Intervista a John McEnroe «Punto su Serena Djokovic, superati» (Martucci); Flavia, il destino è verde «Sono pronta a stupire» (Crivelli); Storia e stupore Wimbledon può cominciare (Azzolini); Federer carico «Tutto a posto» (D. A.); Nole? Gioca come mangia (Di Caro); Due o tre cose che so di Nole Djokovic (Clerici); Sua Maestà Wimbledon (Merli); Murray L'erba è più moderna. Così vince re Andy I (Bertolucci); Nole e Rafa con terzo incomodo Murray (Valenti)

Rassegna stampa

Intervista a John McEnroe «Punto su Serena Djokovic, superati» (Martucci); Flavia, il destino è verde «Sono pronta a stupire» (Crivelli); Storia e stupore Wimbledon può cominciare (Azzolini); Federer carico «Tutto a posto» (D. A.); Nole? Gioca come mangia (Di Caro); Due o tre cose che so di Nole Djokovic (Clerici); Sua Maestà Wimbledon (Merli); Murray L’erba è più moderna. Così vince re Andy I (Bertolucci); Nole e Rafa con terzo incomodo Murray (Valenti)

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A cura di Davide Uccella

Intervista a John McEnroe «Punto su Serena Djokovic, superati» (Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport, 22-06-2014)

John McEnroe, ecco Mister Tennis.

Quali sono i suoi favoriti a Wimbledon? «Novak Djokovic, ma dovrà giocare molto bene perché l’erba non è la sua miglior superficie. Serena Williams perché è famosa per riprendersi dopo una brutta sconfitta ed è la migliore del mondo e la migliore di sempre».

E’ questo l’unico Slam che Federer può ancora vincere? «Sì, perché la sua miglior superficie è l’erba e ha vinto 7 titoli».

Per John McEnroe che cosa significa Wimbledon? «E’ un posto speciale, unico».

Quali sono i suoi migliori ricordi ai Championships? «Soprattutto le battaglie sul Centre Court con Bjorn Borg».

II suo esordio, nel 1977. «Dovevo essere molto più bravo di quanto pensassi oppure gli altri non erano così forti come credevo, visto che arrivai in semifinale a 18 anni… Sarei voluto essere Bjorn Borg: quante ragazze gli davano la caccia, come se fosse uno dei Beatles!».

Come sono i suoi ritorni a Wimbledon? «Sono sempre eccitato, pensando che commenterò ancora in tv per ESPN e BBC i migliori match e potrò rivedere molti dei vecchi amici».

Qual è il suo posto preferito? «Il Centre Court perché è un posto davvero speciale nel nostro sport, dove io personalmente ho tanti ricordi».

Wimbledon è l’ideale per giocare a tennis? «Sì, per i campi in erba e la grande storia».

Contro quale campione di ieri o di oggi le sarebbe piaciuto giocare, a Wimbledon? «Rod Laver, il mio idolo, o Pete Sampras o Roger Federer, i migliori di sempre sull’erba».

Qual è stato il miglior match a Wimbledon? «La finale del 1980 contro Bjorn Borg perché ebbi la sensazione che elevó il livello del gioco sia mio che di Bjorn. Anche se persi, quel match mi insegnó che avrei potuto guadagnare molto rispetto anche con una sconfitta. E Bjorn mi fece capire che sarei dovuto andare molto più in profondità dentro me stesso, e avrei dovuto desiderare ancor di più la vittoria per conquistare Wimbledon. Come feci nel 1981».

Perché è ancora il n. 1 di questo sport, che cosa pensa di rappresentare per i tifosi? «Sono rimasto nel tennis perché amo questo gioco e adoro ancora la gara. Vorrei pensare che i tifosi capiscono che faccio tutto quello che posso per restituire al tennis quanto mi ha dato. Quando non faccio il commentatore tv nei tornei dello Slam, lavoro e sovrintendo la mia tennis academy alla Randall’s Island di New York City, per attirare più ragazzi ed adulti nel nostro grande sport e per trovare nuovi talenti e magari campioni per New York».

Che cosa ama particolarmente del tennis? «E’ uno sport globale ed un vero test per fisico, carattere, forza mentale e nervi».

Lei che cos’ha imparato, sul campo? «Ho imparato che, se vuoi vincere, devi chiedere molto a te stesso, e che in gara non c’è modo di nascondersi. E non c’è sensazione più bella di giocare al livello più alto delle tue possibilità e sapere che hai dato il massimo. Sono lezioni per la vita».

Perché gioca nell’Atp Tour of Champions? «E’ meglio che lavorare…. Noi giochiamo ancora per il gusto della gara e vogliamo ancora vincere. Vogliamo essere sicuri che valiamo il prezzo del biglietto».

A quale ex pro si è avvicinato, sul Tour? «A Bjorn Borg perché ci siamo sempre capiti e ha un senso dell’umorismo simile al mio».

