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20/12/2010 15:04 CEST - ATP - CURIOSITA'

Tennis e musica: un gioco (parte 2)

TENNIS - Seconda e ultima parte del viaggio musicale che paragona i top 10 ad altrettanti pietre miliari del rock. Oggi tocca ai primi 5 del mondo: dal punk Soderling a Murray "baronetto in cerca d'identità", dal pinkfloydiano Djokovic a...Federer e Nadal. A quali dischi assomigliano i primi due giocatori del mondo? Riccardo Nuziale

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5 – ROBIN SODERLING
SEX PISTOLS – NEVER MIND THE BOLLOCKS…HERE’S THE SEX PISTOLS (1977)

Robin is a punk rocker. Così anche il nostro commento lo sarà, essenziale e breve. Quella potenza grezza, nichilista, che non ha rispetto di nulla se non di sé stessa; quel giocatore che non sa cosa vuole ma sa come ottenerlo. Non può cadere in crisi d’identità perché, avendo una mano educata come quella di Hulk, può fare solo una cosa, buttare giù il muro a cannonate, con quei colpi ampi da circumnavigazione della schiena e l’abitudine di risolvere le cose violentando la pallina. Non che sia una sua priorità, in questo tennis sempre più potente, ma diciamolo, riesce maledettamente bene, al vichingo irriverente. Talmente irriverente da cantare la sua God Save The Queen due volte di fila: fine/interruzione di un regno e colpo di stato. Potente, tagliente ed ingenuo proprio come il gruppo di Malcolm McLaren (riposi in pace), è tuttavia ben difficile paragonare lo svedese al celeberrimo leader dei Sex Pistols, Johnny Rotten/John Lydon: se quest’ultimo è tra i più straordinari e geniali cantanti della storia del rock, soprattutto nel periodo trascorso con il suo secondo gruppo, i Public Image Limited, è improbabile che Soderling scriverà il suo nome in tornei degli Slam, gli unici che consentono di dare l’immortalità, ed è davvero dura considerarlo geniale. Ma va bene così: in fondo, la nostra scelta è stata fatta pensando a quelle due vittorie al Roland Garros (soprattutto la prima) in paragone all’effetto che fecero i Pistols sull’opinione pubblica. Seppur indirettamente, ha cambiato la storia del tennis. Ben conscio di aver attuato la sua rivoluzione, Soderling continuerà come ha sempre fatto, sguardo ben in alto (la parola paura non esiste) e fuoco distruttore.

4 – ANDY MURRAY
BEATLES – THE BEATLES (WHITE ALBUM) (1968)

Un anno e tutto è cambiato. Sembra quasi la mattina del dopo sbornia, un mal di testa allucinante. È il giorno dopo la festa dei cuori solitari, immortalata nella famosissima copertina di Peter Blake, festa in cui i Fab Four invitarono un sacco di amici. Ma tutto questo è successo appunto l’anno prima e ora non c’è più nessuno, tantomeno i Beatles: una tabula rasa, schermata bianca con giustappunto il nome, quasi a dire “torniamo subito”. Ma non sarebbero tornati. Ormai c’era solo il nome. La Summer Of Love era già finita e l’esplosione di colori di Sgt. Pepper’s (e Magical Mystery Tour, questo dalla copertina invero abominevole) lasciò lo spazio allo spaesamento totale di una band che non era più una band, ma una somma senz’anima di musicisti. La disintegrazione, umana ed artistica. Ormai Lennon, McCartney e Harrison, per motivi diversi, sentivano la necessità sempre più impellente di esplorare strade personali e, complice anche la morte per overdose del loro manager storico Brian Epstein, avvenuta nell’agosto del ’67, l’amalgama andava sempre più sfaldandosi. L’omonimo album del 1968, più diffusamente conosciuto con il nome di White Album, è la descrizione musicale di quel momento: uno degli album più geniali e inconcludenti di sempre che, nella sua ora e mezzo di durata, raccoglie gemme in anticipo coi tempi e seminali per il pop/rock dei decenni a seguire miste a palesi riempitivi e pretenziosità di dubbissima qualità; è varietà senza coesione, un album che se fosse durato la metà, o comunque mezz’ora di meno, come avrebbe voluto il sapiente produttore George Martin, accortosi subito della qualità altalenante del disco, sarebbe uno dei capolavori più straordinari di tutti i tempi. Prevalse la volontà dei Beatles del doppio album, consegnando alla storia uno straordinario zibaldone, più che uno straordinario album, il lascito forse definitivo del gruppo di Liverpool (sebbene, da un punto di vista strettamente musicale, Revolver sia probabilmente più bello) e uno dei dischi più importanti degli anni ’60.


