Maria Sharapova e la sindrome dell'impostore

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Maria Sharapova e la sindrome dell’impostore

Il 37esimo compleanno della ex numero uno del mondo: il viaggio della speranza, il rapporto con il padre, il trionfo a Wimbledon e la squalifica per doping

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Maria Sharapova - Roma 2018 (foto Roberto Dell'Olivo)
 

“Avevo appena vinto il terzo torneo dello Slam della mia carriera e decisi di licenziare mio padre. Con una e-mail”

Il podcast “The Deal”, prodotto da Bloomberg e condotto da Jason Kelly e dall’ex star del baseball Alex Rodriguez, è un podcast asciutto, raccontato sottovoce, che non lascia spazio alla pancia dell’ascoltatore, concedendogli al massimo qualche battuta un po’ sbiadita e preconfezionata. I sorrisi sono infatti quelli americani, di circostanza, quella categoria di sorrisi che non vedono l’ora di spegnersi, in attesa di qualcos’altro, quella categoria di sorrisi educati ma sornioni, tipici di una persona che ha fretta e che vuole venderti qualcosa. E infatti il tema del podcast sono gli affari, il “business”, i soldi.

Maria Sharapova, che nel corso della puntata dello scorso 29 febbraio è stata appunto l’ospite d’onore di “The Deal”, non ha avuto bisogno di indossare una maschera per fare bella figura all’interno di un contesto così professionale, ovattato e un po’ freddo. Non aveva nessuna intenzione di smentire il luogo comune della diva glaciale, non aveva nessuna intenzione di scendere al compromesso di un’intervista organizzata, non aveva nessuna intenzione di dire le cose che i suoi interlocutori volevano sentirsi dire. E non l’ha fatto. Il tennis è rimasto sullo sfondo dell’intervista, diventando un pretesto per parlare di ambizioni, successi, crisi, rapporti personali e soprattutto degli obiettivi personali della sua nuova carriera da imprenditrice. 

Ci sono degli ex giocatori che sembra abbiano stampato nel cervello ogni singolo colpo di ogni singolo match della propria vita. Magari la notte sognano ancora quel passante, quel recupero impossibile, quell’interruzione per pioggia: Sharapova invece dà la sensazione opposta- ovviamente sbagliata- di non ricordarsi nemmeno un risultato delle partite della sua carriera. E’, ripetiamo, una sensazione completamente sbagliata, ma che in qualche modo contribuisce al fascino e al distacco del personaggio. Come se il mondo del tennis le fosse sempre andato un po’ stretto, come se la parentesi agonistica della sua vita fosse appunto solamente una parentesi, la parentesi decisiva ma non necessariamente quella più importante, una parentesi propedeutica al mondo e alle sfide ancora più allettanti da affrontare al di fuori del rettangolo di gioco.

LA BACHECA DI SHARAPOVA, TUTTO COMINCIO’ A WIMBLEDON

Sharapova è stata però innanzitutto una tennista straordinaria: 21 settimane totali da numero 1 del mondo (la prima volta nel 2005, l’ultima nel 2012), 36 trofei a livello WTA, 5 titoli dello Slam (Australian Open 2008, Roland Garros 2012 e 2014, Wimbledon 2004, Us Open 2006), una vittoria alle WTA Finals (2004) e una medaglia d’argento alle Olimpiadi (Londra 2012).

Sharapova è stata una tennista straordinaria ma anche molto di più: ha definitivamente lanciato il tennis in una nuova dimensione, quella del marketing, delle sponsorizzazioni milionarie (pensiamo ad esempio all’accordo con Motorola, del 2004), del giocatore che diventa brand, e tutto questo prima dell’esplosione definitiva dei social network. Per undici anni consecutivi, dal 2004 al 2015, è stata la sportiva più pagata al mondo. Il battesimo del fenomeno avvenne a Wimbledon, nel 2004, quando a soli 17 anni travolse in finale Serena Williams con il punteggio di 6-1 6-4, diventando la prima russa a trionfare ai Championships nonché la terza più giovane vincitrice di sempre del torneo di tennis più prestigioso del mondo (dopo Lottie Dod e Martina Hingis). 

Fermiamo il tempo: Il dritto di Serena Williams che finisce in rete, Sharapova che si inginocchia sul prato del Centre Court, il primo piano sull’esultanza spiritata di papà Juri, che viene subito abbracciato dal padre della rivale, Richard, per poi finalmente essere raggiunto dalla figlia. Maria si arrampica sulle tribune, e per una volta si lascia andare: forse non si rende nemmeno conto di quello che ha appena fatto, ma vede Juri felice, e per lei basta e avanza. Il ventunesimo secolo del tennis mondiale comincia probabilmente in quel momento, con una serie di immagini e di facce talmente iconiche da scavalcare i confini sportivi.

Ma che ricordo ha, Maria, di quel periodo? Sono passati ormai vent’anni: “Un mese prima avevo raggiunto i quarti al Roland Garros, i primi quarti di finale della mia carriera nei Major. Mi stavo rendendo conto di poter già essere competitiva, perfino sulla terra battuta. Dopo l’eliminazione mi spostai quindi subito a Birmingham, per uno dei tornei di preparazione sull’erba. Il giorno della finale del Roland Garros ero nella mia stanza d’albergo e in televisione stavano trasmettendo la partita: in finale erano arrivate due giocatrici russe, Anastasija Myskina e Elena Dementieva. Il trofeo del Roland Garros sarebbe stato alzato da una tennista russa e quella tennista russa non ero io: questa cosa mi faceva impazzire. Io ancora non lo sapevo- o forse semplicemente non me ne rendevo conto- ma la mia testa e la mia mentalità competitiva si stavano già preparando per vincere Wimbledon”.

IL RAPPORTO CON IL PADRE

Il padre Yuri è stata la figura chiave della prima parte della vita tennistica di Sharapova: lei non aveva ancora compiuto 7 anni quando partirono per gli Stati Uniti, alla ricerca della speranza. “Aveva solamente 700 dollari in tasca, entravamo di nascosto, scavalcando, nei circoli o in qualche campo privato di Miami, e poi mi allenavo per ore. Non ho visto mia madre per due anni, mio padre per supportarmi ha fatto qualsiasi tipo di lavoro. Poi una notte siamo partiti in pullman verso Bradenton, sempre in Florida, dove c’era la sede della IMG Academy, e abbiamo bussato alla porta della reception. Ci dissero di tornare la mattina successiva. Probabilmente ci presero per pazzi, mio padre fu molto insistente, disse che sua figlia era un talento puro e così mi fecero fare una specie di provino, in un gruppo con altri bambini della mia età. Probabilmente gli avevamo fatto pena, probabilmente volevano darci una specie di ‘contentino’, probabilmente non sapevano come liberarsi di noi. Il maestro però poi alla fine mi vide giocare, e telefonò immediatamente a Nick Bollettieri”. E Maria sorride.

Papà Yuri l’ha allenata ufficialmente fino al terzo trionfo in un torneo dello slam, a Melbourne, nel 2008, quando Maria decise di assumere un nuovo coach: “Era arrivato il momento di prendere la mia strada, era arrivato il momento della mia indipendenza”.

In fin dei conti, come ammette nel corso dell’intervista, “Mio padre è stato il mio primo allenatore, ma non l’ho scelto io”: finalmente un pizzico di ironia, finalmente una frase fuori posto, anche se dopo una piccola pausa scenica- a volte la verità e le confidenze si nascondono in mezzo alle pause- Maria rimette subito a posto il mirino delle sue parole: “Non l’ho scelto io, ma la verità è che sono stata fortunata. Sono stata fortunata perché era un bravo coach e soprattutto perché lui ha sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivato il momento della separazione. Nel mondo del tennis infatti il rapporto tra il padre-allenatore e una figlia rischia di diventare morboso, ma il nostro è stato un caso diverso: lui ha accettato la mia scelta, perché mi aveva insegnato a ragionare in quel modo. Era la decisione più saggia, era la decisione giusta al momento giusto, avevo bisogno di una svolta, avevo bisogno di crescere, e lui lo sapeva. Non ho però trovato il coraggio di dirglielo in faccia, gli ho scritto una e-mail lunga e profonda, in modo tale da mettere in ordine i miei pensieri. Mi sentivo pronta a prendere in mano la mia vita e la mia carriera, e lui doveva fare un passo indietro. Chiaramente non l’ho ‘fatto fuori’: era sempre in contatto con il mio team, era sempre la prima persona che chiamavo al termine di una partita. Telefonavo semplicemente a mio padre, non più al mio allenatore”. Sospiro di sollievo.

LA SQUALIFICA PER DOPING, IL RITIRO E LA SINDROME DELL’IMPOSTORE

La carriera di Sharapova si è conclusa ufficialmente nel 2020, poche settimane prima del lockdown, con una sconfitta al primo turno dell’Australian Open. Gli ultimi anni della sua vita sportiva furono da un lato contrassegnati da una serie di infortuni che ne logorarono definitivamente il fisico e dall’altro da una squalifica per doping nel 2016 (inizialmente di 2 anni, poi ridotta a 1 anno e 3 mesi) che ne sporcò in qualche modo l’immagine. Alcuni sponsor la abbandonarono, Nike- che la seguiva da quando aveva 11 anni- sospese temporaneamente il contratto, in attesa di fare chiarezza sulla vicenda. 

Il mondo del tennis le è sempre stato un po’ stretto, dicevamo in precedenza, e forse proprio per questo motivo quel mondo non l’ha mai veramente amata. Il brand “Sharapova” era più potente e influente del brand “WTA”, e in questi casi è normale che si crei un cortocircuito.

QUANDO MARIA SHARAPOVA CHIESE A UBALDO SCANAGATTA: “SEI SPOSATO?”

Maria, che nel 2022 è diventata mamma del piccolo Theodore, aveva già cominciato la carriera di imprenditrice ancora prima di ritirarsi, e pensiamo ad esempio alle caramelle Sugarpova. Il suo patrimonio, che si aggira intorno ai 300 milioni di dollari, continua a crescere: “C’è questa leggenda metropolitana degli ex atleti che non sono in grado di gestire il proprio patrimonio o di diventare imprenditori di successo. La verità è che invece noi abbiamo il miglior background possibile per questo tipo di attività: siamo abituati a reggere la pressione, sappiamo circondarci delle persone giuste, abbiamo imparato nel corso degli anni l’etica del lavoro quotidiano e del sacrificio, e soprattutto siamo abituati a gestire la sconfitta e il rumore degli haters”.

La ‘Sindrome dell’impostore’ è una condizione psicologica che induce a credere di non meritare i successi ottenuti. Chi soffre di sindrome dell’impostore, dunque, è convinto di aver raggiunto determinati traguardi per pura casualità o anche per errore. Questa percezione di inadeguatezza viene sperimentata non solo in ambito professionale, ma coinvolge qualunque ruolo ci si trovi a ricoprire nella vita.

Alex Rodriguez se l’era proprio preparata, era la domanda in cima al suo personale taccuino, e infatti, dopo pochi minuti: “I miei genitori erano immigrati, arrivavano dalla Repubblica Dominicana, le loro origini erano molto modeste. E hanno sempre sofferto, per certi versi trasmettendomela, della sindrome dell’impostore: è stato il mio dono, è stata la mia maledizione. Nel corso della tua carriera hai mai provato questo tipo di sensazione?”

Sharapova, nemmeno in questo caso, cede alla tentazione della commozione: “Sono sempre stata piuttosto sicura di me, ma senza esagerare. Mio padre ha tracciato una strada, io l’ho seguita: sicuramente quando ero piccola mi rendevo conto di essere diversa dalle mie coetanee. Sono arrivata negli Stati Uniti che ero davvero una bambina, il mio percorso e in generale la mia educazione sono state diverse da quelle di una ragazzina comune. Non ho mai pensato di essere una predestinata e allo stesso tempo non ho mai sofferto del fatto di essere arrivata in un altro Paese, da straniera, a caccia di una speranza. Ho vissuto quella situazione solamente come un regalo”.

E a proposito delle origini modeste della sua famiglia, Sharapova aggiunge: “La verità è che non ho mai avuto paura di tornare indietro. Sicuramente sognavo il meglio per me e per la mia famiglia, ma non sarebbe stato assolutamente un problema fallire e tornare a casa. Stavo bene con i miei genitori, ero cresciuta in un ambiente sano, erano condizioni che non mi dispiacevano. Eravamo una famiglia umile ma felice. Ero affamata, volevo crescere, ma allo stesso tempo il rientro a casa non rappresentava uno spauracchio o un incubo, secondo me è stato proprio quel tipo tranquillità che mi ha dato la forza per ottenere grandi successi”.

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