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IntervisteItaliani

In TV e in libreria: è un Adriano a tutto campo

Pubblicato "Il Tennis è musica", 50 racconti narrati da Panatta e Azzolini. La leggenda del tennis italiano a La Nazione: Federer come i Pink Floyd, ma Djokovic e Nadal stonano

Last updated: 07/12/2018 10:06
By Emmanuel Marian Published 04/12/2018
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6 Min Read

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Sessantotto anni, nonno sereno, osservatore loquace e distaccato di una vita senza rimpianti. Adriano Panatta, il re del tennis italiano, avrà avuto anche i suoi difetti, ma tra questi di certo non c’è la reticenza, sempre che di difetto si tratti. In un’intervista concessa al quotidiano fiorentino La Nazione, egli riflette sul tennis moderno che stilizza in una nota acida, come molti degli interpreti classici chiamati a commentare un gioco secondo loro evolutosi in una mera opera di forza e resistenza. Il tennis e la vita, l’uno metafora dell’altra ascoltando i ragionamenti dell’Adriano nazionale, si intrecciano senza soluzione di continuità ne “Il Tennis è Musica”, trecento pagine scritte a quattro mani con Daniele Azzolini (libro edito da Sperling & Kupfer uscito un paio di settimane fa) ripercorrenti cinquant’anni di pallina di feltro: ogni anno, il racconto di un campione, dal Rod Laver ’69 con le scarpe chiodate a Forest Hills a Stan Smith, tramutatosi da fuoriclasse a scarpa quando un ragazzino, vantandosi delle proprie calzature durante un clinic, non si diede pena di notare che stava interloquendo con l’inventore delle medesime.

Tra un’intervista e un libro, il tennis resta musica per Adriano Panatta, e anche in questo caso, il primo è la metafora della seconda e viceversa. “Ai miei tempi, parlo degli anni ’70, il tennis era melodia; i Beatles, Jimi Hendrix… oggi non si capisce più nulla, è tutto così caotico, così metal“. Roger Federer sembra l’unico interprete contemporaneo a meritarsi il paragone con i dominatori delle classifiche di vendita di quarant’anni fa. “Sì, lui è un misto tra Tony Bennett, i Pink Floyd e Paul McCartney, uno spettacolo“. Lo stesso spettacolo che ha portato in scena Ilie Nastase, proprio mentre i dischi degli eroi sopraccitati venivano pubblicati giorno dopo giorno. “Lui era stralunato e mattarello, gli piaceva fare casino, ma era un bravissimo ragazzo. Ci ho giocato il doppio insieme tantissime volte, era ansioso in modo pazzesco. Ma sapete una cosa? Le sue gambe erano come quelle di Roger, nei primi tre passi valeva un finalista nei cento metri di una finale olimpica“. I rivali dello svizzero, nel Vangelo secondo Adriano, suonano un po’ stonati, almeno di tanto in tanto. “Campioni straordinari e forse irripetibili che però non mi entusiasmano. Nadal tira forte ed è un grandissimo agonista, Djokovic recupera tutto, ma il loro gioco mi annoia“.

Ambasciatore a vita del tennis tricolore, Panatta si trova nella posizione di definire i simboli naturali dei suoi contorni storici, che, volenti o nolenti, sono Nicola Pietrangeli e Fabio Fognini. “Se Nicola è stato un maestro o un rivale? Niente di tutto ciò. È stato un personaggio importante, ma le nostre carriere si sono sovrapposte solo per due anni, poi siamo diventati amici, anche se abbiamo caratteri molto diversi. Fognini? Non lo seguo spessissimo purtroppo, ma è un ottimo giocatore che avrebbe i colpi per stare tra i primi dieci al mondo, penso che i suoi limiti siano più che altro caratteriali: a volte il suo atteggiamento è davvero indisponente“. Di eredi all’orizzonte non se ne vedono. “Il tennis è cambiato troppo, non si possono fare paragoni, oggi tirano tutti molto forte ma è anche tutto molto più frenetico e non c’è tempo per pensare, solo Federer lo fa. Peraltro occorre dire che non è solo il tennis a essere cambiato, certo non in meglio, ma tutti gli sport di grido: prendete il calcio, anche quello non mi sembra migliorato e secondo me lì la colpa è di Guardiola, una noia mortale!“.

Lo specchietto retrovisore è sempre l’osservato speciale, in una continua retrospettiva su tennis e vita, che poi sono le due facce della stessa medaglia. “La racchetta mi ha dato tutto e in primis la possibilità di girare il mondo facendo quello che mi piaceva fare. Se mi ha tolto qualcosa? Solo una cosa, ma molto importante: il tempo da dedicare ai miei figli mentre crescevano, perché giocavo quasi tutto l’anno lontanissimo da casa“. E qualche vittoria, aggiungeremmo noi, anche se la carriera di Panatta resterà nella leggenda. “La mia partita più bella è senza dubbio la semifinale del Roland Garros ’76 contro Dibbs, anche meglio della vittoria in finale, mi entrava tutto. La più brutta invece non saprei sceglierla, perché ne ho giocate troppe, però posso indicarvi la più stupida, quella persa nei quarti di Wimbledon ’79 contro Dupre: un calo di tensione che ancora oggi non riesco a spiegarmi, ero convinto che sarei arrivato in finale“.

Attore (per lui cameo ne “La Profezia dell’Armadillo“, tratto da una graphic novel di Zerocalcare), libero cittadino e capofamiglia; lo sguardo sereno e la lingua tagliente, come sempre. “Vivo a Treviso per questioni di cuore ma il cuore, sempre lui, è rimasto a Roma, la città più bella del mondo anche con le buche, che ci sono sempre state. Quello che mi dà fastidio è la sporcizia che la inquina. Impressionante“. Il resto è tempo libero, da sportivo in pantofole (“Ho smesso anche di correre in macchina, dopo i sessantacinque anni non ti rinnovano la licenza) a nonno (“Un’esperienza fantastica, soprattutto perché tutti i problemi sono dei genitori!“). Incorreggibile Adriano.


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