Pensiamo a Murray, ora. Sì, ma a quale Murray? Questo è il dilemma. Da molti (questa penna in primis) considerato la vera, grande alternativa al duopolio Federer-Nadal, sicuramente il giocatore tecnicamente più dotato dopo lo svizzero (tra i top player, naturalmente), Murray ha un grandissimo problema: è tuttora un giocatore senza identità. Sei tennisti in cerca di gioco (beh, non proprio sei, però…). Chi è il vero Murray? Il tennista dal magnifico rovescio, dalla risposta più micidiale del circuito, dalla mano delicatissima, dalla grande varietà di soluzioni? O una sorta di Berasategui con software aggiornato al 2010? La risposta rimane sconosciuta, peggio del Monolite nero di 2001 Odissea nello Spazio. Non si capisce perché lo scozzese insista nel suo gioco attendista, dal momento che con i giocatori più forti non basta (e quest’anno qualche volta i bravi Roger e Rafa gliel’hanno ricordato) e, nelle giornate peggiori, non basta con nessuno (vedasi Us Open). Murray sembra una Ferrari che va sempre con la stessa marcia, non importa quali siano avversario, superficie, condizioni meteo, torneo, ecc.: a volte sembra non essere capace altro che giocare la sua interminabile ragnatela passiva di scambi subdoli. Ed è un peccato enorme, perché quando gioca al suo massimo (quasi mai) è entusiasmante. Come direbbe la vedova Lennon (suvvia, fan di John e Paul, finiamola di considerarla la Crudelia De Mon della situazione): Andy, perché? Si spera vivamente che riesca a trovare un equilibrio all’interno del suo gioco, altrimenti l’incubo mourinhiano sembra inevitabile: number 0, number 0, number 0…

3 – NOVAK DJOKOVIC
PINK FLOYD – THE DARK SIDE OF THE MOON (1973)

Nell’opera di un artista si trova sempre l’opera (si perdoni la ripetizione) la cui fama e considerazione critica fa storcere il naso. In particolare, all’interno della discografia dei Pink Floyd, c’è una lotta interna: c’è chi considera il primo periodo, dagli esordi ad Ummagumma, il grande momento della band, poi a loro detta “prostituitasi” alle grandi arene; c’è chi considera il decennio degli anni ’70 il periodo d’oro della band; c’è poi chi, infine, considera oro colato ogni singola nota del gruppo (periodo Barrett a parte: troppo bizzarro il tipo per piacere ai “puristi” del suono). Chi scrive, pur considerando i Floyd degli anni ’60 inarrivabili, ama anche diverse cose del periodo successivo, Meddle e Animals su tutti; detesta invece pasticci inascoltabili come Atom Heart Mother e The Final Cut (oltre, ovviamente, i dischi del dopo Waters). The Dark Side Of The Moon, senza dubbio il disco iconico del gruppo, sta in mezzo: tutto sommato piacevole, ben costruito, ma terribilmente noioso. Tanto fumo e niente arrosto. Julian Cope, all’apice della sua perfidia, nell’introduzione del suo libro più famoso descrisse il disco come “il peggio del peggio in assoluto” degli anni ’70, “mantra da soggiorno”. Per quanto non sia assolutamente il peggio del peggio degli anni ’70, l’appellativo di mantra da soggiorno appare perfetto: è musica “spirituale” da ascoltare in ufficio, estasi collettiva, non plus ultra dell’appassionato rock borghese (andrebbe chiesto poi agli adoratori del disco cosa intendono nella contrapposizione tra musica “seria” e musica “commerciale”, quando Dark Side è il terzo album più venduto di sempre, con 45 milioni di copie). L’unico pezzo davvero notevole, a giudizio di chi scrive, è l’adrenalinica e fantascientifica On The Run.


