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Reading: Jan Kodes e quel Wimbledon dimezzato che valeva doppio
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Personaggi

Jan Kodes e quel Wimbledon dimezzato che valeva doppio

Nella biografia del giocatore boemo, vincitore a Church Road nell’anno del boicottaggio, la corsa ad handicap di un aspirante campione di tennis nell’universo Oltrecortina

Last updated: 01/07/2025 13:58
By Danilo Gori Published 30/06/2025
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21 Min Read


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“Player boycott or not, Jan Kodes’ 1973 Wimbledon triumph was for real”, ovvero “Boicottaggio o no, a Wimbledon 1973 per Jan Kodes fu vittoria vera”; così Steve Flink titola nel 2020 un suo articolo a proposito di una chiacchierata con il campione ceco che seppe farsi largo fino a sollevare la coppa di Church Road.

Sezioni
Figlio di uomo d’affariIl passaporto di LenkaWimbledon, finalmenteIl mite Jan e la vittoria dell’intelligenza

Nell’anno 1973, come sappiamo, Wimbledon visse un’edizione fortemente mutilata nel campo di partecipazione; l’ITF squalificò lo jugoslavo Nikola Pilic per il suo rifiuto di vestire la maglia della nazionale in Coppa Davis contro la Nuova Zelanda e l’associazione giocatori invitò i tennisti a non partecipare al torneo londinese. Circa ottanta di loro aderirono all’iniziativa; tra di loro Smith, Ashe, Rosewall, Newcombe, Panatta e diversi altri. Era in corso una battaglia tra le due sigle, e dal punto di vista della manifestazione a rimetterci fu appunto il livello tecnico dell’evento, e forse anche l’Albo d’Oro.

Dopo il 1969 di Laver e il 1970 di Newcombe, il nuovo decennio a Londra si aprì con un altro successo del Baffo aussie (allora per la verità dal volto ancora glabro) per poi celebrare il colpo di Stan Smith nel 1972. Nel 1973 la vittoria arride a Jan Kodes, praghese di 27 anni già due volte campione di Parigi; il futuro vincitore del torneo, sicuro numero 15 del seeding, viene catapultato dalla fuga di massa degli atleti fino alla piazza d’onore, preceduto solo da Ilie Nastase; in generale gli atleti del blocco comunista non poterono seguire le indicazioni dell’associazione, sottoposti come erano alle pressioni interne dei rispettivi paesi.

Come dice lo stesso Kodes a Flink, “io non ero membro dell’ATP; Pilic fu sospeso dall’ITF. L’Associazione Giocatori andava contro la Federazione Internazionale e io non ero d’accordo con la sospensione, ma il provvedimento fu preso dalla Federazione Yugoslava mentre Wimbledon era organizzato dall’All England Club. Che non c’entrava nulla. Quindi pensai che la decisione dell’ATP non fosse giusta”.

“A quei tempi poi volevo dimostrare” – continua – “di essere un giocatore buono per tutte le superfici, non solo per la terra rossa, e il mio exploit sull’erba a Forest Hills nel 1971 fu la prova che lo ero”. Kodes superò Newcombe, Lutz e Ashe prima di cedere in finale a Stan Smith – “persi, ma dopo quella sfida la fiducia nei miei mezzi crebbe moltissimo”. L’anno seguente Jan raggiunge le semifinali a Londra, perdendo ancora da Smith, e nel 1973, due mesi dopo il trionfo a Wimbledon, a Forest Hills supera Stan ma cede in finale a Newcombe, dopo aver condotto per due set a uno.

Kodes ha un rimpianto: “con Smith dovevo essere due set a zero ma una pessima chiamata mi tolse il tie-break del secondo set. Potevo vincere spendendo meno energie, che mi sarebbero servite contro John”. Quello che conta per il ragazzo di Praga è un’altra cosa: “in quella finale avevo la sensazione di giocare per la vetta della classifica; ho perso, quindi forse ero il numero tre o quattro. Se avessi vinto sarei stato il primo; il 1973 è stato il mio anno”.

Quando Flink gli chiede se le assenze nel campo di partecipazione lo abbiano favorito, lui risponde sicuro: “no davvero; sono passato da numero 15 a 2 del seeding, ma c’erano diversi giocatori che potevano rendermi la vita dura, nonostante tutto”.

