10/03/2013 15:25 CEST - Approfondimenti

Scrivere di tennis: un mestiere dai mille volti

TENNIS - Matt Cronin, che scrive per il suo sito Tennis Reporters e collabora con varie testate. Steve Tignor, editor di Tennis Magazine e del gemello Tennis.com. Neil Harman, storico inviato del Times. Jon Wertheim, senior editor di Sports Illustrated. Quattro storie, quattro modi di essere giornalisti di tennis nell'evoluzione dalla carta al web. Fabio Severo

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Neil Harman (al centro), inviato del Times, a Wimbledon
Neil Harman (al centro), inviato del Times, a Wimbledon

Fabio Severo è producer di SNTV (Sports News Television http://www.sntv.com/), il canale sportivo di Associated Press e ha lavorato per Reuters, AP, BBC, CNN. Questo reportage è stato realizzato durante gli Australian Open

La sala stampa dell'Australian Open conta poco meno di trecento desk assegnati individualmente ai giornalisti accreditati, a cui vanno aggiunti i molti altri senza desk (me, per esempio) e tutti i broadcaster che hanno acquistato i diritti della copertura televisiva del torneo. Si tratta di numeri di una certa importanza per la copertura mediatica di uno sport individuale, soprattutto per un evento che si svolge così lontano da Europa e Stati Uniti. Se paragonato con le sale stampa di manifestazioni come i Mondiali o gli Europei di calcio ovviamente appare come una competizione minore, ma in termini assoluti un torneo del Grande Slam si può descrivere come un grande evento sportivo. "Si tratta comunque di uno sport di nicchia, e lo sarà sempre, perché non è uno sport di squadra: oltre al tennis, quale sport segui che non sia di squadra? La Formula 1, il golf?"

A parlare è Matt Cronin, giornalista americano che scrive di tennis da circa vent'anni. A lungo collaboratore di Inside Tennis, una delle principali riviste americane di settore, Cronin è qui a Melbourne non per una testata in particolare ma per un ampio numero di clienti. "Lavoro per l'Australian Open Radio, con cui faccio circa due ore di diretta quotidiana, poi scrivo due pezzi al giorno per il sito del torneo, e un editoriale al giorno per USTA.com; poi ci sono Tennis.com, uno dei miei clienti regolari, Bob Larson News Tennis e Tennis Business, per cui mi occupo delle news, e sto lavorando anche con un nuovo cliente, Tennis Balls, per cui da quando sono in Australia - più o meno un mese - avrò scritto circa 15 pezzi. E poi c'è il mio sito, Tennisreporters.net, e ovviamente uso twitter tutto il giorno".

Parlando con Cronin comincio a capire come seguire il tennis sia diventato un mestiere dalle molte facce, e dalle poche sicurezze. Non esiste praticamente più la figura dell'inviato classico, mandato dal giornale, coperto nelle spese e stipendiato. La sala stampa è oggi popolata da figure eterogenee, una fauna complessa che l'ombrello del termine giornalista fa fatica a coprire. Da una parte c'è un'industria in crisi, quella della carta stampata, accanto ce n'è un'altra in continua espansione e mutazione, quella dell'informazione diffusa tramite il web. Nella distanza sempre più drammatica tra questi due mondi si riassume la natura complessa del mestiere di giornalista sportivo oggi.

"Lavoro con l'Australian Open da sette anni, sia per la radio che per il sito. Ma devo rinegoziare l'accordo ogni anno, quindi ogni volta conto di avere il lavoro, ma in realtà non ne sono mai certo. Ed è lo stesso a ogni Slam, al Roland Garros è lo stesso, faccio radio e scrivo, US Open radio e scrivo, Wimbledon radio. In Australia vengo per un mese, perché copro anche Brisbane e Sydney. Quindi per farlo devo considerare il costo totale e quanto riuscirò a guadagnare: ho figli e una casa, quindi non mi muovo senza la certezza di poter guadagnare ben sopra le spese di una trasferta di questo tipo".

Un'adeguata remunerazione diventa un calcolo complesso, e richiede una dose notevole di intraprendenza e di creatività nel tessere quella trama di rapporti necessari a sostenere la passione di vivere dentro al tour. Vivere nel circuito per poterlo fotografare, filmare, raccontare: ma come si scrive di tennis oggi? Il pensiero torna alla rivista tradizionale, ai pezzi lunghi, le feature stories, quegli approfondimenti slegati dall'attualità dove si sviluppano angoli insoliti, si rallenta il tempo della narrazione, magari si passa un giorno intero con un giocatore e il suo allenatore. Chiedo a Matt se è vero che quel modo di scrivere è andato perduto: "Le feature si facevano per le riviste, quindi con l'avvento di internet sono sparite, e sono comparsi gli editoriali (columns), i pezzi di opinione, e poi le news. E questo è successo perché con internet si è affermata la convinzione che le persone non volevano più leggere articoli lunghi - ed è lo stesso nei quotidiani, che prima avevano pezzi lunghi ma adesso prova a trovarne uno, su qualsiasi giornale. Oggi è difficile riuscire a scrivere in quel modo, quindi penso che quel tipo di storie si sia perso per strada, perché si crede che la maggior parte delle persone non voglia leggere nulla per più di cinque minuti". Evoluzione dei tempi di lettura, ma anche riduzione del budget: "Un tempo si spendevano anche 5000 dollari per mandarti a fare una storia, adesso non è più così, tranne rare eccezioni".

Tennis Magazine è la veterana delle riviste di tennis americane: fondata nel 1954, pubblica ancora dieci numeri all'anno, anche se il segno dei tempi è piuttosto visibile nella drastica riduzione delle pagine, che negli anni da circa duecento sono diventate più o meno sessanta. Steve Tignor è uno degli editor della rivista, ed è anche editor del progetto gemello che la accompagna, Tennis.com. Steve è a Melbourne come unico inviato per Tennis.com, e mi racconta della transizione editoriale dalla rivista cartacea alla struttura attuale del sito. "Ho cominciato a lavorare a Tennis Magazine circa 15 anni fa, e da lì in poi abbiamo progressivamente spostato molte risorse verso il sito. All'inizio veniva finanziato con i ricavi della rivista, adesso viaggiano in parallelo, il sito è cresciuto, la rivista è rimasta stabile per gli ultimi dieci anni". Questione centrale per Tignor è ovviamente la tempistica con cui vengono prodotti e pubblicati i contributi, che è anche determinante nell'evoluzione della scrittura dei pezzi. "Un sito deve pubblicare ogni giorno: è sempre lì a disposizione, ragion per cui deve sempre offrire qualcosa di nuovo. Certo è anche vero che la velocità con cui devi lavorare oggi ti costringe a scrivere più velocemente, e chiaramente questo vuol dire meno possibilità di fare ricerche prima di scrivere".

Come accennava Cronin, anche Tignor conferma la mutazione professionale che ha portato alla prevalenza di pezzi d'opinione a discapito di approfondimenti e storie scritte "sul campo". "Quando ripenso ai pezzi lunghi che scrivevamo e a quelli che venivano pubblicati anche su altre riviste sportive, penso che qualcosa sia andato perso: il tempo necessario a scrivere meglio, fare più ricerche, passare più tempo col soggetto del tuo pezzo. È una perdita, ma penso anche che siano pezzi che hanno ragione di esistere solo su una rivista, perché lì i lettori trovano il tempo per leggerle, ma se penso a come io o molte altre persone usano il web, trovo più adatto lo stile di scrittura che trovi sulla maggior parte dei siti: pezzi più corti, di opinione, per cui si trova più facilmente il tempo di leggerli".

Peter Bodo è il senior editor di Tennis.com, uno dei veterani del giornalismo di tennis americano: nel 1978 ha pubblicato Inside Tennis: A Season on the Pro Tour, un libro nel quale racconta un'intera stagione passata a seguire il circuito, fatto di dietro le quinte, chiacchierate sugli spalti con giocatori, cocktail con Evonne Goolagong nella suite del suo albergo, una possibilità di accesso al cuore del sistema oggi impensabile. L'avvento di agenzie come IMG ha reso negli anni impossibile una simile prossimità agli atleti, standardizzando le modalità di interazione tra i media e le personalità del tour.