Parallelo tennistico: Andrea Scanzi, in quella che è forse la sua linguaccia più divertente e acuta, definì Novak Djokovic “berlusconiano”, un tripudio di azioni così ostentatamente plateali che non si capisce come possano piacere ad un così largo numero di persone (o forse sì). Le stesse imitazioni sono piuttosto dozzinali (i tic dei giocatori li conosciamo tutti e ripeterli senza precisione non sembrano grande motivo di ilarità…molto meglio quelle di Roddick) e gli atteggiamenti in campo non sempre sono l’emblema della simpatia. Paolo Bertolucci e Massimo Marianella, recentemente, l’hanno brillantemente etichettato come “parac…”. Se Djokovic è un “personaggio” brillante, cos’era Safin? O Roddick nelle conferenze stampa? O Baghdatis, molto più genuino ed autentico del serbo? Lo stesso tennis di Djokovic non è certo entusiasmante, sebbene sia senza dubbio un grande giocatore, di grande solidità, un incredibile atleta e capace di fiammate notevolissime. Come The Dark Side Of The Moon, insomma, merita assoluto rispetto, impossibile non riconoscerne le qualità. Ma l’estasi è altra cosa.

2 – ROGER FEDERER
POPOL VUH – HOSIANNA MANTRA (1972)

Ormai era scritto, l’immagine mentale era già impressa: dopo la sconfitta al primo turno contro Falla sul centrale di Wimbledon, a coronare una stagione schizofrenica, con una serie notevole di sconfitte ingiustificabili, Federer, sempre più un Syd Barrett della racchetta, sarebbe entrato in conferenza stampa per dire che lui era ancora grande, era il campo ad essere diventato piccolo. Berdych, nei quarti di finale, non ha fatto altro quello che fece Trezeguet negli Europei 2000, vale a dire staccare la spina ad una speranza senza vita. Una stagione “rollercoaster”, quella di un Federer che per mesi è sembrato smarrito, sempre più passivo e attendista (manco fosse Murray), sempre più incapace di giocare come sa e di cogliere il momento giusto. Se la stagione fosse continuata ai livelli dei primi 7 mesi, la scelta sarebbe caduta sicuramente su The Madcap Laughs di Barrett. Invece è arrivato Paul Annacone, l’uomo che sussurrava alla rete, e la scelta musicale è tornata su quella che da sempre, a chi scrive, sembra l’unica plausibile, nel confronto con il tennis dello svizzero.


Ora, due righe di storia musicale. Florian Fricke, cresciuto studiando piano classico, a fine anni ’60 fondò il gruppo dei Popol Vuh, in onore ai testi sacri dei Maya Quiché; gruppo che è continuato a vivere fino a quando è vissuto il suo fondatore, purtroppo scomparso nel 2001. Fricke, nel periodo in cui i musicisti rock cercavano il cosmo e una coscienza superiore e tentavano di dar vita a lavori sempre più intellettuali e “mistici” (erano gli anni, insomma, del progressive rock e della musica cosmica), creò (o comunque elevò a livelli impensabili e mai più raggiunti) la fusione tra rock e musica religiosa; una musica ipnotica, di bellezza inaudita. Il suo capolavoro, Hosianna Mantra, arrivò nel 1972: messa per il cuore, la definì lo stesso Fricke, che con quest’opera non aveva in mente una religione e/o un Dio in particolare (lo stesso titolo rimanda al cristianesimo e all’induismo), ma piuttosto ad una fusione ed elogio di tutte le realtà religiose. Allo stesso tempo la musica di Hosianna Mantra non ha un vero e proprio genere: è rock psichedelico, classica, new age (quando ancora quest’ultima non esisteva), world music…tutte fuse in un unicum di abbacinante bellezza. Forse Hosianna Mantra è l’opera musicale più sublime del XX secolo.


