Ferrer, solo due mattoni

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Ferrer, solo due mattoni

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TENNIS – Nel 2013 qualche campione ha rischiato grosso prima di aggiudicarsi il titolo. Vi  raccontiamo quattro di queste imprese sfiorate, dal punto di vista del perdente. La prima è quella di David Ferrer a Madrid. Daniele Vallotto

«Lento andava e veniva
nel suo lavoro
e dalla sua mano
la materia
cresceva».
Pablo Neruda – Ode al muratore 

Se mi ricordo i mattoni? E chi se li dimentica i mattoni. Passa la malta, togli la malta… Ore a spezzarsi la schiena per poi passare altre ore a spezzarsi di nuovo la schiena. E non c’ero mica portato, eh. Ma giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, sono diventato tra i migliori dei miei colleghi. Non il migliore, certo. In una settimana sono arrivato al terzo posto del cantiere. Il mio capo non aveva un briciolo di fiducia in me: “Tu non hai qualità, David, neanche per fare il muratore”. Io però c’ho la testa di coccio e quando gli ho dimostrato quel che valevo me ne sono andato. Ora che sui mattoni ci scivolo il mio obiettivo non è cambiato. Dicevano che non avevo qualità neanche per fare il muratore, figurarsi per fare il tennista. Io, zitto, testa bassa e roncolare, sono arrivato tra i primi del mondo. Altro che cantiere.

Oggi in programma c’è Davide contro Golia. Di là c’è lui, el Caudillo, il Magnifico, il Lazzaro del tennis, l’Imbattibile zoppo. La situazione è questa: gli sto davanti in classifica (sembra strano pure a me), lui è tornato a macinare kilometri dopo una pausa piuttosto lunga ma ha perso per la prima volta sul suo feudo, io ho perso il mio secondo mille per colpa di un falco e insomma, c’ho la fionda carica. Ho una maglietta sgargiante per l’occasione. E poi vuoi mettere la soddisfazione di arrivare a Parigi con un numeretto più basso del suo? Già lo vedo, “David” e accanto uno scintillante “quattro” a fianco. Me lo merito. Certo, lui mi può ancora rimontare ma oggi voglio togliermi tutti i dubbi. Me lo merito.

Partiamo e io zompo che è un piacere. Dritto da destra, dritto da sinistra, rovescio, dritto da destra, dritto da sinistra e mi prendo il primo mattoncino. Si parte sempre dalle fondamenta, no? Dentro quel cantiere sono riuscito a resistere appena una settimana ma ho sempre tenuto a mente quell’insegnamento. Sul 2-1 c’è la prima passata di malta che sono poi tre palle break. Lui però le annulla tutte. Non ci faccio caso, ormai ci ho fatto il callo. Subito dopo l’arbitro gli dà uno uorning perché sta palleggiando troppo. Allora si innervosisce e incomincia a sbagliare ed io che ancora ripenso alle palle break mi trovo, non so come, avanti: 3-1. Eccola, la malta. Lui cerca di rimontare ma ancora ripensa a quei tre secondi in più di palleggio ed io ne approfitto. 4-1 cioè due file di mattoni ben salde e puntellate. Ottimo lavoro, direbbe il capocantiere. Mi sembra quasi di sentirlo, quando stupefatto ammirava i miei miglioramenti repentini.

Quando il grosso sembra fatto quell’altro si inventa un paio di punti che fanno vacillare tutto quello che avevo costruito. Il campanile che erige per brekkarmi è di notevole fattura. Il mio muretto impallidisce, al confronto. Lui di gancio a distruggere il muretto, io di stucco a correggere. Ma senza fretta e senza parole livello il cemento. Capisco che devo cambiare qualcosa e allora mi avvicino alla rete. Faccio tre punti su tre e lo costringo a servire per il set. Sembra strano, eh? Non ditelo a me. Capisco che qualcosa sta cambiando: siamo 30-30 e trovo un rovescio incrociato che lo mette in difficoltà. Set point. Zompetto nervoso, poi roncolo, roncolo, vado di nuovo a rete e benedico. Ho costruito un muro di tutto rispetto, lo devo riconoscere pure io che sono modesto per natura.