II 17 e 18 ottobre giocherà a Genova e Milano, che rapporto ha con l’Italia? «Il mio vecchio manager, Sergio Palmieri, è italiano e l’Italia è un bellissimo paese con una grande storia ed ottimo cibo».

Quale suo match ricorda di più, in Italia? «Un’esibizione contro Ivan Lendl quando mi arrabbiai con lui perché non stava giocando bene, e alla fine mi battè. Che pazzia!».

Quale piatto preferisce nella cucina italiana? «Pasta, alla bolognese».

Fabio Fognini ricorda John McEnroe in certi comportamenti, che gli direbbe? «Sii te stesso, fai tutto quello di cui hai bisogno per giocare al massimo. E continua ad esprimere la tua personalità. L’adoro».

L’analisi – Nole e Rafa con terzo incomodo Murray (Gianni Valenti, La Gazzetta dello Sport, 22-06-2014)

Diciamo la verità: ci aspettavamo una stagione più pimpante, con qualche outsider pronto a insidiare i soliti mostri sacri. L’acuto di Stan Wawrinka agli Open d’Australia sembrava di buon auspicio. Le voglie matte dei rampanti Raonic e Dimitrov avevano consolidato la speranza di un parziale ricambio generazionale di cui il tennis avrebbe ormai bisogno. Invece domani comincia Wimbledon, il torneo più bello del mondo, e siamo sempre allo stesso punto. Con il duopolio Nadal – Djokovic che non solo domina la scena ma ha anche scavato un abisso tra sè e gli altri. I due fanno gara solitaria nel ranking. Con il serbo all’inseguimento dal 7 ottobre del 2013 quando dopo 101 settimane da leader ha dovuto cedere lo scettro allo spagnolo. La combinazione che lo riporterebbe numero 1 è presto fatta: vincere, con il rivale diretto eliminato entro i quarti di finale. L’ipotesi non sarebbe poi così strampalata se dessimo un’occhiata agli score delle ultime edizioni: Rafa fuori al primo turno nel 2013 e al secondo l’anno precedente. L’erba insomma pare andargli un po’ di traverso. L’ultimo trionfo risale al 2010. Ma, superficie o non superficie, il Nadal ammirato a Parigi da oggi ampie garanzie sotto il profilo della competitività. Dunque, sarà ancora lotta a due? E’ probabile, con un terzo incomodo: Andy Murray. Questo è il suo torneo, che può risollevarlo dopo una stagione fin qui scialba dove l’unico acuto (si fa per dire) è venuto dalla nomina di Amelie Mauresmo come allenatore che ha sostituito Ivan Lendl. Lo scozzese ha gioco e motivazioni straordinarie per arrivare fino in fondo. Incrociando magari nel suo cammino Fabio Fognini, capitano di una pattuglia azzurra che s’affaccia un po’ timidamente al terzo Slam stagionale. Dietro il suo imprevedibile talento, aspettiamo con curiosità come si muoveranno Pennetta e Giorgi. Presente e futuro del nostro tennis femminile. Per Camila, in particolare, è l’ennesima prova del nove: il nostro talento più interessante fa e disfa che è un piacere. Abbiamo capito che il salto di qualità non dipende dai colpi: quelli ce li ha. I suoi traccianti devono essere accompagnati da una gestione del match saggia e diligente. Cosa che purtroppo ancora manca.

Murray L’erba è più moderna. Così vince re Andy I (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport, 22-06-2014)

Il trasferimento dalla terra rossa all’erba è, da sempre, il passaggio più complicato per un tennista. E, per cercare di raggiungere il massimo rendimento, i giocatori sono costretti ad adottare alcuni indispensabili accorgimenti. Ad esempio, le scarpe da gioco cambiano completamente la suola e vengono equipaggiate con una miriade di gommini per limitare le scivolate e rendere meno problematici gli appoggi. La tensione delle corde cambia e il bilanciamento della racchetta è spostato verso la testa della racchetta per ottenere maggiori benefici dalla battuta. Specifiche esercitazioni aiutano il giocatore a muoversi accorciando il compasso delle gambe così da renderlo più rapido nelle ripartenze, nei cambi di direzione e più preciso nella ricerca della palla. L’erba attutisce i rimbalzi e impone agli atleti di accentuare l’apertura della presa sul manico per usare il taglio slice. Sul verde, sono abolite nella fase di preparazione al colpo le aperture ampie e i movimenti vengono accorciati sensibilmente. Per emergere sul prato, da molti anni abbiamo capito che è inutile descrivere il problema parlando solo del talento e della predisposizione al serve and volley. La verità è che lo stile del vecchio ideale erbivoro è fuori luogo nel gioco moderno. La buona attitudine nei pressi della rete aiuta, ma non a sufficienza. Lo sport non rimane fermo. I servizi sono più veloci e pesanti, con alte percentuali realizzative, le ribattute spesso sono vincenti, si calpesta più a lungo la riga di fondocampo e il colpo al volo viene effettuato in regime di sicurezza. La dimensione del gioco sull’erba è cambiata e gli UOMINI spostamenti verticali hanno ceduto il passo in tante occasioni a quelli laterali e i vincitori dell’ultimo decennio si sono basati su questi concetti. Da allora i classici giocatori da erba hanno raccolto le briciole e sono stati etichettati come dinosauri tennistici. Di questo non si sono accorti i tifosi inglesi che, accecati dalla passione per il serve and volley, per diverso tempo hanno storto il naso di fronte ai trionfi di un gruppo di giovani impenitenti che evitavano con costanza le sortite a rete. Le nuove leve hanno portato novità anche nel tempio della tradizione attraverso una rivoluzione tecnico-tattica. Con la vittoria dello scorso anno di Andy Murray anche i più incalliti tifosi inglesi si sono accorti della trasformazione e abbandonati i merletti e i ricami al volo sono passati ad apprezzare i solidi e consistenti schemi di gioco del loro campione.

Sua Maestà Wimbledon (Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore Domenica, 22-06-2014)

Parte domani l’evento tennistico più celebrato e aristocratico del mondo, con i suoi riti sempre uguali e un fascino intramontabile di Alessandro Merli Ogni quattro anni, Wimbledon si trova alle prese con una concomitanza non del tutto gradita, quella dei Mondiali di calcio. Per decenni, l’AD England Lawn Tennis and Croquet Club l’ha tranquillamente ignorata, forte della convinzione che il pubblico del tennis non abbia nulla a che vedere con quello più plebeo (almeno in Inghilterra) del football.

Quando però anche l’evento tennistico più celebrato e più aristocratico del mondo – in fondo, la patronessa del dub è la regina e il presidente suo cugino, il duca di Kent – è diventato un fenomeno quasi di massa (dai cancelli di Church Road è transitato lo scorso anno circa mezzo milione di persone), a Wimbledon, dove le ragioni commerciali non sono meno forti della difesa a oltranza della tradizione, hanno pensatobene di adeguarsi. Spingendosi al punto, nelle ultime edizioni dei Mondiali, di mostrare un po’ di pallone sul maxischermo di quella che un tempo era battezzata Henman Hill, la collina dei supporter dello sfortunato Tim, appassionati ma senza un biglietto pervederlo sul campo centrale, e oggi rinominata Murray Mount. Quest’anno (inizio domani, conclusione il 6 luglio), il fuso orario diverso con il Brasile aiuta in parte a risolvere conflitti di programmazione e, dopo la sconfitta nel match con l’Italia, non è neppure da esdudere la possibilità che l’Inghilterra vada a casa dopo il primo turno e quindi, a partire dal secondo giorno del torneo di tennis, il problema sia superata Almeno per quel che riguarda la parte più sciovinista del pubblico, che potrà così riservare le sue attenzioni, appunto, a Andy Murray. Il quale con il successo dell’anno scorso ha finalmente risolto lo psicodramma nazionale, che a ogni mese di giugno dal 1936 portava a evocare il fantasma di Fred Perry.

Non è facile per nessuno confermarsi campione a Wimbledon, ma quest’anno, almeno, lo scozzese non si porterà più sulle spalle il peso delle aspettative di un popolo. E per di più si presenterà con la intrigante novità di un coach donna, l’ex campionessa francese Amelie Mauresmo, cheesperienzadivittoria a Wimbledon ne ha, avendo trionfato nel 2006.

Murray ha anzi il vantaggio di arrivare all’ALL England Club non in sordina (il tambureggiamento dei tabloid inglesi non lo permette), ma coperto dalla vasta ombra dei due superfavoriti, Rafa Nadal e Nole Djokovic I due dominano la scena: agiudicare dallafinaledel Roland Garros, è Nadal, che oltre tutto sembra faticare meno nella transizione dallaterraall’erba, ad avere più carte in mano. Appare curioso dire che oggi in coda ai fab four c’è Roger Federer, che sui prati londinesi ha vinto 7 volte e ha appena riconfermato, nel gioiellino di Gerry Weber a Halle, il suo feelingcon l’erba. Ma per lo svizzero, in fondo in fondo, i fab four sono oggi le sue due coppie di gemelli, anche se probabilmente sache Wimbledon è la suaoccasione pervincere ancora un torneo dello Slam e quindi si giocherà le ultime chance della carriera. Nella ricerca di nomi nuovi, i primi che vengono a mente sono Grigor Dimitrov, etichettato a seconda dei momenti come “Baby Federer” o “Mister Sharapova”, e che tra l’altro ha vinto la settimana al Queen’s, e il bombardiere Milos Raonic.

Chi voglia saperne di più di tennis maschile, magari mentre fa la coda, la famosa “queue”, anche di notte, per aggiudicarsi i biglietti dell’ultim’ora, non ha che da sfogliare Atp Story (Effepi Libri, Monte Porzio Catone, aoui, pagg. 168, 12,0o), raccolta fresca di stampa di statistiche dell’era open, compilata con pazienza certosina, passione e competenza da Luca Marianantoni: dalle sue pagine non escono solo collezioni di numeri, ma personaggi e sfide del tennis di ieri e di oggi. Con un tributo all’impareggiabile maestro della statistica sportiva, Rino Tommasi. Nel torneo femminile, spinge invece un’armata di nuova generazione, da Simona Halep a Eugenie Bouchard, a Garbine Muguruza. A Roland Garros, l’argine l’ha fatto Maria Sharapova, che qui festeggia il decennale di una clamorosavittoria su Serena Williams e ha una voglia matta di ripetersi. Le condizioni plico-fisiche di Serena sono una grande incognita, ma, se è a posto (ed è un grosso “se”), è sempre difficile scommettere contro di lei.  Anche nell’anno dei Mondiali, non si vive di solo football.

Due o tre cose che so di Nole Djokovic (Gianni Clerici, La Repubblica, 22-06-2014)

Ho visto per la prima volta Novak Djokovic in casa di Riccardo Piatti, a Como. Si celebrava, il 2 agosto, il compleanno di Rocco, ben noto per esser diventato, tre anni più tardi, il campione moniale under 4. II ragazzo che mi fu presentato da Riccardo era giovanissimo, forse meno di diciott’anni, aveva un’aria spigliata, e come gli rivolsi un benvenuto in inglese, rispose pronto in italiano. «È di Belgrado —mi spiegò Riccardo — e penso di allenarlo, insieme a Ljubicic». Rimasi perplesso, ricordando che Ljubo era stato costretto a prendere l’ultimo aereo da Banja Luka, prima di arrivare da emigrato a Como, ed essere aiutato da Riccardo.

Fu un mio allievo, Riccardo, come me erede di famiglia tessile comacina a memoria d’uomo, e addirittura da me svezzato con la racchetta, senza riuscire a diventare più che un modesto tennista. Forseperquesto, mi dico, èdiventatouno dei primi coach del mondo, non si è rassegnato a esser stato un piccolo giocatore. Vidi poi in gara quel giovane serbo, e come incontrai Riccardo gli dissi «questo diventa come Ljubicic». E lui: «Anchemeglio, ma non sosecontinuerò a aiutarlo». Non chiesi oltre, perché, nel mio mestiere, bisogna fare attenzione a quello che è pubblico e privato. Tirai una Oli-vetti Lettera 22 addosso a un cosiddetto giornalista, a New York, il giorno in cui spiegava che fosse un imperativo del mestiere denunziare la verità e, nel caso, il contagio da Aids del mio amico Arthur Ashe, tradito e poi ucciso da una trasfusione avvelenata. Mi incuriosì, tuttavia, la ragione per la quale il giovane fenomenononvennepiù assistitoda Piatti, ecredetti di rintracciarla — non ne sono sicuro — nell’eccesso di un collettivo che aveva preso a circondare Djokovic via via c he si affermava. Forse, mi dissi, il ragazzo necessita di mamma e papà, fratelli e cugini, coach e sparring partner, fisioterapista e accordatore. Forse è già certo di diventare grande, e imita inconsciamente i Lendl e i Becker. E, guarda caso, me lo ritrovo a cinquanta metri da dove sto scrivendo proprio con Becker, oggi allenatore personale di Djokovic, invecchiato, in tribuna. Sebbene rimanga a chiedermi quale utilità possa avere un ex tennista istintivo, giocatore di poker più o meno fallito.

Ma torniamo indietro, alle affermazioni di Novak ormai chiamato Nole, ai suoi esordi di bambino sotto le sciagurate bombe della Nato, a una maestra che tutti vorrebbero aver avuto, Jelena Gencic. Un’ex tennista curiosamente colta, e psicologa, che vide il piccolo con le manine serrate alle reti metalliche di un campo a Kopaonik, una località montana dove i Djokovic possedevano una pizzeria. Lo vide e capì, con l’intuizione di un monaco buddista alla ricerca del Dalai Lama, che quel bambino possedeva qualità divine.

II giovane Djokovic, concedendomi l’improvvisa fiducia che non è insolita tra chi abbia praticato lo stesso sport, e soprattutto ci abbia passato una vita, mi avrebbe subito confidato di voler imitare nientemeno che Pete Sampras, la divinità tennistica dei suoi anni d’asilo. Mi informò infatti che, alla vista di Sampras, di fronte al televisore di casa, nella paterna pizzeria del suo paesello, aveva deciso, con infantile ispirazione, di diventare eguale all’immagine dell’uomo che gli giungeva via satellite, e insomma, in qualche modo, dal cielo. Continuò raccontandomi, con tutta la fiducia che spesso i giornalisti non meritano, l’acquisto di una racchettina dai colori dell’arcobaleno, e di alcune palline di gomma, con le quali giocava ore e ore, fronte al muro della pizzeria.-Storia che mi venne subito da accostare a molti altri bimbi divenuti poi famosi, da René Lacoste, il cui papà aveva dovuto addirittura far ridipingere il muro della villa avita, al piccolo Lew Hoad, che era perfino riuscito nell’impresa di rendere ondulata la porta in latta del garage di casa, in Australia.