Di Federer si possono dire una miriade di cose: che sia frignone, perdente-vincente, noioso, fortunato, senza avversari. Ma nemmeno il più fanatico denigratore dello svizzero può negare che il suo tennis sia di profonda ed autentica Bellezza, il perfetto connubio tra classicità e modernità (proprio come Hosianna Mantra). Questi ultimi mesi non devono trarre in illusione, il Federer del 2006 non tornerà più. Anche in questi mesi, le sue sconfitte inguardabili le ha subite, quella di Bercy su tutte. Ma il suo tennis magnifico, pur sempre maggiormente a singhiozzi, lo vedremo ancora, si spera il più a lungo possibile. Il grande guaio di Federer è che, essendo uno sportivo, deve saper convertire la bellezza in praticità. Com’è ingiusta, la vita.
p.s. a Wimbledon si cambia disco: il disco dei Popol Vuh precedente a Hosianna Mantra, (quasi) altrettanto magnifico, si intitola In Den Garten Pharaos, che significa “nel giardino del faraone”. Serve aggiungere altro?

1 – RAFAEL NADAL
IGGY & THE STOOGES – RAW POWER (1973) (remix ’97)

Fate un esperimento: prendete il disco più casinista che avete in casa e mettetelo nello stereo. Fate attenzione a scegliere, che sia il disco più black metal-satanista-industrial-noise-blasfemo, la registrazione di una sega circolare alle prove con una lastra d’acciaio di due metri, il tutto contornato da urla, bombe a mano e dinamite. Poi togliete il disco e mettete il cd del remix ’97 di Raw Power degli Stooges, lasciando il volume con cui avete ascoltato il cd precedente. Ebbene, quest’ultimo vi sembrerà una sonata per pianoforte: nessun cd farà infuriare i vostri genitori/mogli/mariti/vicini come il remix di Raw Power attuato da Iggy Pop in persona. Se non state attenti, correte il rischio di vedere le casse dello stereo fare salti di un metro. Il remix originale dell’album, riportato “in vita” in una recente ristampa, per quanto sporco e distorto, non ha un volume così inaudito. Criticatissimo da alcuni ed esaltato da altri, questo remix fa di Raw Power, a quanto sembra, il disco dal volume più alto di sempre.


Rafael Nadal, quella bestia. L’animale da combattimento più spaventoso dello sport recente (e tra i massimi di sempre), uno che mostra i denti dal primo quindici, una corazzata di mentalità vincente, muscoli atti alla distruzione dell’avversario, potenza atta allo sfinimento del rivale di turno. E quando sembra prossimo alla sconfitta, trova in qualche modo quasi sempre il modo di ribaltare la situazione: un genio di testa e tattica. Il tennis di Nadal, come quello di Federer, fa storia a sé perché non ha epigoni degni, non ci sono pietre di paragone, la fisicità e la mentalità dello spagnolo sono di un altro pianeta per chiunque. C’è qualcun altro che, giusto con la corsa pre-palleggio, riesce a dirti “sei finito”?


Nadal è straripamento allo stato puro, il suo tennis non è tale nella stessa misura in cui quella degli Stooges non è musica perché non è Mozart. Chi crea stili di così grande importanza è sempre altrettanto importante, che questo piaccia o meno.

Riccardo Nuziale

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker