Il mondo è bello perché è vario, recita un vecchio detto nostrano. Figuriamoci quello del tennis, dove le sfide sono all’ordine del giorno e non sempre vengono disputate contro gli avversari. Sì, perché molto spesso il “rivale” da superare – al meglio dei tre o dei cinque set – non si trova dall’altra parte del campo ma nell’animo dei tennisti. Anche di quelli che, in apparenza (solo in apparenza) sprizzano normalità da ogni poro. Il cosiddetto sport del diavolo, certo, ma anche e soprattutto quello della psiche e della lotta contro se stessi. Sì, insomma, come potremmo definire un incontro di tennis se non come una sorta di seduta analitica in cui bisogna fare i conti con i propri limiti travestiti da demoni interiori?
Casper Ruud, probabilmente, certe domande deve essersele fatte. Soprattutto nell’ultimo periodo. Quando la pallina non voleva proprio saperne di infilarsi negli angoli sbrilluccicosi della metà campo avversaria e i risultati positivi sembravano solo un ricordo lontano. Come la chioma di Gerulaitis (pace all’anima sua) e i primissimi romanzi di Jo Nesbo. Un norvegese colto, anche lui. Del resto, qualche giorno fa, è stato lo stesso tennista ventiseienne a parlare apertamente – con la solita riservatezza che lo contraddistingue – delle problematiche riscontrate nell’ultimo periodo.
“Onestamente, preferisco non entrare troppo nei dettagli perché quest’anno ho avuto dei problemi mentali, non mi sentivo bene mentalmente. Ma ho cercato aiuto, il che ha funzionato davvero per me, e ho avuto una risposta rapida e mi sono sentito molto meglio, quindi mi ha aiutato molto avere qualcuno con cui parlare di certe cose. È una vita dura sotto molti punti di vista, con molti giorni di viaggio, e sono arrivato a un punto in cui mi sembrava che stesse diventando troppo. Ma ho cercato davvero aiuto e ha funzionato, quindi sono felice di provare più gioia e di sentirmi in un posto migliore, e di svegliarmi ogni giorno con il sorriso sulle labbra“. Ha spiegato ai giornalisti presenti nella conferenza stampa post-vittoria sul numero 4 del mondo Taylor Fritz. Una disamina concreta, spietata, vera.
Chi scrive, ha iniziato ad apprezzare Ruud più nelle sconfitte che nei successi. Nel suo sguardo – così pieno di atavica normalità – anche dopo le tre finali slam perse (due volte al Roland Garros e una allo US Open), ho intravisto il sacro fuoco della resilienza e la voglia matta di dimostrare al mondo che certi traguardi, certi step, sono tutt’altro che casuali. In soldoni, c’è stata una parte di universo tennistico che ha considerato Ruud – numero 2 del mondo nel settembre del 2022 – quasi alla stregua di un errore sistemico all’interno della Top 10 maschile. Come se fosse facile sputare sangue e sudore sulla terra battuta del Roland Garros o sul cemento patinato di Flushing Meadows.
Per fortuna, ci ha pensato la Spagna (e più in particolare il Masters 1000 di Madrid) a rimettere le cose a posto. Rilanciando le quotazioni di uno dei tennisti più sottovalutati del pianeta Terra (che nel frattempo era pure uscito dalla Top 10 mondiale). Forse perché privo di quella guasconaggine e di quell’irriverenza tipica dei predestinati; o, forse, perché meno incline alle giocate d’alta scuola. Banalmente, se Musetti sa disegnare degli angoli dove non esistono, rendendo la magia una forma d’arte, il caro vecchio Casper resta fedele alla concretezza e al fascino antico – ma meno accattivante – del sacrificio oltre l’orizzonte.
Detto questo, non sappiamo ancora cosa ci racconterà di lui la finale della Caja Magica. Draper è avversario ostico e in rampa di lancio. Quel che è certo, però, è che il prestigioso Masters 1000 iberico ha ridato nuova linfa a un tennista-mediano. Uno di quelli che se avesse giocato a calcio, sarebbe stato un incrocio tra il Barella attuale e il De Rossi di un tempo. Istinto e volontà. O forse no, sarebbe stato uno di quei centrocampisti atipici, dalla difficile collocazione tattica, poiché troppo generoso. E’ una delle regole non scritte della vita: quelli maggiormente sottovalutati sono anche quelli che si danno più da fare. Dopotutto, il mondo è bello perché è vario.