Wawrinka, il miglior fallimento

Australian Open

Wawrinka, il miglior fallimento

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TENNIS – Quarto e ultimo racconto di un’impresa solo sfiorata. A Melbourne Stanislas Wawrinka gioca uno dei migliori match della sua carriera e lo perde di un soffio contro il futuro campione Novak Djokovic. Daniele Vallotto

«Dove sono, non lo so, non lo saprò mai, nel silenzio non lo sai,
devi continuare, non posso continuare, continuerò.»
Samuel Beckett – L’Innominabile

Stamattina è domenica ma mi sono svegliato carico. Sì, non ci vinco da quando lui era ancora un ragazzino ma qualche anno fa gli ho pure strappato un set. E poi vabbè, lui qualche crepa l’ha mostrata, tipo quando ha perso da quell’altro a New York, e voglio dire, lo batto pure io a New York. Un-due, un-due, un-due. In tv danno la finale dello scorso anno. Ricordo che mentre li guardavo mi controllavo la pressione e il battito cardiaco perché quei due ti tengono in apnea non solo quando ci giochi contro. Brrrrr. Guardo Homer mangiare la sua ciambella e ne vorrei mangiare una anch’io. Ma c’è un match da giocare. Sospiro. Come diceva Beckett? “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better”.
Oggi è il giorno giusto, Samuel. Vedrai, lo stendo.

Scendo in campo. Lui non fa una grinza. Non perde da una vita, qui. Il primo punto è mio. Ma il primo game è suo. Oggi c’ho un dritto ottimo, anzi peRFetto. Il rovescio? Che te lo dico a fare. Sul 3-1 30-40 le mie scarpe fanno “sheek”, le sue fanno “sheeeeek” ma il mio rovescio fa “boooooooooom” e la folla esplode. Ho studiato la finale dell’anno scorso, che ti credi. La folla mi ama, la folla mi acclama e allora io mi prendo anche i game che rimangono, così, per non lasciare nulla a caso. Parte il secondo set ma lui non molla, figurati, si prende subito il break perché se c’è uno che non muore mai, quello è lui. Ma io non mollo mica, sa, e me lo riprendo subito. Le sue scarpe fanno sempre più “sheeeeeeeeeeeeek” allora lui decide di cambiarle. Pensa di fregarmi con la scaramanzia, tzè. Lo sai che diceva Beckett? Certo che non lo sai: “Si lamenta della scarpa, quando dovrebbe lamentarsi del piede”. Io non ho nulla di cui lamentarmi e allora riprendo a martellare: destra-sinistra-sinistra-destra. Lui corre come un dannato ma il punto lo porto sempre a casa io. Hai presente il rovescio lungolinea che ti piace tanto? Eccotene uno in formato “senza-una-mano”. Bello, eh? Scaramanzia 0 – Mio Rovescio 1. Mica mi fermo qua, eh. Due ace e un altro rovescio di quelli che piacciono a te. Contento, Samuè? 5-3 30-0. Gli basta? A quanto pare no, non gli basta perché quello rimonta e poi quel nastro maledetto mi butta fuori un rovescio peRFetto. O quasi. Mannaggiatte. Vabbè, rifaccio tutto. Un attimo, però, devo fermarmi e rifletterci un po’.
Ma come? 5 pari! Ma se ho detto che ci dovevo pensare un po’! Vabbè, fa nulla. Me l’aveva detto, Rog, “occhio che quello come ti distrai ti frega, ascolta uno scemo”. E io l’ho ascoltato, giuro, ma neanche me ne sono accorto e mi ha riacciuffato! Quello ributta di là tutto, è un incubo, Rog! Spè, come diceva Beckett? Non me lo ricordo: ho la fronte imperlata di sudore, anche le mani, anche la racchetta, anche la mente, è tutto imperlato di sudore. Metto un ace, non so neanch’io come. Urlo, quell’altro non fa una piega, mai. E alla fine il pugnetto lo alza lui. Col rovescio lungolinea, ça va sans dire. Uno a uno, palla al centro. Il fatto è che io ho corso una campestre, lui s’è fatto una passeggiata al parchetto sotto casa. Questo è spiritato, posseduto, allucinato.

Terzo set, primo game, trenta pari. Mi ributta un rovescio in spaccata che manco la Comaneci. Faccio buon viso a cattivo gioco: servizio, dritto e smash comodo. Ma questo è peggio dell’Ispettore Gadget e allunga la racchetta, il fedifrago. Non importa, bella sbracciata di rovescio, anzi due perché bisogna sempre tirare un colpo in più. Ma la seconda sbracciata è fuori. Vabbè, bravo lui. Non mi scompongo manco un po’, nemmeno al suo balletto evidentemente rubato a Heather Parisi. Ma io non cicalo mica. Anche lui è umano e ogni tanto sbaglia. Per cui mi riprendo il maltolto. Per me niente Heather Parisi, ché ogni energia è preziosissima.  Altro 30-30, altro punto mio. Pensavi che te la lasciassi così facilmente? Te l’ho detto, quest’anno non cicalo mica.
Lui è sempre più fresco, io sbuffo sempre di più. Ok, ti lascio due break point. Il primo non va, che ti credi. Poi io sono uno che si intestardisce e allora rema di qua, rema di là, ma la mia barchetta finisce per schiantarsi contro lo scoglio di gomma. Che si contorce, si piega, si raddrizza, si dimena ma quando ci sbatti addosso scopri che non è fatto di gomma. Due a uno per l’uomo di gomma. Mastico liquirizia, altro che gomma.

