16/11/2012 12:41 CEST - Rassegna

Il fantasma Nadal sul confronto Berdych-Ferrer (Martucci); La centesima magia chiamata Davis dalle sfide snob al tifo da stadio (Clerici)

16 novembre 2012

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Rubrica a cura di Stefano Pentagallo

Gran Finale - Il fantasma Nadal sul confronto Berdych-Ferrer

Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport del 16.11.2012

Rafa non c’è, ma il suo fantasma s’aggira dappertutto, in questa storica finale numero 100 di coppa Davis fra Repubblica Ceca e Spagna, la prima nella stessa città e anche nello stesso teatro, la velocissima moquette indoor della 02 Arena della Fed Cup appena conquistata da Kvitova, Safarova e compagne. C’è nell’eco di zio Toni che conferma ad Abu Dhabi, e quindi a Doha ed Australian Open, il ritorno del figliol prodigo, dopo l’ultimo crac alle ginocchia di luglio. C’è nel ricordo dei due successi iberici sui cechi, nel 2004 e 2009. C’è nella storia stessa dei due candidati all’Oscar del week-end, Tomas Berdych e David Ferrer, numero 6 e 5 del mondo, senza pedigrèe Slam, e imperfetti, per tenuta psico-fisica e tecnica/potenza. Ricordate? A Madrid 2006, il potentissimo ceco esultò troppo, schernendo il pubblico di casa, e Rafa lo punì prima tirandogli le orecchie coi media e poi battendolo 11 volte su 11 duelli. E, nella finale di Davis di Siviglia 2009, «Ferru» il pedalatore andò in crisi contro l’attaccante Stepanek, non toccò palla per due set e, quando scappò alla toilette, sentì che Rafa urlava al cielo: «La colpa peggiore di un uomo è perdere senza lottare». Tornò in campo trasformato e vinse 8-6 al quinto.

Partenza Le cose cambiano? «Se avessi potuto scegliere, avrei voluto proprio Ferrer subito contro Stepanek», confessa capitan Corretja, puntando all’1-0, dribblando l’escluso/polemico Feliciano Lopez e sperando che domani il doppio Granollers-Marc Lopez, neo campione Masters, dia una spallata alla coppia Berdych-Stepanek, per bissare l’impresa 2008 in Argentina. «Penso sempre di risparmiare Radek e i suoi 33 anni per il doppio e l’eventuale singolare sul 2-2. Ma, in finale, contro i migliori, non ce l’ho fatta», sospira Navratil. Contro Rafa, avrebbe forse rischiato Rosol, il Carneade che, da numero 100 del mondo, ha fatto il colpaccio ai Championships a colpi di bazooka e insiste: «Escludo che a Wimbledon Nadal fosse infortunato, come dice, nel quarto set ha giocato meglio che mai».

Incrocio «Ferru», Ferrer, che non conosce la fatica, Davide, di nome e di fatto, col suo metro e 75 appena contro i Golia del tennis, asfissia l’avversario con palleggi sempre più intensi e prolungati. Quest’anno, ha vinto 7 tornei (più di tutti), e 74 match, superato in extremis da Djokovic, solo con la finale di Londra. Ha il rispetto di tutti, il fedele sponsor Lotto gli ha rinnovato il contratto per altri 4 anni, epperò non eccelle, non ha il pugno del k.o., deve sempre fare una fatica immane: solo a 30 anni vince il primo torneo Masters 1000 (a Parigi Bercy), ma senza i migliori e, al Masters, lascia il posto in semifinale a Del Potro, che pure aveva battuto. Così come in Davis, in patria e sulla terra lascia la ribalta al solito Rafa. A Praga trova un incrocio importante, magari l’ultimo per la fama.

Nervi Bello lui, bellissima la fidanzata, belli i suoi colpi tennistici, Tomas Berdych può battere chiunque — chiedete a Federer —, ma più spesso può distrarsi e scomparire, perché sbaglia partita e si fa prendere dai nervi. Come due volte con Almagro, l’avversario di oggi, un altro tipetto dal tennis facile come le sfuriate. Agli Australian Open, «Nico» tirò un passante addosso a Berdych, a rete, come non si fa fra gentlemen, dieci mesi dopo, al biondino di 1.96 non basta ancora quella mancata stretta di mano e sputa veleno dai microfoni amici: «Almagro è il più debole della squadra spagnola, non ha mai vinto niente d’importante». Due mesi fa, nell’inferno di Buenos Aires,
è stato grandissimo (contro Monaco e Berlocq): saprà essere grande a Praga?

