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09/12/2010 10:51 CEST - Reportage

Se non uccide, fa crescere - parte 3

TENNIS - La vittoria in Coppa Davis della Serbia è il simbolo del successo di due generazioni di tennisti che hanno vissuto le sofferenze della guerra uscendone più forti. Tutta la storia del tennis serbo è fatta di orgoglio e di conflitti, di sangue e di rinascite. E' la storia di una lotta darwiniana per la realizzazione di un sogno. Alessandro Mastroluca

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L'età dell'oro del tennis serbo
«Quando eravamo jugoslavi» ha detto Zimonjic, «avevamo uno dei migliori passaporti al mondo, eravamo i benvenuti ovunque. All'improvviso, però, non eravamo più i benvenuti e tutti ci guardavano come se fossimo pazzi o assassini. E' in quel momento che realizzi che non è tutto vero quello che vedi in tv».

All'epoca Zimonjic, oggi uno dei migliori doppisti al mondo, doveva sobbarcarsi sei ore di viaggio in minivan fino a Budapest per sperare di ottenere il visto per andare a giocare all'estero, senza peraltro avere la garanzia di ottenerlo. Una pratica, quella dell'ottenimento del visto per andare all'estero, abolita in Serbia solo il 18 dicembre 2009.

«Se è vero che dalle difficoltà si esce più forti» ha commentato Jelena Gencic, «allora quel periodo è servito tanto».

Non ha certo aiutato, all'epoca, la federazione, guidata da Radoman Bozovic, venuto in conflitto con il capitano della nazionale Radmilo Armenulic che si dimette spiegando così la decisione al giornale "Vreme": «Lui era un uomo della politica, e non dello sport. Lasciando la lega dissi che sarei tornato quando lui se ne sarebbe andato via».

Hanno invece aiutato, e molto, le famiglie dei futuri campioni. Ha aiutato, e molto, Pavel Tipsarevic, papà di Janko, che gestiva un impianto sportivo con una piscina olimpionica.

«La piscina non funzionava da due anni» ha ricordato il direttore del centro, lo Jedanaesti April (11 aprile), Sead Dervisevic, «riscaldarla costava troppo e quindi nel 1992 abbiamo deciso di convertirla in...campi da tennis».

Con alcuni businessmen che lo frequentano, ricoprono il fondo con un tappeto verde (superficie che oggi non si usa più), e disegnano due campi senza le linee del corridoio: le pareti della piscina sono talmente vicine all'out che il servizio in kick e i colpi incrociati sono considerati un vantaggio disonesto e un passante in corsa mette a rischio l'incolumità di chi lo tenta.

Jelena Jankovic ancora ricorda gli allenamenti a 15 gradi sotto zero, con berretto in testa, cappotto e guanti. Oggi la sua strada provano a percorrerla 140 ragazzi che lì frequentano la scuola tennis, garantendo oltre il 90% di occupazione dei campi.

Ha aiutato, certamente, Ivan du Pasquier che ha scoperto la tredicenne Ana Ivanovic al famoso torneo Les Petits As di Tarbes, e Dan Holzmann, imprenditore svizzero che un anno dopo ha investito su Ana mezzo milione di dollari.

Hanno aiutato, e molto, Srdjan e Dijana Djokovic, genitori di Nole. Originari della cittadina di montagna di Kapaonik, gestiscono una pizzeria e danno lezioni di sci (il padre è stato uno sciatore professionista e una volta ha avuto anche ospite a cena, nella sua pizzeria, Alberto Tomba), quando nell'impianto in cui lavorano vengono costruiti tre campi da tennis. Novak, il primo di tre figli, inizia a prendere lezioni da Jelena Gencic, che ancora ricorda il primo incontro con Nole.

E' il 1993, Novak ha sei anni, e arriva con una borsa con tutto l'occorrente perfettamente in ordine, come quelle dei campioni che ammira in televisione. «C'era una racchetta, l'asciugamano, una bottiglia d'acqua, una banana, una maglietta di ricambio, polsino e cappello: allora gli ho chiesto 'ok, chi ti ha preparato la borsa, la tua mamma?'; e lui, un po' arrabbiato mi ha risposto: 'no, sono io quello che gioca a tennis'».

L'incontro cambierà la vita di entrambi. Nole capisce che quello sport è il suo destino, Jelena ispira il suo talento con le poesie di Puskin e la musica classica. Lo supporta anche durante la guerra del Kosovo del 1999, quando ogni notte per due mesi Novak si alza per andare in qualche rifugio con la mamma durante i bombardamenti alleati, in cui Jelena Gencic perderà sua sorella.

«La mattina» ricorda la Gencic, «con Novak ascoltavamo la radio per sapere dove erano previsti i bombardamenti e andavamo a giocare da un'altra parte. Se poi sentivamo gli aerei avvicinarsi, scappavamo dentro il club».

«Stavamo fuori, sul campo, tutto il giorno» racconta mamma Dijana, «e questo ci ha salvato. Non era un posto più o meno sicuro degli altri, ma se te ne stai tutto il giorno in cantina pensando che stanno per venire a bombardare casa tua diventi matto».

Srdjan sente molto quella guerra: lui e suo fratello hanno origini kosovare, di Zvecan, che nel 2009 ha dato a Novak la cittadinanza onoraria. Novak, non senza attirarsi polemiche, si è sempre dichiarato contrario all'indipendenza del Kosovo. Anche il campione di nuoto Cavcic, che era sugli spalti per la finale di Coppa Davis, lo crede: nel 2008, agli Europei di Eindhoven, è stato sospeso perché si è presentato sul podio dei 50 farfalla con una maglietta con la scritta “Kosovo is Serbia”.

La famiglia di Nole ha talmente fiducia nel suo talento, appoggia a tal punto il suo sogno da accettare che a 13 anni Novak parta per la Germania, per allenarsi con Nikki Pilic, croato e attuale consigliere del capitano di Davis serbo Boris Obradovic.

I successi di Novak non hanno spento le velleità imprenditoriali della famiglia Djokovic, proprietaria del club in cui da due anni si svolge l'ATP di Belgrado (hanno comprato la data di Amersfoort): nel bar del club c'è il vecchio forno a legna della pizzeria di Srdjan a Kapaonik.

Djokovic è sempre stato campione istrionico, dentro e fuori dal campo, attento non solo a quanto riguarda il ristretto mondo del tennis. Al di là delle qualità di showman (le imitazioni degli altri giocatori, quella di Fiorello a Roma), ci sono le doti di calciatore: tifosissimo della Stella Rossa, ha detto che alla fine della carriera vorrebbe giocare almeno una partita con la squadra del cuore, possibilmente da attaccante.

Ma ci sono anche le dichiarazioni, e i gesti, di carattere più politico, che evidenziano un forte orgoglio nazionale. C'è la polemica con l'annunciatore del Master-1000 del Canada nel 2007, che si sbaglia e lo presenta, dopo la finale, come "croato": lui se la prende, anche se dice che "in fondo croati e serbi sono uguali, sono lo stesso popolo". Anche se le lo spazio, a dir poco ridotto quando non inesistente, concesso sui giornali croati ai trionfi dei tre campioni serbi, lasciano pensare diversamente.

C'è il rifiuto di andare a giocare per la Gran Bretagna, rifiutando una proposta economicamente vantaggiosa.

C'è la polemica con un politico che l'ha accusato di vilipendio alla bandiera dopo una vittoria in un match di doppio in Coppa Davis.

«Avevamo disegnato un grande cuore sulla terra battuta e messo la bandiera dentro il cuore» racconta Djokovic. «C'erano 20 mila persone nell'arena. E' stato un gran giorno, ma qualcuno, evidentemente geloso e in cerca di visibilità, in una discussione al parlamento ha detto che la bandiera è simbolo della nostra nazione e non avrebbe dovuto essere messa per terra: ridicolo».

C'è il saluto a tre dita sfoggiato per festeggiare il recente trionfo Davis. Tre dita per tre nomi che cambiano, a seconda delle epoche: le tre C (tre S nella traslitterazione latina) del motto sloga srbina spasava, l'unità salva i serbi; Dio, patria e zar; Dio patria e famiglia; Serbia, Montenegro e Bosnia; Dio, patria e morte, nella versione dei cetnici, i fascisti serbi che combattevano per l'indipendenza e in Bosnia tagliavano anulare e mignolo ai prigionieri per condannarli a vita a salutare come il nemico.

Per un Djokovic che arriva, però, secondo Jelena Gencic "ce ne sono stati altri dieci che non hanno avuto la chance di emergere perché non avevano disponibilità sufficienti. E' qui che pecca il nostro sistema".

Un sistema in cui manca un po' la programmazione di lungo periodo. Da anni, infatti, si parla del nuovo centro tecnico nazionale da costruire: il progetto prevede cinque campi coperti e 15 all'aperto, ma costa tra gli 8 e i 9 milioni di euro. Per una federazione che ha un budget annuale di 1,5 milioni (comunque sette volte di più del 2000) è uno sforzo non da poco. Comprensibile che il presidente Zivojinovic continui a traccheggiare.

Nel 2009, comunque, i campi da tennis in Serbia erano 220 per un totale di 3.250 tesserati, il 90% dei quali teenager. In tre anni il numero dei praticanti è più che raddoppiato. Il rischio, però, è di perdere il grande appuntamento con la storia.

E all'orizzonte, a parte il promettente ma acerbo Filip Krajinovic, l'orizzonte lascia poco spazio alla speranza.

Qualunque sia stata la ragione dell'affermazione di questa generazione di serbi (la fame, la guerra, «l'uranio delle bombe che ci ha resi più forti» come ha scherzosamente detto Tipsarevic), è stato, in fondo, come ha ammesso il più celebre giornalista di tennis nazionale, Nebojsa Mandrapa, «frutto della casualità. Per questo se non cogliamo l'attimo rischiamo di perdere il tesoro che ci siamo ritrovati tra le mani».
 

Parte 1 - Le origini del tennis in Serbia

Parte 2 - Gli anni della guerra

Alessandro Mastroluca

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker