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Reading: “Vinto Parigi, non avevo più sogni”. I 65 anni di Yannick Noah, irripetibile funambolo di Francia
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“Vinto Parigi, non avevo più sogni”. I 65 anni di Yannick Noah, irripetibile funambolo di Francia

Da Yaoundé a Lione passando per Parigi, le tappe cruciali di una carriera straordinaria e unica

Last updated: 19/05/2025 13:43
By Danilo Gori Published 18/05/2025
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21 Min Read
Yannick Noah - Roland Garros 1983

“Perché giocavo a tennis? Semplice, era l’unico modo per incontrare le ragazze! Ho giocato a calcio e a basket e non ce n’erano in giro, con il tennis però tutto è cambiato. Durante i campionati under 14 noi ragazzi e ragazze ci accampavamo al Roland Garros nelle tende; il primo bacio l’ho dato lì, è il ricordo più bello. Dieci anni dopo ne ho ricevuto un altro, da mio padre, dopo la vittoria di Parigi: tutti i miei ricordi del Roland Garros parlano d’amore”. Il brano tratto da un’intervista per Inside Tennis sintetizza non solo il compimento di una carriera tennistica, bensì di una intera vita: quella di Yannick Noah alla personale ricerca di libertà, emozioni e serenità.

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Per pochi altri campioni dei tempi moderni del nostro sport, quello per intenderci dei premi in denaro generosi e degli sponsor munifici, il termine tennista ha indicato solo un aspetto, a tratti nemmeno il più importante, della sua personalità. Noah è stato ed è musicista e ha sempre preso molto sul serio questo impegno, così come l’engagement per Enfants de la Terre, l’associazione umanitaria creata con la madre Marie-Claire nel 1988 per i bambini in situazioni difficili; nelle sue interviste ricorrono, più che le imprese sportive, gli incontri con personalità come il Dalai Lama o Nelson Mandela. Il tennis nelle sue parole pare una delle vie percorse, un pretesto agonistico, per emozionarsi ed emozionare, per bruciare velocemente un istante di passione e partire alla volta di altri frangenti capaci di accendere entusiasmo.

Da Yaoundé a Parigi

Come è noto, il suo viaggio inizia nel 1971 a Yaoundé in Camerun, il paese di suo padre. Lì incontra per la prima volta Arthur Ashe, il nonno gli presta una racchetta per partecipare al Clinic del grande campione americano e al termine dello stesso il ragazzino di colore, magro e alto maneggia una Head Arthur Ashe Competition Racket. “Valeva come un mese di stipendio di mio padre” ricorda Noah.

Yannick, segnalato da Ashe alla Federazione Francese, torna in Francia, il paese di sua madre dove era nato nel 1960, per iniziare a giocare seriamente a tennis. Nel 1978 disputa il doppio a Wimbledon proprio con Ashe, vincendo una partita; nello stesso anno comincia a vincere anche in singolare. Nel 1980 perde contro Vilas la finale di Roma ma nel frattempo entra nella top 20.

Ivan Lendl è suo coetaneo: li lega solo l’anno di nascita, per il resto sono diversissimi e il futuro campione moravo in gioventù soffre la fisicità del francese ed esce sconfitto più di una volta nel confronto diretto. Tra tutte, l’affermazione più cara a Yannick è quella nei quarti al Roland Garros 1983.

“Ci conosciamo bene io e Ivan” – racconta Noah a Le Monde – “Lui è il ragazzo perfetto, serio, io sono il tipo olé-olé, abbiamo due stili diversissimi.  Prima di entrare in campo scopro che Connors, probabile avversario in semifinale, ha perso contro Christophe Roger-Vasselin e ho un fremito: la vera finale per me è oggi”. Noah ha due matchball nel terzo set ma Lendl li annulla addirittura scendendo a rete. E vince la frazione. “Per la prima volta” – continua Noah – “ho paura: di perdere, di dover continuare il giorno dopo perché si sta facendo sera. Quarto set, parto 0-40, se perdo il game perdo la partita. Rimonto, vinco il gioco e tutto cambia”. Noah vince con il punteggio di 7-6 6-2 5-7 6-0; poi supera Roger-Vasselin e in finale sorprende Mats Wilander, il diciottenne detentore del trofeo.

Dice Mats: “ero tranquillo, anche se non mi piacque vedere Noah superare Lendl nei quarti perché conoscevo bene Ivan e non lo temevo. Conoscevo meno Yannick: lo avevo battuto a Lisbona, ci avevo perso ad Amburgo e in Portogallo le condizioni del campo erano molto simili a quelle di Parigi. Così ero convinto di avere tutte le soluzioni per neutralizzare il suo gioco; finché non iniziò il match.

