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06/12/2010 13:32 CEST - Rassegna stampa del 6-12-2010

Troicki fa l’eroe, Serbia in trionfo (Martucci). La Grande Serbia rinasce in Coppa Davis (Semeraro) La Davis fa felice la Serbia (Clerici). E’ la Grande Serbia (Valesio). Dalla guerra fino al tetto del mondo (Romano)

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Rubrica a cura di Alberto Giorni

Troicki fa l’eroe, Serbia in trionfo (Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport del 6-12-2010)

Vince la gioventù. Vince un ragazzo di 24 anni, alto 1.93 per 86 chili di potenza, uno che picchia il servizio a 200 all’ora e più, e ha un arsenale impressionante di sassate, soprattutto di rovescio, ma sa anche accarezzare la palla. Si chiama Viktor Troicki, ma i sedicimila della Beogradska Arena e la Serbia tutta lo chiamano amabilmente Viktoré, l’eroe del 3-2 sulla Francia e quindi del trionfo di coppa Davis, uno dei successi sportivi più importanti nella storia del giovane paese. Che, in tutti gli sport, sforna grandi atleti con un grande spirito. Come il leader dei neocampioni, Novak Djokovic, che strappa due punti in singolare a Simon e Monfils, e in un’indimenticabile domenica, cancella la delusione-doppio di sabato, e, sul 2-2, urla al popolo: «Vi ho chiamati e siete venuti, energici. Dovete sovrastare il tifo francese, che è incredibile, ma è di mille voci, voi siete molti di più, siete a casa. Aiutate Viktor». Troicki aveva chiuso il doppio a pezzi, dopo la rimonta da 2-0 con il veterano Zimonjic contro la volpe Clément e Llodra. Quattro ore e mezzo da incubo, marchiate dal crampo al polpaccio (quando gioca mai 5 set?), rabbia e frustrazione. Anche perché, poi, il numero 2 di Serbia, Janko Tipsarevic, aveva gettato la spugna, dopo la figuraccia di venerdì: «Non me la sento, sto giocando troppo male». E tutti avevano guardato perplessi Viktor, con la faccia mogia di sempre, forse troppo educato, sensibile e sincero, forse perché troppo protetto, da figlio unico della Belgrado bene (papà, russo, avvocato e mamma, diplomatica all’ambasciata Usa). Ma quando si è svegliato, «tardi, verso le 10», come racconta l’amico-manager Corrado Tschabushnig, «Viktor ha detto: "Sto bene, oggi si vince sicuro"». Il massimo, per l’introverso ragazzo scappato fra le bombe della guerra fino in Ungheria, ed emigrato con la mamma negli Usa, per ritransitare alla sua Stella Rossa, col maestro Trifunovic (già guida di Jankovic e Dokic), ed emigrare ancora, per necessità logistiche, ad Halle, in Germania, dove l’hanno adottato con coach Jan de Witt. L’anno scorso, è salito al numero 24 del mondo (ora è 30), e quest’anno ha vinto i primi tornei (uno in singolare e due in doppio), sempre sull’amato cemento indoor. Dove ha messo paura a Nadal, e ha battuto Tsonga, Davydenko e Cilic. Ma chi avrebbe scommesso nella partita perfetta? Chi avrebbe creduto che avrebbe tenuto di nervi nella partita decisiva della finale di Davis davanti alla sua gente? «E’ stato troppo forte, dall’inizio alla fine, ho cercato di dare il massimo, ma non è bastato», taglia corto Llodra, che si sgretola col suo servizio-volée ed esce dal campo piangendo dopo il 6-2 6-2 6-3 in 2 ore e un quarto senza storia. «Non mi hanno sorpreso i soliti 20-30 idioti che fischiano e disturbano durante il gioco, ma non mi aspettavo che Viktor fosse così bravo», chiosa il capitano francese, Forget. Bastava chiedere a Gael Monfils che, nel 2004, si vide negare agli Us Open il Grande Slam juniores proprio da Troicki. «Sono sotto shock, anche dopo l’ultimo rovescio non potevo credere che sarebbe successo, e ancora non ci credo. Chissà come mi sentirò diverso nei prossimi giorni, forse ce ne vorranno cinque per capire che l’ho davvero vinta, la Davis», dice Troicki, puntualizzando subito: «Non sono un eroe, siamo tutti eroi, io ho solo vissuto la pressione più intensa della mia vita e ho vinto davanti alla mia gente, che è il massimo».


La Grande Serbia rinasce in Coppa Davis (Stefano Semeraro, La Stampa del 6-12-2010)

La Grande Serbia è un ideale che fatica a morire. Fallito - tragicamente, ma fortunatamente - in guerra, in via di ripensamento sul piano politico e sociale, sta procedendo fieramente nello sport, storicamente un agente «dopante» efficacissimo nella costruzione o nella riedificazione di una identità nazionale contusa. La differenza è che, mentre il mito della Serbia guerresca è paradossalmente fondato su una sconfitta - contro i Turchi, a Kosovo Polje, nel 1389 -, la realtà della giovane Serbia dello sport, nata sulle ceneri fumanti della ex Jugoslavia, da oltre un decennio è lastricata di successi. Ieri l'ultimo: Novak Djokovic e Co., protetti dalla inespugnabilità tennistica della Belgrade Arena, hanno conquistato la prima, storica Coppa Davis del loro Paese. In svantaggio 2-1 contro la Francia sabato dopo il doppio, prima lo zar Djokovic, numero 3 del mondo, ha pareggiato il conto seccando Gael Monfils (6-2 6-2 6-4), poi Viktor Troicki, n. 30, ha scatenato il delirio nazionale umiliando Michael Llodra (6-2 6-2 6-3) nell'ultimo, decisivo singolare Canti, cori, taglio tribale (per scommessa) delle chiome in campo, la gioia scatenata del Presidente della Repubblica, Boris Tadic, e della sua sciarpona da tifoso, più le tre dita della triade ortodossa - Dio, zar e famiglia - sciabolate nell'aria per festeggiare un'impresa che dieci anni fa sarebbe sembrata pura follia, e che oggi è benzina sul fuoco, a volte pericoloso, del desiderio di riscatto internazionale di Belgrado. I serbi, intendiamoci, sono da sempre grandi atleti. Lo erano anche quando si battevano nei parquet o nelle piscine con la maglietta dei "plavi", degli azzurri di Jugoslavia; lo sono rimasti anche dopo lo sfaldarsi della visione unitaria di Tito, prima (fra il 1992 e il 2003) in società con i montenegrini, poi, a partire dal 2006, da soli. Nel basket sono stati campioni europei nel 2001 e mondiali l'anno seguente, nella pallavolo hanno vinto gli Europei sempre nel 2001, conquistato due bronzi continentali nel 2005 e nel 2007 e un bronzo mondiale quest'anno. Nella pallanuoto sono campioni Mondiali in carica (Roma 2009), dopo aver raccolto un oro e un argento agli Europei, rispettivamente nel 2006 e nel 2008. Nel 2010, sia nel sestetto ideale dei Mondiali di pallavolo sia nel quintetto di quelli di basket, ha figurato un atleta serbo: il leggendario Nikola Grbic, miglior palleggiatore del campionato, e Milos Teodosic, guardia della Nazionale e dell'Olimpiakos Pireo. Due anni fa, ai Giochi di Pechino, Milorad Cavic fu l'unico capace di mettere paura in piscina al fenomeno Phelps, sfregiandogli di dubbi l'oro in un millimetrico arrivo sui 100 metri farfalla (in cui molti, ma non i giudici, videro l'americano battuto). Di calciatori nati a Belgrado e dintorni, da Mihajlovic a Stankovic, sono farciti da decenni i campi di calcio di tutta Europa. Nel tennis, invece, i serbi sono splendidi parvenu. Prima dell'avvento di Monica Seles - numero 1 del mondo nel '91 e vincitrice di 9 Slam - e dei più modesti exploit di Slobodan Zivojinovic, gli unici gesti bianchi di valore provenienti dai Balcani erano quelli esibiti a Nord, dalle parti di Spalato e Zagabria. L'esempio della streghetta di Novisad, diventata ricca e famosa chez Bollettieri, in Florida, ha però sdoganato il tennis come nuova frontiera. Allenandosi su piscine svuotate e con palline sgonfie, schivando le granate della guerra civile o traslocandosi in patrie adottive meno problematiche, negli ultimi anni i serbi hanno prodotto altre due number one, Ana Ivanovic e Jelena Jankovic, poi il più serio rivale di Federer e Nadal, cioè Novak Djokovic, inoltre un n. 1 di doppio, Nenad Zimonjic, e altri comprimari di valore come Janko Tipsarevic e Viktor Troicki. Il merito della prodigiosa escalation tennistica di un Paese di appena 10 milioni di abitanti, secondo la Seles, va attribuito «agli ottimi coach, e soprattutto a una straordinaria forza mentale», concetti facilmente estendibili ad altre discipline. «Avete in casa un ragazzo d'oro, lo sapevate?», è la domanda che Jelena Gencic ha rivolto a 15 anni di distanza prima alla famiglia Seles, poi ai signori Djokovic, ristoratori in Kapaonik. Oggi la famiglia di Nole è proprietaria di un torneo, il Serbian Open, e di una tennis academy in partnership con il colosso di management Img, per un totale di circa 13 milioni di euro di investimenti. Una vittoria della forza mentale, della tradizionale capacità di sacrificio, dell' efficientissimo carburante sociale che sa produrre il nucleo famigliare serbo. «Lo dice la nostra storia - ha spiegato più volte Djokovic -. La famiglia è la cosa più importante, quella che non devi mai tradire». Aggiungete una estrema, a tratti furiosa, necessità di recuperare la credibilità internazionale uscita a brandelli dalla Guerra. Una voglia di rivincita che si è spontaneamente canalizzata nello sport. Del resto fu su un campo da calcio, nella famosa partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado, il 13 maggio 1990, che scoccò la scintilla del massacro. È stato su un campo da basket, ai Mondiali del 2001, tre anni dopo i bombardamenti Nato, che la Serbia celebrò una delle prime palingenesi nazionali, umiliando nei quarti i maestri americani. «Non potete immaginare quanto sia felice la nostra gente - disse allora Predrag Stojakovic, ala di quella squadra -. In Serbia si sono alzati alle 3 di notte per vedere questa partita, l'abbiamo vinta per loro». Il lato oscuro di questa saldatura tra nazionalismo e sport sono i sanguinari ultrà serbi del calcio, i seguaci della Tigre Arkan, Ivan il Terribile e compagni, che due mesi fa assediarono Marassi. Qualche intemperanza c’è stata anche ieri: «C’erano 30 o 40idioti tra il pubblico che ci fischiavano sempre - si è lamentato Guy Forget, capitano della Francia -. Giocare così è impossibile». Il côté più soft dei serbi è invece la capacità di integrare "i parenti" delle altre repubbliche nel progetto della Grande Serbia sportiva. Belgrado l'anno scorso ha emanato una legge che consente a tutti i cittadini nati nella ex Jugoslavia di richiedere il passaporto serbo, a patto di giurare fedeltà alla Repubblica. E ieri in campo contro la Francia, rapato a fine match, c'era anche Niki Pilic, nato a Spalato, vincitore (come tecnico) di una Davis con la Germania e di una con la Croazia (nel 2005), ma da tre anni consigliere del capitano serbo Obradovic. Una Coppa, in fondo, val bene una messa.


La Davis fa felice la Serbia (Gianni Clerici, La Repubblica del 6-12-2010)

La Serbia si è dunque ripresa dallo uno a due di sabato, ed è riuscita a ribaltare il risultato. I tennisti hanno così infuocato non solo il Palazzo del Sport, ma la città di Belgrado, e addirittura il paese. Per quel niente che mi riguarda, quando sono testimone, minore, indiretto, non so far altro che assumere un angolo visivo diciamo così storico. Penso allora al mio caro Dwight Davis, quello che diede il nome alla Coppa in collaborazione con il Dottor James Dwight, il padre della patria tennistica americana. Cosa gli sarà parso dalla sua nuvoletta, ripensando alla nativa intenzione, quelle di sfidare gli inventori del Lawn Tennis, i cugini britannici. Un incontro di club, ancor prima che tra nazioni, doveva essere. Niente di bellico, nonostante Davis fosse in seguito divenuto sottosegretario alla guerra, vedi il destino. Chissà cosa gli sarà sembrato nel vedere in campo un barbiere che radeva a zero il giovane Troicki, trionfatore dell'incontro insieme a Djokovic, che di punti, come previsto, ne ha offerti due alla Patria. I francesi, e i loro millecinquecento suiveurs in maglietta blu, si saran forse chiesti dov'era Sarkozy, in una circostanza simile. Né hanno reagito alle grida ironiche di un gruppo di tifosi colti, che si limitavano a cantilenare il nome di Waterloo, invece che scagliare petardi o racchette. Rimane il fatto che un paesino di meno di dieci milioni di abitanti abbia sconfitto la nazione tennistica europea di maggior cultura specifica, con i suoi, tra l'altro, nove successi in Davis. La vicenda è stata forse irripetibile per il duplice pentimento dei capitani, Forget e Obradovic. Entrambi hanno sostituito i Numeri Due d'avvio, Tipsarevic (49) e Simon (42) con giocatori di miglior classifica, Troicki (30) e Llodra (23). Una sostituzione, quella del serbo, si 6 dimostrata felice. L'altra, di Simon, disastrosa, anche perché, dopo quattro ore e più di drammatico doppio, Llodra doveva essere un po' stanco. Appena nata, la Serbia viene così a raggiungere le undici nazioni che già avevano inciso il nome sul bowl (mai dire insalatiera, prego) cesellato dagli argentieri bostoniani Shreve Crump e Low. Rimane l'annotazione che, dei Primi Otto presenti al Master londinese, ben quattro non si fossero degnati di partecipare, spingendo i loro paesi alla sconfitta. Nadal (Spagna battuta dalla Francia) Federer, (Svizzera battuta dal Kazakistan) Murray (Gran Bretagna battuta dalla Lituania) Roddick (Usa battuti dalla Serbia). Ultimissima annotazione. L'antica Jugoslava, che mai vinse la Davis, ci è riuscita dividendosi tra Croazia e Serbia. Ci si guardi, l'anno prossimo, dalla Slovenia.


E’ la Grande Serbia (Piero Valesio, Tuttosport del 6-12-2010)

Cari Djokovic, Zimonjic, Troicki e Tipsarevic, ce n'era proprio bisogno? Era necessario che una volta vinta la Davis e inquadrati da telecamere che avrebbero inviato le immagini dei vostri crani rasati di fresco e dei vostri volti stravolti dalla gioia, vi prendeste la briga di rivolgervi ai ventimila malcontati della Beograd Arena con il gesto delle tre dita rivolto verso il cielo? Non una cosa da poco perché quel gesto, (nel quale Djokovic si era già esibito dopo aver battuto Simon venerdì scorso) non è un gesto sportivo. E'(anche) il gesto con cui si salutano i sostenitori dell'ipernazionalismo serbo, con cui si sono saturati nei corso nei secolo che ci siamo lasciati alle spalle alcuni loschi figuri che quel periodo hanno contraddistinto. E' il gesto che indica diverse triadi e diverse appartenenze di tipo politico e religioso: e che sia retaggio (non esclusivo ma quasi) di certi tipi alla Ivan Bogdanov, l'uomo nero di Genova, è provato dal fatto che per placare Ivan e i suoi amici sempre in quella infausta serata di Marassi, Dejan Stankovic si rivolse a loro ripetutamente in quel modo. Ora: non è certo la prima volta che succede, certo; e il week end belgradese era stato, fino a quel momento, perfetto nella sua semplicità e meravigliosamente drammatico nel suo dipanarsi. Con la Serbia capace di riprendersi dopo la batosta del doppio di sabato e di rifilare un sei-set-a-zero agli attoniti Monfils e Llodra dai quali era lecito attendersi molto di più. Era stata entusiasmante la compostezzza del pubblico durante i match, divertente la rasatura cui dirigenti e giocatori si sono sottoposti dopo la vittoria: francamente non si avvertiva il bisogno dell'ingresso di quel gesto a dir poco controverso in un evento così. La Grande Serbia (un concetto di territorio secondo alcuni simboleggiato dalle tre dita) sul campo da tennis aveva lasciato spazio ad una Serbia tennisticamente grande prima di riappropriarsi del proscenio. Soprattutto con Troicki che in doppio era stato deludente e che invece ha strapazzato un Llodra timoroso, falloso e classicamente vittima dei propri interiori fantasmi. E dopo l'ultimo punto guardando cosa accadeva sul campo (dove anche Jelena Jankovic è scesa per applaudire i campioni) ti veniva da pensare: altro che morta, la Davis. Guarda che emozioni scatena, che gioia incontenibile innesca, che sofferenza profonda causa in chi ha perso. In un angolo c'è Llodra che piange come un bambino. In mezzo c'è Troicki che sale sulla sedia dell'arbitro, s'impossessa del microfono e aizza la folla. In un altro ha aperto la barberia da cui anche i dirigenti passano a farsi incalvire. Una splendida storia di sport che i serbi hanno costruito con le proprie mani. E che alla fine hanno celebrato solo con alcune dita.


Dalla guerra fino al tetto del mondo (Ivo Romano, L’Unità del 6-12-2010)

Dicono che tutto sia nato lì. A Kopaonik, la più importante stazione sciistica serba. Dalla capitale, c'è da scendere verso sud per chilometri, attraversare il conteso confine col Kosovo, inerpicarsi lungo i tornanti che conducono al regno della neve di Serbia. Chi ci è passato di recente dice che non se la passa bene. Ha vissuto tempi migliori, che presto, però, torneranno. Proprio come quei tre campi di tennis, verdi, in cemento, un tempo perfetti, ora pieni di buche e ondulazioni. A suo tempo li aveva costruiti la genex, azienda di Stato dell'ex Yugoslavia cui si deve gran parte dello sviluppo urbano di Kopaonik. Di qua i campi, in mezzo un parcheggio, di là il ristorante Red Bull, di proprietà di Srdjan e Dijana Djokovic, genitori di Novak, detto Nole, ora autentico monumento del tennis serbo. Il papà era sciatore, come lo zio Goran. La mamma giocava a pallavolo, anche bene. Lui amava il calcio, era tifoso della Stella Rossa, dove ancora spera di giocare (non si sa se lo dica seriamente oppure no), un giorno, dopo aver appeso a un chiodo la racchetta. Ma scelse il tennis, per via di quei campi che poteva vedere dalla finestra di casa. Cominciò a insegnarglielo tal Jelena Gencic, che lui ancora oggi riconosce come una gran maestra. Dicono che tutto sia nato lì. E in un certo senso è vero. Ma sarebbe pure riduttivo. Perché se Novak Djokovic è l'espressione più alta, la scuola serba ha prodotto anche altro. E se ieri, in quel di Belgrado, è entrata nella storia conquistando la sua prima Coppa Davis, Djokovic ci ha messo tanto, ma altri ci hanno messo il loro. Perché la Serbia ho prodotto talenti, ma pure buoni giocatori, che ben mixati fanno una grande squadra. Due punte di diamante, una della quali è Novak Djokovic, il migliore (poi c'è Ana Ivanovic, ma si parla dell'altra metà del tennis, quello in gonnella). Non un caso che non abbia sbagliato un colpo: gli è stato negato il doppio, autentico colpo al cuore della squadra serba, scattata in avanti per due set, poi ripresa e superata dalla coppia francese. Il resto, una formalità, per Nole. Due partite vinte, prima contro Simon in avvio della tre giorni, poi contro Monfils in apertura della terza giornata, senza perdere neppure un set, come a indicare la strada ai compagni e a dar loro coraggio. Ne aveva bisogni Victor Troicki, l'uomo decisivo, quello della sfida che vale una vita. Ripescato all'ultimo momento, il giorno dopo il tracollo in doppio, a sostituire Tipsarevic e a provare a scacciare i fantasmi del giorno prima. Il capitano francese gli ha opposto Llodra, tennista d'altri tempi, tutto serve & volley, quasi a ricordargli che se era stato capace di battere Djokovic (a Parigi, un mese fa), non avrebbe potuto aver paura di lui. Invece Troicki s'è caricato il Paese sulle spalle, e scattato subito avanti sull'onda dell'entusiasmo del Palasport di Belgrado, lo ha annientato in tre set (6-2 6-2 6-4) per il 3-2 decisivo. Come a dire: siamo una squadra, non solo Nole. Suo il punto decisivo, del serbo che s'è fatto le ossa al sole della Florida, lui che se lo poteva permettere, per via del papà avvocato e della mamma economista. È andato a imparare il mestiere all'estero, ha vinto il match più importante della vita per la patria, quella delle tre dita, del simbolo del nazionalismo serbo, che spesso ci si affretta a scambiare per altro. Lui è andato negli States, gli altri sono cresciuti in patria. Djokovic prima a Kopaonik, poi a Belgrado, sui campi della federazione, mai chiusi, neppure in tempo di bombardamenti. Cadevano le bombe sulla città. I tennisti si allenavano, imperterriti, senza paura. In tanti ne hanno fatta di strada, uomini e donne. E ora, un trionfo storico. La Coppa Davis, un trofeo per il Paese intero. Dalla guerra all'apoteosi. La Serbia sul tetto del mondo.

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