se accetti di volere di più, avrai meno persone a cui raccontare le vittorie, ma più vittorie da raccontare alle persone. Se vorrai di più, vincerai.