Col cuore palpitante, mi dirigo verso la panchina, a testa bassa, e faccio finta di nulla. Mando un messaggio al mio avversario: oggi me lo merito. Lui però non è dello stesso avviso e comincia a ribellarsi. Io invece inizio ad avvertire l’aria più rarefatta e mi appanno quel tanto che basta a dargli il break. Il pubblico già rumoreggia e pensa: “Ecco che la perde di nuovo”. Io non ci sto, eh. Aumento i giri delle gambe e se le guardi quasi scompaiono, da quanto veloce vanno. Impatto. Mi metto, paziente, ad aspettare il momento giusto. Che arriva sul 3-2. Lui rallenta un attimo, io mordo la pallina e con un gutturale “eeeeeeeee” la incrocio con lo sventaglio. Ci arriva come farebbe una piovra, naturalmente, ma io mi ci avvento come farebbe uno squalo e anche se quella volée non la insegneranno nelle accademie io mi prendo il break con tanti saluti agli esteti del gesto tecnico. Casetta mia sta venendo su come la sognavo. Non è tempo di riporre la cazzuola, però. Quello infatti riprende a picchiare e mi riaggancia sul 4-3. La Scatola Magica torna a rumoreggiare. Maledico la mia cazzuola-non-magica.

Nono game, servo io, palla break per il filisteo. Io picchio, lo sposto con astuzia da una parte all’altra ma quando devo chiudere col rovescio butto la palla in rete. Prendo la fionda e per poco non le faccio assaggiare i mattoni, ma è solo colpa mia, mia e solo mia. Sbuffo e già penso al peggio. Golia serve per il set. Mi fa correre come un dannato, ora. Rincorro la pallina e ci arrivo ogni volta fino a prendermi una palla break. Lui sbaglia un dritto comodo comodo e, incredibilmente, sono di nuovo in partita. Vado a servire, nervosissimo. Non è una questione di numeretti, adesso. È solo una questione di mattoni. Non posso aver costruito tutto ciò invano. Lo mando a servire per restare nel match. 15-30. Dopotutto, sono solo due mattoni, mi ripeto mentre saltello. Rispondo bene, lui attacca ma io rintuzzo bene. Corro ad aggredire la palla mentre continuo a recitarmi: “all in all, just two bricks in the wall”. Destra? Sinistra? Destra? Sinistra? Non so che cosa mi passa per la testa in quel momento, voglio solo mandare la pallina di là. Penso allo scozzese, penso alla Florida, penso a tutto quello che mi riempie la testa nello spazio di un secondo. Sbaglio lato. Lui mette solo la racchetta, la pallina mi scavalca e gira l’inerzia del punto: treinta iguales. Non ci devo pensare, mi dico. Dopotutto, sono solo due mattoni. La mia casetta scricchiola pericolosamente, però.

Decidiamola al tie-break, ok. Lui si allunga, si sdoppia, si smaterializza e riprende tutto. Mi prendo io il primo vantaggio. Ma siamo in altura e si sente perché il vento comincia a soffiare sempre più forte sulla mia casetta. Dopo un po’ mi accorgo che non è il vento. Il responsabile è il lupo dall’altra parte del campo. Ho letto la favola e mi dico che non riuscirà a buttar giù la mia casa di mattoni. Sono stato previdente. Ma Golia ha due polmoni d’acciaio, insiste a soffiare e intravedo le prime crepe. Mi inceppo e così fa la mia fionda. Doppio fallo e tre set point per il lupo. Ne basta uno. Come lui, perdo il pelo ma non il vizio.

Andiamo al terzo. Quel punto fa più male delle crepe che cominciano ad allargarsi. Vado oltre al dolore e do un colpo di reni. Palla break in apertura per me. L’annulla. Costruisco da più di due ore e lui continua indomito a buttar giù tutto. Sono allo stremo delle forze. Ringhio ancora ma lo capiscono tutti che ormai non riesco più a mordere. Non chiudo la volée, lui ci arriva, costruisce un campanile perfetto e io non posso far altro che girarmi ad ammirare tanta maestria edile. Le crepe aumentano e diventano voragini, il lupo soffia senza soste ed io non riesco a rimediare. Uno a uno, butta giù tutti i mattoni. Costernato e inerme, guardo la mia casetta andare giù inesorabilmente. Uno, due, tre game. Golia non perdona. Quattro, cinque, sei game. È finita. Guardo sconsolato tutto il mio lavoro mandato in frantumi. Esco dal campo mentre il lupo, crudele e misericordioso, dice al microfono: “Se lo meritava”. Sì, me lo meritavo.

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