Questo articolo è stato pubblicato domenica 26 maggio sul sito di quotidiano/net nell’area tennis del QS/Quotidiano Sportivo che “copre” la pagina sportiva web de Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, testate per le quali da mezzo secolo collabora il nostro direttore Ubaldo Scanagatta
Quarantanove Roland Garros fa coprii il mio primo “Internazionali di Francia” della mia vita di giornalista per La Nazione (e stranamente anche per Tuttosport che mi ingaggiò nel corso del torneo quando Panatta era già approdato alla seconda settimana), due anni dopo il mio primo Wimbledon del 1974 (promemoria: vinto dai fidanzatini Jimmy Connors e Chris Evert), senza davvero mai immaginare che ne avrei seguito, appunto, 49 di fila con questo. Saranno 51 Wimbledon quindi più 49 Roland Garros, fanno cifra tonda: 100.
Era il 1976 e Adriano Panatta aveva appena vinto nel modo più rocambolesco gli Internazionali d’Italia. E non tanto battendo Guillermo Vilas in 4 set in finale, ma fin dal primo turno annullando 11 matchpoint a Kim Warwick, l’australiano che non riuscì a trasformarne 10 sul proprio servizio. Adriano alla fine di quel match con Warwick, da romano de Roma, non resistè a fare un po’ il gradasso: “Non ho mai pensato che avrei perso!”.
A Parigi, dopo l’exploit del Foro Italico, non mi aspettavo davvero che 16 anni dopo Nicola Pietrangeli (che avevo seguito nella tv in bianco e nero, con i commenti di Giorgio Bellani che ad ogni break restituito ripeteva “Tutto da rifare” quasi fosse Ginettaccio Bartali) Adriano avrebbe cancellato un altro matchpoint al primo turno contro Pavel Hutka, un giocatore che insieme a Roberto Lombardi avevamo incontrato in doppio al trofeo Bonfiglio, per poi vincere il suo primo, e unico, Slam.
Questa volta Adriano – lo raccontò lui stesso – il… “gradasso”lo fece prima della finale con Harold Solomon quando, incrociatolo negli spogliatoi davanti a uno specchio gli disse qualcosa di simile (versioni ne sono state raccontate più d’una): “Ma se ti guardi allo specchio accanto a me, mi dici come puoi pensare di battermi?”.
Solomon, che già era rimasto scottato dalla negativa esperienza romana con Adriano pochi giorni prima – quando si era addirittura ritirato perché pensava di essere stato derubato da giudici affetti da miopia patriottica, probabilmente influenzati da un pubblico di…italopitechi (la definizione è del maestro Gianni Clerici), non entrò in campo sereno.
Anche a Parigi, se non come a Roma, il pubblico era tutto per Adriano che davanti allo specchio una qualche ragione ce l’aveva: tanto era bello e divo da copertina lui, tanto era bruttino, piccolo e stortignaccolo lui che perfino una signora e cronista elegante come Lea Pericoli, aveva ribattezzato “il sorcio”.
Adriano vinse al tiebreak del quarto set quando sembrava aver acceso da tempo la spia rossa della benzina. Fossero andati al quinto, il “sorcio” avrebbe probabilmente vinto. Fu un trionfo, un’apoteosi e non riuscii a trattenere le lacrime per l’emozione.
Adriano nel corso del torneo aveva battuto, come già nel ’73, Bjorn Borg, campione a Parigi nei due anni precedenti, 8 partecipazioni. Le uniche due sconfitte gliele inflisse Panatta che gli prendeva il tempo su quei “topponi” liftati inventati dallo svedese, per giocargli una volta d’attacco e la volta dopo una smorzata, mandandolo in completa confusione. Perché era in grado di farlo, su quelle palle che rimbalazavano alte, sia con il dritto con l’impugnature continentale che oggi non usa più nessuno, sia con il rovescio in chop che mascherava benissimo la lunghezza, poteva cadere appena al di là dalla rete come fermarsi a pochi centimetri dalla riga di fondo …e in quel caso Adriano arrivava con la bocca sulla rete, passarlo era un’impresa improba, e se Bjorn cercava il lob Adriano era pressochè infallibile sia con lo smash che con la proverbiale “Veronica”, un nome preso a prestito da Rino Tommasi dalla tauromachia anche se con le corride non aveva nullaa che vedere e Clerici lo rimproverava sempre a Rino che tenne duro e ancora oggi le volee dorsali, spalle alla rete la gente le chiama ancora con il neologismo tommasiano.
Panatta, a differenza di Pietrangeli che aveva fatto a suo tempo il bis e disputato 4 finali parigine, non seppe ripetersi, purtroppo. E dal 1976 a oggi il digiuno di trionfi italici – in me che mi ero illuso – si è protratto e non resta che sperare in Jannik Sinner.
Ad onor del vero c’è stata Francesca Schiavone nel 2010 a interrompere il nefasto sortilegio del Roland Garros, ma gli sportivi italiani sono sempre stati maschilisti e perfino della incredibile finale del 2015 tutta italiana a New York fra Flavia Pennetta e Roberta Vinci, c’è sì rimasta bella traccia, ma senza che scoppiasse mai – come dopo il trionfo fi Jannik Sinner in Australia quest’anno – un fenomeno tipo la Sinnermania di questi tempi.
Prima, durante e dopo Panatta, imperversò Bjorn Borg, idolo delle teenagers, anche per via dei lunghi capelli biondi sulle spalle, in era subito post-Beatles&RollingStones.
Sull’erba, anche se vinse Wimbledon 5 d fila – totalizzando 11 Slam – Borg aveva in McEnroe il suo più grande rivale. Dei suoi sei trionfi parigini io vidi i primi due, ‘74 e ‘75, in tv. Quello del ‘78, dopo i successi di Panatta e, assente Bjorn, di Vilas, fu quello monstre. L’Orso svedese fece meglio di quanto non avrebbe mai fatto Rafa Nadal in 14 trionfi! Vinse il torneo senza perdere un set concedendo la miseria di 32 game nei 21 set delle sue sette vittorie a senso unico. Un game e mezzo di media a set! Un dominio pazzesco. Contribuì suo malgrado a quel record statistico il nostro Corrado Barazzutti che, giunto in semifinale, perse 60 61 60 e, frustrato più di chiunque, alla stretta di mano finale sullo Chatrier riuscì a trovare almeno la forza, non dico il sense of humour, di dirgli: “Grazie per avermi regalato quel game!”. In finale Vilas, campione uscente, venne battuto 61 61 63. Imbarazzante quasi quanto il punteggio con Barazzutti.
Tramontata precocemente a cavallo degli anni Ottanta a soli 26 anni la stella del babypensionato Borg – nauseato dal troppo tennis e dalla federazione internazionale che pretendeva che lui giocasse molto di più di quanto voleva – e spuntata a Parigi quella del diciassettenne nipotino Mats Wilander, svedesino dalla grande personalità subito palesatasi quando vinse Parigi nel 1982 battendo in un gioco di infinita pazienza Guillermo Vilas (“Io non sono Borg secondo, sono Wilander n.1”) – John McEnroe restò fortemente competitivo con tutti gli altri campioni post 1980 sul’erba e sul cemento, ma non sulla terra battuta parigina salvo che in quel suo magico 1984.
Magico perché il SuperBrat (“supermoccioso” come lo ribattezzarono i tabloid britannini) quell’anno perse soltanto 3 partite su 85. Un record non eguagliato neppure dai Fab Four, né Federer, né Nadal, né Djokovic, né Murray.
Se chiedete a SuperMac quale sia stata, delle tre, la sconfitta più dolorosa vi dirà certamente quella della finale Roland Garros 1984 con l’odiato Ivan Lendl
Delle altre due – lo ricordo a voi per ricolrdarlo a me stesso – una venne con l’indiano Amritraj il 21 agosto a Cincinnati. Un’altra nella memorabile finale di Coppa Davis a Goteborg vinta dalla Svezia sugli USA dei n.1 e n.2 del mondo McEnroe e Connors, capitano Arthur Ashe, cui ebbi la ventura di assistere, con Tommasi, Clerici e Bud Collins del Globe quando il 16 dicembre Mac perse in tre set da Henrik Sundstrom.
Ma McEnroe che ha vinto 17 Slam, cui 7 in singolare, 9 in doppio, 1 in misto, avrebbe ceduto volentieri qualcuno dei 3 di Wimbledon o dei 4 US Open, pure di conquistare un Roland Garros e mai ci andò più vicino che l’anno dopo l’ultimo sorprendente trionfo di un tennista francese (seppure nato in Camerun e “scoperto” da Arths Ashe) Yannick Noah, ultimo campione anche in grado di vincere giocando sempre d’attacco – un po’ come il nostro Panatta – e senza avere né un gran dritto né tantomeno un grande rovescio. Non dimenticherò mai il salto che fece dalla prima fila della tribuna del Philippe Chatrier, papà Noah, Zacharias, ex calciatore, per buttarsi in campo e abbracciare il figlio campione.