Figlio di uomo d’affari

Nella sua biografia scritta da Peter Kolar “A journey to glory from behind the Iron Curtain” l’oggi settantanovenne campione boemo racconta il suo percorso personale soffermandosi su situazioni e contrattempi, per usare un eufemismo, del tutto peculiari nei paesi facenti parte del mondo comunista. La qualità della traduzione in inglese è definita poor dal sito “Arthurashe.ucla.edu” ma, posto che davvero sia così carente, riesce comunque a rendere l’idea delle condizioni in cui Jan ha condotto questo viaggio verso la gloria dalla parte opposta della Cortina di Ferro.

Presto, infatti, si parla di quando, nei primi anni Cinquanta, il padre Jan senior è obbligato dal partito ad abbandonare la sua professione di avvocato, per riqualificarsi come operaio saldatore. Sempre in quel periodo si racconta delle difficoltà e degli stratagemmi per mantenere uno spazio abitativo decente per una famiglia di cinque persone, (oltre ai genitori anche le due sorelle maggiori) di fronte a tentativi esterni di favorire nuclei magari meno numerosi ma più inquadrati.

Il capofamiglia, non ben visto per la sua estrazione borghese, non iscrive il figlio al gruppo dei Pionieri, ovvero l’Organizzazione dei Giovani Comunisti; Jan Jaromir, con il secondo nome che è composto dalle parole “primavera” e “pace”, è l’unico a non aderire e, nonostante i buoni voti, non viene ammesso alla scuola secondaria con una laconica motivazione: “figlio di un uomo d’affari indipendente – iscrizione respinta”. Solo dopo alcuni escamotage, tra cui l’iscrizione come apprendista in una fabbrica di motori per aeroplani, il ragazzo, inizialmente esausto per la mattinata di lavoro da non riuscire nemmeno a tenere in mano la racchetta, può riprendere gli studi e di lì a poco imporsi come speranza nazionale.

I primi viaggi e i lusinghieri risultati nei tornei under, come nella Coppa De Galea, gli consentono il passaggio da Stavnice allo Sparta Praga; il Club promette al padre un appartamento, al posto del quale tempo dopo arrivano dei soldi, non sufficienti però per l’acquisto e Mr. Kodes dovrà industriarsi da sé per comprarselo. La vera rivincita è un’altra: “chiesi che mio padre potesse ritornare alla pratica avvocatizia e dopo un certo periodo di tempo questo avvenne. Fu per me una vittoria straordinaria, un modo per pagare l’immenso debito che sentivo di avere verso di lui”.

Il ragazzo boemo inizia a diciotto anni, nel 1964, ad avvicinarsi alla dimensione internazionale del tennis affrontando i primi viaggi in Europa; a scuola è guardato con invidia per la sua attività da junior, che lo porta a viaggiare per esempio a Parigi e Londra per i tornei di categoria, probabilmente gli attirano qualche voto troppo severo. Kodes, su pressione del padre, che teme la precarietà di una carriera sportiva, si iscrive all’università; dovrà bilanciare l’attività agonistica nel periodo dei suoi successi più importanti con il cammino accademico. Jan discuterà la tesi nel 1972 e il Rettore del campus organizzerà in suo onore un ricevimento privato un anno dopo, poche settimane dopo il titolo di Wimbledon. Per il padre, dopo l’umiliazione dei Pionieri, è una rivincita personale.

Il passaporto di Lenka

Kodes vive per buona parte lontano da casa il periodo di crescente fervore popolare che domanda maggiori libertà individuali nella prima parte del 1968; il professionismo si sta affacciando nel mondo del tennis e il confronto con le autorità di Praga che lo osteggiano si manifesta apertamente, senza perdere occasioni da parte del potere centrale per denunciarne lo spirito contro-rivoluzionario.

Kodes perde al primo turno a Wimbledon, lamentando problemi all’anca, e la stampa si chiede: “non era in forma, chi si prende la responsabilità per questa sconfitta?”. A metà agosto. Kodes e i migliori tennisti cecoslovacchi, quali Kukal e Holecek, sono impegnati nel campionato a squadre nazionale; Ian non trova avversari degni della sua classe ma valuta l’opportunità politica di aderire alla competizione, perdendo però tempo prezioso per la sua maturazione.

Ogni evento sportivo viene poi interrotto dall’invasione dei carri armati sovietici tra il 20 e il 21 agosto e le speranze per maggiori libertà vengono tragicamente disattese. Quando la situazione politica si normalizza, la querelle sul professionismo riprende e la neonata Federtennis cecoslovacca impiega Kodes e gli altri in diverse competizioni nazionali, che prosciugano le forze dal numero uno locale, che deve farsi in quattro per non dispiacere le autorità del suo paese e nello stesso tempo rimanere agganciato al circuito internazionale.

Per Kodes le frizioni con l’establishment comunista si ripresentano anche dopo la vittoria del suo primo major, nel 1970 quando domina Zelijko Franulovic durante la finale di Parigi: Jan lascia solo sei game al rivale e amico yugoslavo (6-2 6-4 6-0) e la stampa di partito interviene polemizzando per la diminuzione del numero di settimane durante le quali i semi-professionisti sono a disposizione della Commissione Centrale dello Sport ed Educazione Fisica, ovvero del governo. “si può accettare questo” – si legge in un comunicato – “dopo l’esito della Primavera di Praga?”.

Il campione del Roland Garros vorrebbe dire la sua ma teme di andare oltre e di inimicarsi il potere centrale; per fare questo deve però rinunciare a disputare qualche torneo e a perdere alcune settimane di allenamento, tutte iniziative utili a raccogliere punti per migliorare la posizione in classifica in vista del fine anno.

Kolar si sofferma sull’episodio del passaporto di Lenka, moglie di Jan; Kodes riceve per fine 1970 due biglietti d’aereo pagati dallo sponsor Pepsi-Cola, per il Master di Tokyo, con lettera di invito di Jack Kramer. Non sembrano esserci particolari ostacoli ma la Commissione non concede il permesso alla moglie, che ha solo il passaporto business e non quello personale. Jan riesce ad arrivare alla personalità più alta, Mr. Kroutil, per perorare la sua causa; parla di sé e dei suoi risultati, enuncia i tornei vinti ma il permesso non arriva.

A questo punto il mite ragazzo di Praga sbotta: “lo so bene perché non la volete con me, temete che non torneremo!”. La sfida è lanciata, Janomir non si ferma: “a voi non chiedo una corona per noi, ecco i biglietti già pagati dallo sponsor!”. Gli alti burocrati lo invitano a uscire in corridoio, per “poter discutere della faccenda”.

Quando lo richiamano, il permesso di uscita dal paese è nelle mani del Commissario: “ecco qua, ciao ciao”. Ricorda il campione: “me lo diede e mi parlò come ci si rivolge a un ragazzino. La cosa buffa è che più io parlavo dei miei successi e più capivo che le loro informazioni sulla mia attività erano alquanto lacunose. In pratica ignoravano tutto”. La Commissione deve ingoiare il rospo e nonostante l’ingresso del loro migliore atleta tra i migliori del mondo, non cambia posizione.

La volontà di competere ai livelli più alti con la giusta continuità sarà sempre ostacolata dal potere centrale, per privilegiare le gare interne e preparare gli incontri di Davis (era permesso giocare il doppio con compagni stranieri ma non nei major, sempre per privilegiare l’intesa della squadra in ottica-Davis).

Pare che in tutto il paese a fine anni Sessanta esistesse un solo campo indoor; il tennis aveva vissuto un periodo di oscuramento, con riconversione dei court a favore di altri sport come la pallavolo, dopo la defezione di Jaroslav Drobny. I soldi per i viaggi non c’erano mai, persino per un campione Slam: Kodes non prese mai parte all’Australian Open.

Wimbledon, finalmente

Kodes racconta così il torneo dei tornei. “Iniziai perdendo il primo set con il giapponese Hirai, ma non mi preoccupai; ero sul Campo numero 1, il più veloce e scivoloso, lui stava giocando bene ma io ero tranquillo e vinsi in quattro. Poi passai due turni senza particolari stress (con Pietro Marzano e John Yuill) e negli ottavi incrociai l’indiano Mukerjea. Fu un bel test perché lui era un esperto del tennis sui prati; sapeva lobbare e rispondere benissimo e io ero un tantino impaurito prima di scendere in campo.

Vinsi in quattro partite e nei quarti me la dovetti vedere con un altro indiano, il diciannovenne Vijay Amritraj”. Con Vijay fu durissima: lui aveva un talento innato ed era perfettamente a suo agio sul verde. Colpiva in anticipo e la pallina finiva sempre nei pressi della linea; nel quinto set servo sul 4-5 nel set decisivo e finisco 15-30. Devo giocare una demi-volée sottorete, lo faccio ma lui la raggiunge e prova il lob; io indietreggio e alzo a mia volta un pallonetto altissimo che lui, nonostante abbia il solo in faccia, prova a colpire sopra la spalla, sbagliando completamente. Io tengo il servizio e poi glielo tolgo, per chiudere 7-5”.