Ma non tutti rimpiangono quel giornalismo vecchio stile fatto di conversazioni informali e appunti scritti a mano. Jon Wertheim, senior writer di Sports Illustrated, accoglie con favore tutte le trasformazioni del mestiere generate da internet: "Quando ripenso alle storie che sono andato a fare in passato, del genere voli a Miami, passi un'ora con un giocatore, poi parli con l'allenatore, oggi non so più quanto siano significative. Certo se la fai sul giocatore giusto può venire fuori una grande storia, ma spesso non è così. Perché dovrei leggere 15000 battute su Tomas Berdych, ad esempio? Le abbiamo lette tutti quelle storie: fa molto caldo, si allena sotto al sole, poi parli con l'allenatore e con un giocatore connazionale, in fin dei conti non penso sia una gran perdita. Ora abbiamo Twitter e Instagram con cui possiamo seguire i giocatori e trovare commenti interessanti. Penso sia uno scambio che valga la pena fare".

Per Wertheim bisogna accettare che le regole del gioco sono cambiate, e le capacità da dover mettere in campo ormai vanno oltre il saper scrivere bene. "Anche lavorando per una singola testata o sito web, oggi bisogna saper fare molte cose, e molte persone che lavorano qui sono in questa situazione. Io trovo che sia più divertente, è una cosa positiva, certo è molto diverso da com'era prima, ed è cambiato in fretta. Prendi la prima volta che sono venuto qui a Melbourne dieci anni fa, ad esempio: Agassi vince, io lavoro per un settimanale, la finale è di domenica, il che mi dà un po' di tempo in più per lavorare, per cui scrivo anche una storia che racconta tutto il torneo. Non è più così, oggi tutto va molto più veloce e si muove su diverse piattaforme... Penso che il tennis funzioni benissimo con i media digitali, è uno sport globale, con tantissimi fusi orari, c'è sempre un pubblico che ti segue ovunque nel mondo, i giocatori viaggiano sempre, i tornei sono dappertutto". Per lavorare come giornalista di tennis oggi secondo Wertheim "bisogna essere molto più creativi di un tempo, non è come quando lavoravo per una rivista e avevo le mie scadenze e l'assegno ogni due settimane. Non è più così semplice".

Intraprendenza, creatività, velocità: parole d'ordine che riassumono una professione per cui non esiste più un apprendistato codificato come un tempo. Provo allora a chiedere lumi a uno dei pochi giornalisti la cui carriera corrisponde a quella figura di giornalista che si considera ormai scomparsa: Neil Harman è il tennis correspondent per il Times, uno dei pochissimi giornalisti mandati a girare il mondo di torneo in torneo. Gli chiedo quanti giornalisti nella sala stampa di Melbourne si trovano nella sua posizione: "Meno di dieci, credo. Siamo sempre di meno, la sala stampa ora è piena di siti web, che scrivono di tennis solo durante i tornei dello Slam e non vanno agli altri tornei, come invece faccio io. Sono venute meno sia le risorse finanziarie che forse la voglia di incaricare una persona di coprire il tennis, forse c'è anche un calo di interesse a livello globale, come negli Stati Uniti ad esempio, dove è sceso moltissimo".

Mi racconta che il suo credo è sempre stato che "bisogna esserci, bisogna andare di persona", mentre la realtà è che persino il New York Times ha smesso di mandare giornalisti a tornei come Indian Wells e Miami. Non che Harman non si sia dovuto adattare ai cambiamenti della sua professione, anche lui deve scrivere per il web, fare live tweet durante gli incontri e poi dedicarsi al pezzo per il giornale dell'indomani, ma resta uno dei pochissimi giornalisti al mondo assunto da un quotidiano per seguire tennis tutto l'anno. Gli chiedo come si fa a diventare Neil Harman, come un ragazzo di vent'anni che ami il giornalismo e ami il tennis possa provare a diventare come lui.

"Non credo che il mio percorso sia più praticabile... Il futuro è internet, i siti web sono la via. Come si fa oggi a diventare il corrispondente di tennis per il Times? È difficile rispondere, ci deve essere un modo, ma io non so quale sia. Perseveranza, entusiasmo, capacità di scrivere, determinazione, fortuna. A volte se guardo indietro penso che se non fossi andato in quel posto, in quel momento, quell'opportunità professionale non sarebbe arrivata. Se non avessi incontrato quella persona, se non fossi andato a vedere un match su quel campo... spesso ho l'impressione di essermi semplicemente trovato al posto giusto nel momento giusto".

Fabio Severo

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