Insomma quel 10 giugno 1984 John gioca contro Lendl che non poteva proprio soffrire – ricordo benissimo come nonostante le insistenze degli organizzatori si rifiutò di dargli un passaggio sul suo aereo privato un anno che i due si trovavano a Anversa e dovevano raggiungere entrambi Firenze per giocare una esibizione in quello che oggi si chiama PalaMandela – due set meravigliosi, forse i più stupefacenti che io abbia mai visto giocare sulla terra rossa. 6-2,6-3 e tutta una serie di tocchi così straordinari, sopraffini che Lendl, uomo robot, schiumava rabbia impotente non riuscendo a rendersi conto e forse fu proprio lì – ma non ci giurerei – che Clerici, con la sua vocina, tirò fuori quella sua indimenticabile uscita: “Se io fossi soltanto un po’ più gay, da uno che accarezza la palla così mi farei accarezzare anch’io!”.
Roba che oggi verrebbe subito denunciato a non so quante associazioni di ogni tipo e colore per non essere stato politically correct. Beh, ma allora che dire del “duo cult” che cantava, in sigla dall’Australian Open, “Bingo Bongo Bongo, sdare bene solo al Congo, non mi muovo no, no, Bingo Bango Bengo, molte scuse ma non vengo”?
Ad ogni modo pian piano, a furia di inventare tennis creativo e di attaccare ogni piè sospinto, dopo quei due set da cineteca, John cominciò a perdere lucidità, freschezza e incisività sotto rete, perse il terzo set, ebbe un sussulto d’orgoglio per portarsi avanti 2 volte di un break nel quarto set. Avanti 2-1 fa un doppio fallo sulla pallabreak e…non ci crede!Torna su, 4-2, ma sul 4-3, 40-30 sbaglia una volèe non da lui e Lendl riappariglia. Mac gioca in apnea e sbaglia ben altre volee che all’inizio. Contro quel Lendl che aveva ripreso fiducia nonostante avesse perso fin lì 4 finali di Slam, finisce per perdere il set 7-5 a seguito di un lob passante perfetto di Ivan.
Stesso 7-5 Mac subirà anche nel quinto set, dopo che John era stato avanti sul 3 pari e servizio Lendl 15-40, ma un suo passante di dritto viene stoppato dal nastro. Sarebbe stato punto sicuro e 5-3 che invece sfuma. Mac ha crisi di di nervi, aveva già dato in escandescenze perché un fotografo aveva continuato a scattare sue foto in sequenze che l’orecchio ipersensibile del Superbrat non sopporta nella tensione del momento. E proprio mentre lui stava protestando per una chiamata arbitrale sfavorevole.
Sul 6-5 per Lendl McEnroe patisce una serie di risposte possenti del ceco, va sotto 15-40, salva un matchpoint, ma non il secondo perché caccia in corridoio un’altra volee piuttosto comoda per uno come lui. Lendl esulta in modo comprensibile per tutti ma non per Mac che è sottochoc. Quattro ore e 8 minuti di tennis “monstre”, pazzesco, una delle più avvincenti finali di sempre. Niente a che vedere con quella che Wilander vince l’anno dopo su Lendl in 4 set, con gli ultimi due dominati 6-2,6-2, e tantomeno quella dell’86 a senso unico per 3 set di Lendl sullo svedese Pernfors (controfigura di James Dean) in un anno in cui mi ricordo soprattutto la sconfitta del campione in carica Wilander con il russo Chesnokov che viene in sala stampa sapando di aver vinto il premio più grosso della sua carriera ma dice bello bello:”Tanto io non vedo un rublo, lo prende tutto lo Stato, ma è comunque un giorno indimenticabile così come questo torneo…la mia camera d’albergo è più grande dell’appartamento in cui viviamo a Mosca”.
Beh, come vedete dal 1976 siamo già arrivati al 1986. Dieci anni di Roland Garros. Per i prossimi dieci, o venti, o trenta, o quaranta, o quarantanove, ci ritroviamo qui.