Per le semifinali c’è Roger Taylor, inglese già due volte semifinalista e vincitore di Borg in cinque set. “Inutile dire” – ricorda Kodes – “che sull’erba si muoveva a memoria. Inoltre, la folla era tutta per lui; ancora una volta servo sul 4-5 nel parziale conclusivo e il giudice di sedia interrompe il match per pioggia. Non gradii ma non potevo farci nulla. Decisi che non avrei rischiato più di tanto e lo avrei sfidato a passarmi; negli spogliatoi Jaroslav Drobny mi consigliò di non cercarlo sul dritto perché mi avrebbe potuto passare con il colpo giocato in corsa. Mi disse di andare sul rovescio e così feci: finì di nuovo 7-5 per me”.

Con Metreveli, avversario in finale, Jan vanta un magro 1-5, ma il tennista boemo ha un approccio molto positivo: “Alex mi aveva battuto a Wimbledon nel 1970 (ancora 7-5 al quinto) ma io ero esperto in finali Slam avendone già vinte due (Parigi 1970 e 1971). Arrivai al Club e vidi Metreveli fare riscaldamento sul Campo numero 2; subito mi innervosii e cercai qualcuno con cui poter palleggiare. Trovai solo Vic Seixas, campione nel 1953, stanco e sudato per aver giocato i doppi delle gare tra veterani. Lo convinsi a scambiare per venti minuti e al termine mi disse: “spero di esserti stato utile, in bocca al lupo per il primo set”.

Iniziò infatti benissimo per me, Alex era nervoso, sbagliava tutto e la prima frazione fu mia per 6-1. Poi lui si riprese e nel secondo set ci furono più break; lui ebbe un setpoint sul 4-5, io gli servii al corpo e lui mancò la risposta. Arrivammo all’8-8 e mi imposi al tie-break.

Nel terzo set cercai di non pensare al punteggio e ci riuscii, fino a quando, guardai il tabellone perché una donna che gli sostava davanti fu richiamata perché stava disturbando. Mi resi conto di essere 4-2 e 40-15 sul mio servizio: mancavano solo due game! Per un attimo percepii l’ansia di essere vicino al titolo, ma scacciai i pensieri e salii 5-2; poco dopo arrivò l’ultimo errore di Alex e il 6-3 finale. Il primo pensiero fu: almeno a casa non mi sgrideranno per aver perso da Metreveli!”.

Il mite Jan e la vittoria dell’intelligenza

Giunto dopo Jaroslav Drobny e prima di Martina Navratilova (la prima ad abbracciarlo dopo il trionfo) e Ivan Lendl, Kodes, a differenza loro, non abbandonò il suo paese; era di carattere forse più mite e accondiscendente rispetto al primo e certamente meno disposto ad anteporre il sogno tennistico a tutto il resto rispetto agli altri due. Il successo londinese è stato l’ultimo a livello major per Kodes; nel 1974 ecco i quarti sempre a Wimbledon con un ottimo quinto set di fronte all’arrembante Jimmy Connors, di lì a pochi giorni suo successore a Church Road, e ancora last eight sempre con Jimbo sulla terra di Forest Hills nel 1976, di nuovo con l’americano trionfatore in finale.

In Coppa Davis nel 1975 il team perde la finale con la Svezia di Borg e come ben sappiamo vince il trofeo cinque anni dopo, a Praga con l’Italia in una finale assai contestata dagli azzurri per arbitraggi e ambiente in generale. Kodes, trentaquattrenne, fa parte della selezione ma non scende mai in campo, essendo ormai nella graduatoria ben alle spalle di Smid e Lendl.

La convinzione del campione di Praga, che lui suffraga ricordando le proprie imprese di indubbio valore assoluto di quegli anni, di essere tra i migliori e che avrebbe comunque avuto le sue chance a Wimbledon anche con un tabellone a quattro quarti di nobiltà, è a prova di dubbio, come lo è anche l’evidenza della defaillance a livello tecnico-agonistico di quella edizione della manifestazione. Siamo però sicuri, alla luce anche delle peripezie sperimentate con le autorità del suo paese nei momenti migliori della sua storia, che Jan non meritò gli epiteti allora dedicatigli di campione cheap, watered down, ovvero annacquato.

Avrebbe vinto comunque? L’unica risposta sincera è ovviamente che non si può affermare nulla di certo; troviamo quindi possano fungere da sintesi le mirabili e autorevoli parole che Rino Tommasi ebbe a scrivere su Andres Gomez, il mancino ecuadoriano vincitore di due edizioni non indimenticabili di Roma (1984) e Parigi (1990), “vincere un brutto torneo non è una colpa, semmai una dimostrazione di intelligenza”. E su questa affermazione non ci sono spazi di discussione, a queste vette non vola nessuno, con buona pace di qualsivoglia tuo detrattore, Mr. Jan Jaromir Kodes.


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