La centesima magia chiamata Davis dalle sfide snob al tifo da stadio

Gianni Clerici, la Repubblica del 16.11.2012

È la centesima edizione della Coppa Davis, e qualcuno si chiederà, forse, perché esiste, chi ebbe l’idea. Per scriverne un libretto pubblicato nel 1978 dall’amico tennista Giorgio Mondadori, dal titolo “Il Grande Tennis”, mi ero recato a Boston, in una casetta non lontana dallo storico Longwood Cricket Club (sede dei primi Campionati Americani). Lì mi aveva ricevuto il Dottor Richard Dwight, figlio del Dottor James Dwight, che mi aveva offerto un tè e mi aveva detto: «Come lei ricorda, Mr Clerici, mio padre James era stato il primo americano a giocare in Europa, e gli inglesi lo avevano classificato, onore mai toccato a uno straniero, al n. 8. Quando il cuore più non gli permise le gare, insieme ad un suo pupillo, Dwight Davis (non confonda il cognome con il nome di battesimo)si mise in testa un’idea fissa, quella di organizzare un incontro con gli inventori del Lawn Tennis, gli inglesi».
Le leggi della buona educazione mi spinsero a non citare le origini franco-ispano-italiane rinascimentali, e sorseggiai il tè. «Ecco la lettera degli inglesi» continuò Richard Dwight, mostrandomi un foglio ingiallito, del 1897: «La Lawn Tennis Association pensa che sia desiderabile, nell’interesse del gioco, organizzare un match tra il Regno Unito e gli USA». Tre anni più tardi, si sarebbe svolto il primo incontro, il cui merito è da condividere con un pupillo del Dottor James Dwight, Dwight Davis: curiosamente battezzato con un nome simile all’altrui cognome. Giovane membro dello storico Longwood Cricket Club, giocatore tra i primi del suo paese, Davis era ritornato da una tournée in California con l’intenzione di sviluppare rapporti tennistici sin lì inesistenti tra gli Stati Americani. E,nei dialoghi con il DottorDwight, nacque l’audace idea di superare addirittura l’Atlantico. Un’idea concretata con l’acquisto presso gli orafi Crump e Lowe di un enorme bowl di 217 once d’argento, da al-lora denominata Coppa Davis, e, da chi non conosce le lingue, “Insalatiera”.
Avvenne così che, il 4 agosto del 1900, dal vapore Campania, scendessero a New York tre britannici: il banchiere Gore, detto Baby per la sua statura di 1 e 65, battuto a Wimbledon in finale da Reggie Doherty, lo scozzese Ernest Black e H. A. Nisbet, entrambi sconfitti nella finale del doppio a Wimbledon dai mitici Doherty, i Federer del tempo, grazie alle loro 9 vittorie complessive. «Come mai» osai chiedere, «non si erano resi disponibili i mitici fratelli Doherty?». «Con la loro storica presunzione, gli inglesi avevano pensato che bastasse la loro squadra B» mi fu risposto. I britannici dovettero al contrario convincersi di non essere i soli depositari della scienza tennistica. Lo stesso Dwight Davis e il campione USA Mal Whiteman li sommersero nei due singolari iniziali e nel doppio, prima che una pioggia temporalesca mettesse fine all’avventura. Anche nel 1902 i Doherty,abituali vacanzieri in Costa Azzurra, allora dominion del tennis britannico, preferirono astenersi, e gli Stati Uniti rinnovarono il successo, sinché, dichiaratosi disponibili i due Più Grandi Fratelli di Tutti i Tempi, nel 1903 la Coppa prese la via del Regno Unito.
Da quegli incontri bilaterali, la Coppa Davis avrebbe iniziato il suo cammino mondiale, con la partecipazione di altri paesi, primi tra gli europei il Belgio e la Francia nel 1904. L’arrivo dell’Italietta fascista sarebbe avvenuto soltanto nel 1922, con un esordio, guarda caso, proprio in Gran Bretagna, e una sconfitta per 4 a 0. Si era, nel frattempo giunti ad una competizione davvero mondiale, in cui, come nel torneo di Wimbledon, il Vincitore dell’anno precedente fruiva del diritto di attendere in finale il Challenger, lo Sfidante. Simile struttura venne purtroppo osteggiata proprio da un connazionale, uno dei tanti immeritevoli presidenti della federtennis, LuigiOrsini, e su un suo suggerimento la struttura divenne simile a quella di un banale torneo di calcio a partire dal 1972, con una Finale tra i detentori USA e la Romania, a Bucarest, in cui andò a vuoto un tentativo di furto, perpetrato da un paio di patrioti travestiti da giudici di linea, incoraggiati da un popolare consenso che spinse lo Scriba al grido di “Ladri”, in seguito al quale venne minacciato e arrestato.
Ma non solo in quella Bucarest del compagno Ceausescu accaddero nefandezze tipiche dell’oscena malattia soprannominata tifo. Tra gli altri, ebbero a distinguersi gli italiani del Porro Lambertenghi di Milano,spesso autori di furti nel corso di incontri il cui protagonista Gardini, detto il Vampiro, eccitava gli animi con un atteggiamento non certo da gentleman. Ci furono luoghi e stadietti, soprattutto nei paesi slavi (Jugoslavia docebat) e in Sudamerica (tre soli anni addietro, match interrotto tra Cile e Argentina) nei quali il nemico veniva contrastato con strumenti tipicamente calcistici. Tutto ciò spinse lo Scriba a riflettere, e a ritenere che l’invenzione di Dwight Davis fosse complementare al suo destino, che gli consentì l’accesso al titolo di Sottosegretario alla Guerra. Rimasi più volte a domandarmi, anche sul vecchio Giorno, se una gara a squadre, per di più nazionali, non fosse contraria alla filosofia del gioco, nata da contese individuali e non di gruppo. Una gara in cui lo spettatore si immedesima col proprio paese, e non con il campione, che spesso della propria Nazione non condivide le caratteristiche. Chauvin, per citare il famoso caporale di Gioacchino Murat, non fu mai un bell’esempio di sportivo né di francese.
Felicemente sopravvissuta alle sue colpe e al suo calendario, che complica quello dei tornei, la Davis ha più volte cambiato formato, è ora divisa in una Serie A con sedici squadre oggetto di possibile retrocessione, e una B, più una C e una D con varie suddivisioni geografiche, tali dal portare il totale dei partecipanti al rispettabile numero di 122. Se trovate comunque su una bancarella un dimenticato libretto dal titolo Il Grande Tennis, ne potrete sapere di più.
 

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