Quarto o quinto set? Ho la mente appannata. C’è subito uno scambio a braccio di ferro, tanto per dire. Lo vinco io. Si fa per dire perché ogni punto toglie energie a me e le dà a lui. Ma oggi Samuel è con me, butto il cuore oltre l’ostacolo, anzi, ancora più in là. Rimonto da 40-0 e mi prendo la prima palla break. Mi invento un dritto lungolinea in corsa che manco Rog e poi sbaglio la palla più facile, mandandola in rete, che manco Rog. Non mollo. Siamo al trentottesimo round, pardon, game e la mia gamba scricchiola in maniera raggelante.

Ti prego, ora no, ora no.

Lei, sorda e dolorante, continua a chiedermi una pausa. Gliela devo concedere.  Oggi è il mio giorno, mi ripeto. Ritorno in campo e butto giù pure la “K” dello sponsor, chemmefrega a me dei coreani. Resta solo “IA”, che vuol dire “sì” in tedesco, che è quel che dico dopo aver vinto il punto del set, o della partita, se volete, ma ne abbiamo fatti talmente tanti che non so fare una classifica in questo momento, perdonatemi. Il pubblico apprezza, io lo incito e si va al tie-break. Non serve dire che lui è avanti: li ha vinti tutti e sei quando ci siamo affrontati, anche quand’era piccolo così. Io ho poca energia nelle vene, ma in compenso c’ho Samuel e Samuel mi ha detto di provare ancora e allora proviamo. Rischio il challenge, lo vinco. Poi gli rifaccio vedere cos’è un rovescio lungolinea della mia scuola. Tiè, ragazzino. Lui quasi non ci crede che son risorto e sbaglia un dritto che non sbagliava da ore, anzi, mi spiego meglio, quando ha sbagliato l’ultimo dritto io pesavo un paio di chili in più. Ho tre set point. Il primo non va. Il secondo neanche. C’è l’ultimo. Forse mi gioco l’ultima chance. Gioco bene, lui riprende tutto, becca una, due, tre righe. Io sparo un rovescio incrociato che sembra quasi una resa e invece non lo è. Riprende pure quello ma stavolta il dritto è comodo: il punto è mio, il set è mio, il mondo è mio. Volo, volo su un tappeto di entusiasmo. Sono esausto, vorrei che la partita finisse qua e che mi proclamassero vincitore ai punti ma il tennis non è sport di compromessi. Il pareggio non esiste. Si deve andare al quinto.

Lui è un mostro del quinto set, io non esattamente. Nessuno crede in me, siamo solo io e Samuel lì dentro. Ed io c’ho più adrenalina in corpo che al cenone di Capodanno. Trovo il dritto buono ed è break. Quasi non mi pare vero. Da quel set point sono entrato in un sogno da cui faccio fatica a riprendermi. I coreani hanno riattaccato la K e di là quello ha riattaccato il pilota automatico. Il suo dritto con cui mi riprende è una secchiata d’acqua fredda in faccia.Scheiße!”, urlo, risvegliandomi. Non mollo, non voglio, non posso. L’ho promesso a Samuel. Ho ancora due palle break. Non bastano. Lui si ricarica, tira fuori un urlo da chissà quale angolo del suo immenso cuore e mi rendo conto che mi ha riportato crudelmente nell’arena. Quattro pari. Trovo una frustrata di rovescio da chissà dove, perché ho un immenso cuore anch’io. Poi mi trasformo nel mio nemico, faccio due recuperi contro le leggi della fisica e lui, scosso dalla metamorfosi, sbaglia una volée da quarta categoria. Io non ci credo e infatti non converto le due palle break che sembravano le chiavi per la porta del paradiso. Sono ancora nell’inferno di questo catino bollente. Ne ho un’altra, poi un’altra ancora. Guardo in alto. Samuel, mi stai guardando? Sì, non può che essere così. Ma Samu non vede che la risposta che ho sparato sulla seconda è buona mentre l’arbitro del mio destino decide che è fuori. Sospiro e non ci penso. Gioco da quattro ore, ho speso tutte le energie. Vado avanti di solo istinto.

A quanti game siamo? Undici, dodici, venti? Ventidue. Ho lo sguardo appannato. Lui non sbaglia più, io faccio fatica anche a sedermi. Quaranta pari. La rete è l’unica via. Vengo catturato con una facilità disarmante. Match point. Mi divincolo, annaspo e trovo una prima irrazionale perché questa non è una partita da alambicchi. Non è il finale di una partita di scacchi: sono gli ultimi scampoli di una piéce fatta di pura improvvisazione. Lui ha un altro match point; rispolvero il vecchio amico lungolinea. Il pubblico mi acclama, il pubblico mi ama. Ce n’è un terzo. Tutta l’Australia dorme, tranne Melbourne, che sta col fiato sospeso da ormai cinque ore. Tiro un rovescio incrociato dei miei, poi un dritto lungolinea che mi ha prestato Rog e il gommoso fa tutt’uno con la superficie e li prende entrambi. La rete è l’unica via.

Passami, se ci riesci.

Ci riesce. L’uomo di gomma mette la pallina su un fazzoletto di gomma dove la mia racchetta non può arrivare. Alza le mani al cielo, gli occhi sbarrati. Melbourne ci acclama, Melbourne ci ama. Unosei-settecinque-seiquattro-seisette-dodicidieci. Ho perso ancora. Stringo la mano dell’avversario ed esco senza riuscire a trattenere le lacrime. Come diceva Beckett?

Le altre tre imprese sfiorate:

Ferrer, solo due mattoni

Lamento per Fernando Verdasco

Mezzanotte a Parigi

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