Non ricordo quando mi accorsi di non sapere come comportarmi, ma Yannick mi propose diversi problemi tattici: il suo slice di rovescio certo, ma anche il dritto, ora profondo, ora a livello delle righe del servizio. Il serve and volley costante, tutto accadeva così velocemente; pensavo non fosse ancora nato chi potesse battermi giocando in tal modo sul rosso, ma il problema era che lui non era un atleta normale. Noah era mostruoso, un superatleta. E poi aggiungiamo il pubblico, rumoroso sin da ben prima dell’inizio della finale. Ma dove siamo, in Coppa Davis?”. Noah vince 6-2 7-5 7-6 e riaccende l’entusiasmo sopito da decenni di un’intera nazione.

Yannick è dunque un superatleta: un giocatore non inquadrato nei canoni comuni del tennista-tipo. Il gioco che pratica è unico e lui se lo cuce addosso sulle sue misure: servizio potente, il rovescio è efficacissimo in back per attaccare o per allentare la pressione dei colpi dell’avversario, mentre se portato in lift, pur buono, non è altrettanto sicuro. Il dritto è invece piuttosto ruvido; dira Becker: “è difficile trovare tra i migliori al mondo un drive più sporco di quello di Noah, ma lui è bravo perché ti mette in condizione di non poterglielo far giocare”.

Per ultimo c’è il suo piatto forte, il gioco in acrobazia: nessuno ha mostrato mai nulla di simile, né prima né dopo di lui, se si eccettuano alcuni numeri del suo connazionale Gael Monfils, attivo soprattutto in copertura. Yannick scende a rete in continuazione, il duello lo esalta; nei pressi del net attacca e si difende e guai a sbagliare il lob perché se ci arriva con lo smash o con la volée dorsale la pallina schizza via e non si recupera più. Le sue possibilità atletiche sono talmente superiori che gli schiudono la facoltà di inventare o di portare al successo nuove soluzioni, come il dritto sferrato tra le gambe perdendo il campo.

Pe anni presta il nome proprio a quel colpo, sperimentato prima di lui da Guillermo Vilas, prima che si faccia strada un nuovo appellativo, iconoclasta e anonimo: tweener. Era proprio necessario?  Sì, caruccio, ma vuoi mettere colpo-Noah? Come umanizza di più il gesto atletico, come te lo lascia immaginare, con la telecamera che cerca subito dopo il sorriso da canaille del monello di Yaoundé. Pura poesia, come quando Panatta dice: “pof”.

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La crisi

“Dopo aver vinto il titolo al Roland Garros, avevo finito i sogni. Chiudevo gli occhi e mi vedevo con il trofeo e con la famiglia vicino a me; se guardo le foto di quel giorno, conosco praticamente tutti. Ogni cosa era al posto giusto e se avessi vinto New York o Melbourne non sarebbe stata la stessa cosa; non mancava proprio nulla. Avevo finito i sogni: cosa avrei potuto fare di più?”.

Lo svegliarsi e l’avvertire la vertigine di chi è arrivato troppo in alto, di chi non vede più il significato di tutto, di dove è arrivato e del perché ha intrapreso il viaggio e ha lasciato casa e affetti. Cosa si può fare per vivere sensazioni più belle e che senso ha averle vissute se si sono dileguate in una notte? La realtà riluce più di ogni immaginazione, il giorno giunge perfetto e il pieno di emozioni gli vuota l’anima. Anche il suo avversario nella finale, Mats Wilander, racconterà anni dopo di aver provato qualcosa di simile dopo la strepitosa vittoria di Flushing Meadows 1988 ai danni di Lendl; il diventare numero uno per lui sarà l’origine, quasi immediata, del declino.

Yannick non ha certo lo stesso carattere di Mats, la sua crisi è più profonda e lo devasta. La fuga da Parigi verso New York, i propositi suicidi, il desiderio di tornare a essere sé stesso e non un simbolo, un simulacro o addirittura un semidio; è il paradosso di chi sente il bisogno di avere l’attenzione generale su di sé e quando la trova avverte l’urgenza opposta di fuggirne per ritrovare la propria genuinità. Noah ricompone con pazienza la sua anima e riprende in mano la racchetta.

Sono anni di grande tennis, anche se nei major non coglie risultati nemmeno vicini al trionfo di Parigi; nel 1985 vince a Roma in finale su Mecir e nella seconda parte della stagione ritrova la top ten. Nel 1986 al Foro disputa una celebre semifinale con Lendl; dapprima domina, poi perde al tie-break del set decisivo, con il pubblico che lo osanna come fosse Panatta e Giampiero Galeazzi che dai microfoni RAI si inventa la sfida parallela Noah Apollo-Ivan Drago. A fine stagione Yannick vince la finale di Wembley fornendo una indimenticabile prestazione di tennis d’attacco, con cui supera in cinque set Jonas Svensson.

Nel 1988 vince a Milano su Connors che si ritira dopo otto game e l’anno successivo lascia la top ten, che ritroverà fugacemente nel 1990 dopo la semifinale di Melbourne. Nel 1991, l’ultimo di fatto per lui, la sua attività si dirada moltissimo. Una carriera splendida ma con l’acuto del 1983 che non viene più eguagliato, come una promessa giovanile che rimane ma che alla prova dei fatti lascia un piccolo, quasi impercettibile senso di vuoto, di mancanza. Di grandeur ridotta.

“Leconte est bon!”: 1991, rivive a Lione la leggenda dei Moschettieri

Ricorda Henri Leconte nel suo “Ma vie de gaucher”: “non ringrazierò mai abbastanza Yann per avermi rilanciato nel 1991. Dopo Wimbledon avevo giocato solo un match, ero giù di corda, venivo da un’operazione. Lui viene da me e mi dice: “Conto su di te per battere gli americani”; mi ha caricato tantissimo, ho pensato “forse posso tornare il Riton dei tempi più belli” … a Montreux in allenamento, quando facevo male non esitava a dirmelo chiaramente… è andato a fondo nella personalità di ognuno di noi… lui è un aggregatore incredibile, c’è sempre un sacco di gente che gli gira intorno”.

Henri Leconte, l’amico-rivale di una carriera: Noah amatissimo per la personalità e per il costante contrasto tra forza e fragilità, Leconte ammirato per il suo talento unico e cordialmente mal sopportato per la poca simpatia e per come non riesce ad esprimere pienamente il suo estro in campo e a tradurlo in vittorie. Henri ammette la sua gelosia dei tempi in cui entrambi giocavano il loro tennis migliore, ma anche l’affetto che gli porta. Entrambi poi hanno rivincite da cogliere e ancora qualcosa da dimostrare al loro pubblico.

A Lione nel 1991 c’è l’insalatiera da vincere contro gli Stati Uniti e Noah è capitano non giocatore; i francesi temono che la squadra sia un po’ troppo vecchia e malandata per rivincere la Coppa Davis 59 anni dopo Lacoste e compagni, così come nel 1982 si era rivelata tenera e imberbe per fare uno scherzo agli USA di Capitan Arthur Ashe e di John McEnroe. E in effetti il primo singolare tra Guy Forget e Andre Agassi è un dominio quasi incontrastato del Kid di Las Vegas, che vince 6-7(8) 6-2 6-1 6-2. Il vero momento della verità è però il secondo punto della giornata: Leconte annichilisce tennisticamente Sampras in tre set, 6-4 7-5 6-4 con una delle più incredibili performance di ogni tempo e fornisce a Noah l’informazione che voleva: da adesso in poi davvero tutto può accadere.

Il capitano teme per la precaria integrità fisica di Henri e non vuole dipendere dal suo eventuale quarto singolare; decide così di schierarlo al fianco di Forget nel doppio, il match attraverso cui passano i sogni di gloria francesi. Yannick si aspetta che Riton prosegua nel suo momento magico e trascini anche il suo compare, che ha bisogno di una scossa dopo la netta sconfitta nel match d’esordio. Sabato in campo la vicenda si svolge esattamente come previsto dall’ex campione: Leconte riprende a proporre il suo tennis irreale ma Guy non gli è da meno e mette al servizio della squadra i suoi gesti eleganti, il dritto coperto e l’insidiosissimo slice di rovescio.

Il celebrato doppio americano degli specialisti Flach e Seguso subisce le invenzioni del binomio d’oltralpe, meno rodato di quello a stelle e strisce ma infinitamente più motivato e caricato dall’entusiasmo della folla. Noah a bordo campo si agita, piange, chiede sostegno al gruppo e al pubblico, gioisce e fa il tifo, tutto questo in un prodigioso equilibrio che non gli consente mai di prendersi la scena, che è dei due mancini.

Il Palais des Sports è una bolgia, appare lo striscione “Leconte est bon!” che gioca con il nome di un TV show per ragazzi molto popolare su France 3, “Le compte est bon”. I transalpini vincono in quattro set; dopo due giorni, i padroni di casa guidano 2-1 ma la sensazione di tutti è che se gli Stati Uniti vincono il primo singolare di domenica sono nuovamente favoriti. Yannick fa affidamento al più timido dei due copain, Guy Forget, che a inizio novembre ha battuto Sampras nella finale di Bercy. La nuova e più pesante responsabilità evidentemente non schiaccia le spalle dell’aspirante moschettiere, che, forse impregnatosi della feconda incoscienza di Riton, si convince che battere Pistol Pete per due volte nel giro di un mese è possibile.

E così accade: il giovane americano cede 7-6(6) 3-6 6-3 6-4; Guy serve per il match e ribalta un 15-40 chiudendo con il dritto in cross. Il francese abbandona la racchetta e si lascia cadere e in un attimo il capitano lo raggiunge e lo rimette sulle gambe come fosse un fuscello, pronto a ricevere l’abbraccio di tutta l’equipe.

Yannick ha fatto i conti benissimo e adesso la scena è anche sua, ora i suoi meriti sono evidenti; sulle pagine di Matchball Rino Tommasi ne loda le scelte, contrapponendole a quelle di Capitan Panatta, che nel 1989 lascia in panchina Canè e Nargiso, più forti ma a suo giudizio non sufficientemente in forma, per far posto al giovane Camporese e a Massimiliano Narducci, volenteroso ma tecnicamente inadatto a sfidare gli svedesi a Malmoe. “Narducci” – scrive Tommasi – “ha giocato due partite straordinarie e le ha perse entrambe al quinto set. Leconte, giocando il suo tennis, ha surclassato Sampras. Noah ha provato a vincere, Panatta si è accontentato di perdere bene”.

Da capo a leader

Da Yaoundé a Lione, passando per Parigi: Noah è stato il capo carismatico di una generazione di grandi giocatori, depositari di un tennis esplosivo e spettacolare, divertenti, folli e… non vincenti. A ognuno dei tre eroi di Lione manca qualcosa per essere il numero uno. Così Lione diviene importante per Yannick almeno quanto Parigi: se infatti è senza dubbio il trionfo giovanile nella capitale 37 anni dopo Marcel Bernard a dargli l’immortalità tennistica e l’amore imperituro dei francesi, è nella città della Confluence che il ragazzo emotivo e discontinuo scompare e si mostra finalmente lo stratega maturo, che sa essere guida e sa mettersi al servizio della squadra, che vive le sue sensazioni ma sa dominarle, tramutandole in prezioso propellente per i suoi potes. Il capo carismatico si è fatto leader.

La domanda “Noah avrebbe potuto vincere di più nella sua carriera?” è il classico gioco senza risposta, quasi un doveroso tributo a chi ha impresso un’impronta nel tennis superiore al numero dei titoli vinti; infatti, solitamente la risposta è positiva, corredata dalle conditio sine qua non del caso: “se si fosse dedicato di più, allenato di più, distratto di meno”. Poniamo questi paletti ineludibili e immaginiamo Nastase che solleva il trofeo di Wimbledon o Adriano nostro che intercetta il passante di rovescio di Connors e poi batte Borg nella finale di Flushing Meadows 1978, non rendendoci conto di desiderare questi momenti probabilmente più degli stessi interessati, i quali sono sicuri del valore della loro legacy nel mondo dello sport.

Non rendendoci conto che per vincere di più avrebbero dovuto essere profondamente diversi da come sono, che forse si sarebbero ritirati molto prima, per non snaturarsi, per non poter più essere quello che volevano essere. Il viaggio di Noah verso la serenità è stato del tutto peculiare, dipanandosi tra allori e cadute, trionfi e angosce, alla continua ricerca delle emozioni che rendessero ogni istante della sua storia tennistica degno di essere vissuto. La sua curva ha toccato presto l’apice, da cui uno come lui non poteva che scendere, per cominciare un lungo viaggio e una lunga attesa, contraendo una cambiale nei confronti del pubblico, francese ma in fondo non solo, che ha saputo onorare quando ormai pareva che il tempo utile si fosse esaurito.

Le strade per la serenità sono molteplici, Noah ha saputo sagomare la sua sui caratteri di una personalità unica e inimitabile, da Yaoundé a Lione, passando per Parigi. Bon anniversaire, Yann.


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