“We are Italians, we are elegant naturally”
Parigi, la ville lumière, ha sempre avuto un debole per l’eleganza. È per questo, forse, che Lorenzo Musetti e il Roland Garros sembrano nati per trovarsi, come chi, per una vita intera, ha girato il mondo cercando il proprio posto, la propria superficie e alla fine la scopre proprio là dove per lui tutto era iniziato. Sulla terra rossa, quella che sporca le calze, ma nobilita il tennis.
Durante questa campagna parigina, le sue non sono mai state semplici partite. Sono passeggiate con passo da poeta, da flaneur della racchetta di baudelairiana memoria, non inteso come il più classico dei bighelloni, ma come un amante del bello, che incurante di tutto ciò che lo circonda, ha nel godimento il proprio fine ultimo. Le beau geste; non una riga fuori posto nel suo tennis, come certi completi stirati con cura. Tiafoe, l’ultimo ad essere travolto dal bello, opposto alla forza bruta, è un giocatore imprevedibile, capace di accendersi e incendiare, ma davanti a Musetti sembrava il contrario: spento, domato, forse anche sorpreso. Perché quando ti aspetti di dover rincorrere la potenza, e invece ti arrivano smorzate, tocchi vellutati e rovesci ad una mano che sembrano sussurri, perdi l’orientamento.
Musetti no. Musetti è sempre orientato. Sa dove mettere la palla, e sa soprattutto dove non metterla. Mai una scelta banale, mai una rincorsa fine a se stessa. E poi quel rovescio… ah, quel rovescio, direbbe qualcuno che del giornalismo italiano è stato storia, oltre ogni esagerazione. Se ne è parlato tanto, ma ieri, quando lo ha tirato in corsa lungo linea nel secondo set, anche il pubblico francese, che di tennis capisce, ha mandato un lungo “ooohh” che sapeva di applauso trattenuto, che poi è esploso.
Diciamolo: non c’è nel circuito un altro giocatore come lui. Non oggi. Per certi versi forse nemmeno ieri. Roger resta per il momento inarrivabile, qualcosa in comune con Gasquet, sì, ma senza quel bisogno di far vedere quanto è difficile quello che fa, senza quell’esternazione di sofferenza fisica che non appartiene al carrarino. Musetti non esibisce, gioca… e gioca bene. Gioca per il piacere di farlo bene, che è cosa diversa dal giocare per vincere, ma, sorpresa, adesso vince anche e tanto.
Lunedì sarà almeno il numero 6 del mondo. Se Djokovic perde da Zverev, sarà 5. In ogni caso, è già il suo nuovo best ranking. A 23 anni. Uno che fino a Monte Carlo, anche quanto era sotto di un set, al primo turno con Bu, veniva definito talento incostante, artista fragile, capace sì di arrivare alla semifinale di Wimbledon, ma per un’estemporaneità del momento, che no, non può durare. Ora invece eccolo lì, che scrive il suo nome accanto a quelli di Sinner e Pietrangeli, gli unici italiani capaci di arrivare in semifinale sia a Londra che al Roland Garros, ma c’è di più. Lorenzo è il primo italiano nella storia a raggiungere almeno la semifinale in tutti i grandi tornei su terra nella stessa stagione. Montecarlo, Madrid, Roma e Parigi. Solo in quattro, prima di lui, ci erano riusciti: S.A.R. della terra rossa Nadal (sei volte – 2007, 2008, 2010, 2011, 2013, 2019), Djokovic (2008), Murray (2016) e Zverev (2022). Non una cattiva compagnia di viaggio, direi.
E i numeri, che spesso dicono meno di quanto si creda, stavolta parlano chiaro. Musetti è il secondo giocatore per numero di vittorie su terra battuta nel 2025. Ne ha vinte 19, con 3 sole sconfitte. Davanti a lui solo Carlos Alcaraz, con 20 vittorie e una sola sconfitta. Dietro, Francisco Cerundolo (19 vittorie ma con 8 sconfitte), Alexander Zverev (18-6) e il nostro Flavio Cobolli (14-5), altra bella storia italiana che merita rispetto, per come è stata scritta. E poi c’è quella statistica che sembra una sfida personale lanciata al destino: al Roland Garros, quando non affronta un Top 5, Lorenzo non perde. Tredici volte su tredici ha battuto giocatori fuori dalla Top 5. Dovrebbe chiamarsi coerenza, la definirei “la coerenza del talento”.
Attenzione però: parlare di Musetti solo come di un giocatore elegante sarebbe raccontarne solo metà. Perché Musetti non è un ragazzo solo garbo e compostezza. Ogni tanto perde le staffe, esce dalle righe. Non è l’aplomb britannico, né l’algida perfezione; è umano, irregolare, a tratti spigoloso, ma è proprio questa sua non conformità a renderlo unico, anche nel tennis: cosa c’è di più inquieto ed affascinante di un ossimoro? In un’epoca di fotocopie ben riuscite, tutte rovescio a due mani e schemi in stile Novak Djokovic – solidi, programmati, efficaci – Musetti rappresenta l’eccezione, il diverso, l’anomalia. Il giocatore che osa un colpo quando non è prudente, che gioca lo slice quando tutti spingono, che accarezza la palla mentre gli altri la picchiano, eccitando telecronisti che fanno dello “spaccare la pallina” l’esaltazione del tennis: la vediamo in un altro modo. Passateci il paragone, per chi conosce e viaggia sulla A1, l’Autostrada del sole: in un mondo di direttissime, lui è la panoramica.
E forse è proprio questa la sua forza; oggi gioca come se avesse tolto un peso, come chi ha finalmente capito chi è e dove vuole andare. Lo sanno bene quelli che lo hanno visto arrancare lo scorso anno, tra partite perse male e dubbi crescenti, ma il talento, se non lo butti, alla fine viene fuori, e quando trova il giusto accompagnamento mentale, può fare cose che sembravano impensabili, stupendo realmente chi non ha quella sensibilità per capire dove quel talento, fragile per definizione, si annida.
Ora lo attende una semifinale contro Alcaraz. Un osso durissimo, in modi diversi; ma oggi, chi vorrebbe affrontare Musetti? Nessuno. Perché non sai cosa aspettarti. E perché se provi a giocargli addosso, lui si sposta, se lo attacchi, ti infila, se lo lasci giocare, ti manda a vuoto. Non ha il servizio di Sinner, né la forza di Carlitos. Lorenzo ha però qualcosa che nessuno di loro ha: quella capacità di disegnare il campo con leggerezza. Di colpire come se suonasse una nota, di trasformare uno scambio in una coreografia.
Non so fin dove riuscirà a spingersi, nessuno lo può sapere. Magari si fermerà in semifinale, magari riuscirà a superare quell’ostacolo che finora è stato invalicabile: Carlos Alcaraz, che lo ha sconfitto due volte, in finale a Monte Carlo e in semifinale a Roma; ma mentre avanzava sotto il sole di Parigi con la borsa sulle spalle e lo sguardo di chi ha siglato una tregua con le proprie inquietudini, aveva già ottenuto qualcosa che vale più di una finale. Si è guadagnato lo status di uomo da battere ed il rispetto tennistico che questo comporta: quello del pubblico, della stampa, dei colleghi. E forse, cosa ancora più preziosa, il proprio.
Ed è questo, alla fine, il traguardo che conta davvero. Il resto verrà da sé, con il talento. E la coerenza.