Il bimbo crebbe via via sino a diventare, nel 2005, il primo under 18 tra i primi cento giocatori professionisti del mondo, e a diciannove anni il primo under 20, con la prima finale Slam perduta contro Federer allo Us Open. A ventitré divenne un eroe nazionale conducendo il suo nuovissimo paese alla vittoria in Coppa Davis, nel 2011 si issò per la prima volta a n.1 mondiale mancando di poco il Grand Slam ( cioè il poker dei quattro maggiori torni del mondo) con sole (!) tre vittorie. E, nel 2012 divenne, dopo Federer, il primo capace a rimanere tale per due anni consecutivi.

Curiosamente, fermandomi qualche settimana fa all’aeroporto di Heathrow, mi son trovato davanti un libro che ne riportava l’effige, e l’ho acquistato. Narrava più o meno la storia che conoscevo superficialmente, con un titolo dal duplice significato, Serve to win, e cioè un “servizio per vincere”. o anche “essere utile per vincere”. L’epigrafe, infatti, era firmata da chi di tennis fu soltanto spettatore, e recitava “Ci guadagniamo da vivere con ciò che facciamo, ma ci costruiamo una vita con ciò che diamo”, Winston Churchill. Questo titolo, Serve to win (tradotto nell’edizione italiana di Sperling & Kupfer in U punto vincente), per prima cosa mi era venuto in mente dopo la finale vinta da Nole a Roma in maggio, contro il suo tradizionale avversario Rafa Nadal, col quale, duello omerico, già si era incontrato quarantuno volte, prima di raggiungere la quarantaduesima quindici giorni più tardi, al Roland Garros. Mi era venuto in mente perché, all’entusiasmo del pubblico romano, Nole avrebbe fatto seguire una umana richiesta d’aiuto, per gli alluvionati jugoslavi ( parola che non mi scappa a caso ). Ha detto infatti iltennista, ma prima del tennista l’uomo, a Parigi: «Ho donato i 150mila euro di premio, dopo che avevo seguito giorno per giorno le news sull’alluvione nel mio Paese». Aggiungendo: «Lo chiamo il mio Paese, perché non mi sarei mai aspettato, dopo annidi guerra, che Bosnia, Serbia e Croazia si ritrovassero solidali in un disastro non dissimile dai disastri bellici passati. Non sto dicendo che dovremo appartenere alla stessa nazione, ma spero tanto che una solidarietà, un’umanità simile continui per sempre».

Nel libro che ho acquistato, Djokovic non parla soltanto della sua infanzia, dei suoi maestri, dei parenti, e accenna alla sua compagna Jelena Ristic, che gli ha dato un bambino. L’aspetto curioso del libro è l’incredibile importanza dedicata all’alimentazione, secondo Nole la principale causa dei risultati che lo hanno spinto verso il Number One. Entra in gioco, in simile vicenda nutrizioni-stica, il Dottor Cetojevic, che, dopo un’anamnesi, si èconvintoehaconvintoNoleche il glutine, e cioè la “colla” contenuta in cereali come frumento, segale e orzo, gli era più nociva del dritto di Nadal. Dopo qualche scettico tentativo, Djokovic avrebbe finito per credere che la dieta anti-glutine lo rendeva «più lucido nel pensiero, e positivo nell’emotività».

E quindi questo figlio di pizzaioli avrebbe rinnegato le proprie origini alimentari, senza che il Dottor Cetojevic, che psicologo non era, pensasse minimamente a spiegazioni freudiane. Poiché sono io stesso un dilettante, semplice lettore di Freud, mi sonodeciso, con qualche riluttanza, a chiedere a Djokovic, durante le pubbliche conferenze stampa che i miei più brillanti colleghi spacciano per interviste, se pensava che una dieta potesse condurmi alfine a un successo letterario, successo invano perseguito da quando fallii come tennista. Simile domanda ha forse giustamente provocato l’ilarità generale, soprattutto quando Djokovic, con il suo straordinario humour, ha risposto «senza glutine prenderai il Nobel, caro Gianni».

Mentre pensavo ormai di iniziare una die-tache mi avrebbe certo condotto a notorietà internazionale, doveva verificarsi, contro un’altra mia ipotesi e le vivissime speranze di Nole e del suo intero Paese, la sua: per certi versi sorprendente, sconfitta contro l’ormai storico avversario Rafa Nadal, nell’ultima finale del Roland Garros, in quello che è divenuto il duello omerico contemporaneo. Nel rivedere, com’è tipico del mestiere, le quarantadue partite tra i due primi tennisti del mondo, mi ero reso conto di un curioso particolare sfuggito agli statistici, e cioè di unaripetitivitàdivisa in quattro blocchi, l’ultimodei quali, di quattro match consecutivi, era a favore di Nole. Mi avventurai allora, dopo aver osservato i match eliminatori, in un pronostico favorevole a Djokovic, immaginando che il suo tradizionale avversario maiorchirio stesse ormai pagando gli eccessi di fatica di una carriera che gli ha compromesso l’uso di un ginocchio, reso agibile soltanto da continue infiltrazioni. Ma, dopo un avvio di partita che aveva seguito le mie sibilliche previsioni, doveva verificarsi un improvviso ribaltamento tattico, che avrebbe non solo sorpreso l’osservatore, ma anche il campione cui è dedicata la nostra attenzione. E il sorprendente Nadal avrebbe fatta sua la quarantaduesima partita.

Non è facile, anche per lospecialista di una professione, com’è Djokovic, giungere a un’analisi oggettiva, specialmente nelle ore che seguono una sconfitta, e la sua giustificazione di fronte a una platea di scribi affrettati, e privi del tempo di riflettere. Nelle equilibrate risposte di Nole, si introduceva, e non certo per scusa, una perplessità riguardo alla condizione fisica, che era parsa brillante per tutto il corso del torneo. Nel suo buon inglese, una dellecinque lingue in cui si esprime con dignità, avrebbe ammesso di essersi sentito fisicamente a disagio nel corso di un terzo set che avrebbe rappresentato la svolta decisiva del match. Ma non avrebbe saputo approfondirne le ragioni. In assenza del Dottor Cejotovic, confermate le certezze della dieta quotidiana, mi sono domandato se, tra tutti i col laboratori dello staff di un campione non fosse ormai il caso di inserire un analista. Freud non si era certo segnalato nella qualità di tennista. Però aveva giocato a tennis. Porterò con mea Wimbledon queste note, da domani, per sottoporle a Djokovic, in attesa di una riedizione ampliata delle sua biografia. Dopo il mio Nobel, va da sé.

Nole? Gioca come mangia (Eliana Di Caro, Il Sole 24 Ore Domenica, 22-06-2014)

Quando a Novak Djokovic capita di giocare con jo-Wilfried Tsonga, deve essere particolarmente motivato. Non può dimenticare, infatti, quel 27 gennaio 2010, il giorno in cui, ai quarti di finale degli Australian Open, in vantaggio per due set a uno, dovette cedergli al quinto, uscendo psicologicamente disfatto dal campo. Perché in quella partita, prima che dal francese, era stato sconfitto da se stesso. O meglio dalla «forza invisibile che sferrò il suo attacco» eche all’improvviso «non mi fece più respirare», rendendolo molle, pesante nei movimenti, confuso nelle scelte, fino a compromettere irrimediabilmente il match.

È questo il punto di partenza del libro che il campione serbo, testa di serie numero 1 a Wimbledon da domani, ha scritto per raccontare come ha scoperto il suo problema di alimentazione, i cui effetti si erano in realtà già manifestati: aveva 19 anni nel 2006, quando aveva conquistato la finale dell’Open di Croazia contro Stani-slas Wawrinka e perse perché «la Maledizione, quella forza misteriosa che mi prosciugava le energie senza preavviso, si era nuovamente abbattuta su di me». La Maledizione, racconta nel Punto vincente, era il glutine, contenuto in pane, pizze e pasta mangiati da bambino e adolescente a Kopaonik, una località sciistica dove trascorreva l’estate e i genitori avevano una pizzeria, e nella Belgrado colpita dalla guerra. Il suo corpo non ne poteva più.

La diagnosi l’aveva fatta un altro serbo, guardando quella famosa partita in tv a lymila chilometri di distanza, mentre era in vacanza a Cipro. Igor Cetojevic, un nutrizionista, aveva infatti riconosciuto nel calo fisico di Nole i sintomi di affaticamento e difficoltà respiratoria tipici dell’intolleranza alimentare. E i test cui il giocatore poi si sottopose confermarono quell’intuizione. Di là sono cominciate una nuova vita e una sorta di missione per Djokovic: non solo mangiare in modo corretto per giocare al meglio (cosa che è puntualmente successa, con la perdita di quattro chili, ritrovate agilità e freschezza, una stagione trionfale l’anno dopo la sciagurata sconfitta con Tsonga, l’ultimada allora contro il francese), ma anche far capire al mondo che una sana alimentazione è più del nutrimento di ciascuno di noi. «Mangiarbene significa sentirsi bene» e porre le precondizioni per conquistare i propri obiettivi che possono essere professionali, sentimentali, puramente edonistici. II tennista fa in modo di curare personalmente la propria alimentazione, cucinando da sé quello che mangia durante i tornei, dopo aver messo a punto con la chef e saggista Candice Kumai una serie di ricette riportate alla fine del libro. La sua famiglia ha addirittura aperto unacatena di ristoranti gluten free in Serbia.

Ma quello che più colpisce del Punto vincente non è tanto il tema in sé, a volte trattato in modo un po’ naïf e con un approccio eccessivamente militante (forse in parte dovuto anche alla ripetitività di alcuni passaggi). Quello che impressiona ha a che vedere con la disciplina, la pervicacia e la lucidità nel perseguire l’obiettivo che Djokovic ci fa vedere anche in campo. All’inizio del libro rivela di aver deciso di voler diventare un campione quando aveva 6 anni guardando in tv Pete Sampras che vinceva a Wimbledon, in una Serbia in cui il tennis era uno sport praticamente sconosciuto. Chapeau.

Federer carico per Wimbledon «Tutto a posto» (Daniele Azzolini, Tuttosport, 22-06-2014)

Le giornate di vigilia, a Wimbledon, sono dedicate a cianciare, ai giocatori piace. Si rilassano. E finiscono per aggiungere qualche sottolineatura a ciò che hanno detto già mille volte da inizio stagione. Su di esse gli osservatori misurano gli ardori, e stilano la griglia di partenza. Incuriosiscono i connubi più erbivori, quello fra Djokovic e Becker e l’altro, tra Federer e Edberg. Il primo impreziosito da una intervista rilasciata da Boris al Time, in cui il tedesco si stupisce quando gli chiedono che cosa ci faccia accanto a uno come il serbo, differente da lui in tutto. La risposta è secca e molto autoreferenziale, ma Boris, potete immaginarlo, è cambiato solo nel fisico e nel volto sempre più rubizzo, da binaio in Oktoberfest «Sembra che non sappiate che io di tennis me ne intendo, e molto. Mi considero uno dei migliori. Lo sono stato da giocatore, da coach, da organizzatore e anche da commentatore tv. Novak cercava uno che avesse l’occhio del campione, e io ce l’ho». Più saggio, Djokovic fa sapere che c’è «grandissima stima», e che Becker è utile tutto l’anno, per ciò che gli dice e per come ha saputo calarsi nello sta «ma a Wimbledon, averlo accanto, è speciale. E’ il suo torneo, lo ha vinto 3 volte e ha giocato altre 3 finali. Preziosi i suoi consiglb . Noie è acciaccato, preoccupato per il pol- Faderer carico per Wimbledon ((Tutto a Poston so, confuso per la sconfitta al Roland Garros. Minimizza, ma sa di aver commesso un errore dovuto alla presunzione, e se non si dà del fesso pubblicamente, non è detto che non lo pensi.

Cresce poi l’attenzione su Federee. A memoria di Championships mai aveva rilasciato dichiarazioni così tranquillizzanti sul suo stato di forma, e sulla caccia all’8° trofeo. «Tutto a posto. Non c’è una parte di me o del mio gioco che mi preoccupi. Sento la risposta al servizio, il serve and volley funziona, come il chit-to e la battuta So di avere una buona possibilità, quest’anno. Arrivo sereno, col titolo di Halle in tasca. I anno scorso fu tutto più difficile» Perse da Stakhovsky… «Ho giocato molte più partite, quest’anno. L’unico stop cui sono stato costretto è stato il più bello, sono nati i miei gemelli». Ha lasciato il Board ATP, di cui era presidente dal 2008. Ha altre cose cui pensare e si è stufato di avere contro tutti gli altri, Nadal in testa. «Quello che potevo fare l’ho fatto».

Le ultime ore segnano pure un addio. Martina Hingis e Sabine Lisicki hanno chiuso la loro collaborazione per il doppio, con ringraziamenti reciproci Ma è chiaro che la tedesca finalista un anno fa, ha qualcosa da rimproverare alla svizzera. Ora Martina potrebbe chiedere alla Pennetta di giocare assieme il doppio. Hanno provato a Eastbourne e vinto.

Storia e stupore Wimbledon può cominciare (Daniele Azzolini, Avvenire, 22-06-2014)

L’ atmosfera da museo vivente del tennis, da esposizione penna-nente acielo aperto, aiutaWimbledon confeziona il suo torneo fra storia e stupore. Nella consolidata stratigrafia dell’Aeltc, il circolo che dal 1877 ospita i Championships, dal 1922 in Church Road, la Storia traspare dai particolari, e invita il frusciante andirivieni dei visitatori a conoscerla sin dalle fondamenta, come gli anelli del tronco di una sequoia centenaria. Ma è una Storia in divenire, che lascia il segno e aggiunge ulteriori dettagli destinati a far breccia nel libro dei ricordi; e anche questo si avverte nell’osservare un luogo che sembra immutabile ed è, invece, in continua trasformazione.

Senza spingersi troppo oltre, chi ha ancora negli occhi i tornei di un’epoca appena precedente, quando il Centrale aveva al suo fianco il campo numero uno, quasi fosse una dependance, e il “due” era tirato su a mattoni dipinti di verde, temutissimo dai giocatori perché considerato una sorta di camposanto delle proprie aspirazioni, non può che sbalordire dinanzi alla riedificazione di un torneo che ha innalzato tre nuovi stadi ponendo mano a interventi ingegneristici di notevole spessore (fra questi il tetto mobile sul Centrale), tali da trascinare i 17 ettari di verde ai piedi dell’impianto nella più imprevedibile modernità, trattenendo però quel fascino da antico maniero che aleggia su tutti gli edifici.

A Wimbledon si entra con il cappello in mano e in punta di piedi. Si visitano le vestigia del passato, ma ci si chiede anche quale sarà l’elemento sbalordente della nuova edizione. The Queue, la coda, è antica quanto il torneo, ma nuovo è il corteggiamento che riceve dagli sponsor. La coccarda verde e viola, con su scritto “Io ho fatto la Coda” fu inventata negli anni Settanta da qualcuno che aveva ben compreso il senso di un evento così, l’invito all’attività fisica nella natura disciplinata però da regole che fossero condivise da tutti. Compresa quella di aspettare il proprio turno. Ma anche la coccarda, oggi, porta il marchio di uno sponsor, un caffè italiano, che offre ristoro agli incolonnati, con i suoi campioni (Ivanisevic, Panatta, Cash) travestiti da occasionali barman.

La Storia non sfugge al marketing, nemmeno a Wimbledon. Ma una novità c’è sempre stata, ogni anno. Giunta direttamente dai campi o dal contorno che disegna l’immagine del torneo. Una volta il “gruntometro , la macchinetta per misurare in decibel le urla delle tenniste, un’altra le giacche con le insegne del torneo indossate da Federer, e ancora, le sconfitte di Nadal contro Rosol e Dards, e i12001 di Ivanisevic, che si avviò dalle qualificazioni per salire su su, fino a vincere un torneo che gli era sfuggito tre volte quando era giovane.

Nuova fu la prima e fin qui unica seduta notturna del torneo, sotto il tetto chiuso per l’occasione, con Murray in campo e il pubblico intenzionato a non alzarsi fino a partita conclusa. Gli organizzatori compresero e lasciarono proseguire. Nuovissima la vittoria dello scozzese, l’anno scorso, sempre che i 77 anni trascorsi dall’ultima ottenuta da un britannico (Perry,1936) vi sembrino una buona scusa per dimenticare il passato.

E quest’anno? Se fossero le donne la grande novità? Nel loro insieme, intendiamo. Le nobili dame che nel torneo hanno costruito la camera, e le giovani scalpitanti, che premono per la promozione. Le donne che fanno i coach (Amelie Mauresmo oggi al fianco di Andy Murray), che aprono varchi importanti in una professione nella quale finora non sono mai state considerate. Le donne innamorate, con le loro storie un po’ arruffate di filarini in corso (Pennetta e Fognini, Hingis e Robredo, la Krajicek che ha appena ricevuto regolare proposta di matrimonio dal fidanzato inginocchiato sul campo in erba di ‘s-Hertogenbosch, a conclusione di un match) e di addii improvvisi, a un passo dalle nozze (Caroline Wozniacki, piantata dal golfista Mcllroy in fuga dopo le pubblicazioni del matrimonio).

Sembra il loro anno, vi sono indicazioni precise, a Parigi le ragazzine hanno spopolato eliminando una a una le più ford, tranne la Sharapova. E Wimbledon le attende per le necessarie conferme, infoltendo le rubriche glamour sui quotidiani, dato che non di solo tennis vive il torneo dei tornei, l’unico che disponga di una “Viewing Lane” sul limitare degli accessi al Royal Box, dalla quale è consentito sbirciare gli arrivi dei nobili invitati e commentare, con sarcasmo, se vi va, gli spericolati cappelli delle signore. Serena Williams e Maria Sharapova sono attese a un confronto nei quarti di finale. Fu la finale del 2004, vinta dalla russa diciottenne. Dieci anni dopo, ancora loro, ma senza l’allure di una volta. C’è sempre una novità, a Wimbledon.

Flavia, il destino è verde «Sono pronta a stupire» (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport, 22-06-2014)

Esistono i luoghi del destino. E allora doveva per forza andare così: il primo Slam dopo aver ritrovato la corona di più forte giocatrice italiana non poteva che essere Wimbledon, per Flavia Pennetta. Cioè su quell’erba leggendaria che solo un anno fa, nonostante gli ottavi raggiunti per la terza volta in carriera, stava per costringerla al passo più triste, il ritiro dall’agonismo per quel polso destro che non cessava di mandare tremende scosse di dolore.

Fiducia Fermatasi alla soglia del baratro, la brindisina a poco a poco ha riscoperto il piacere di divertirsi, riuscendo a convivere con le pene di un infortunio ormai irrisolvibile e, a mente finalmente sgombra, ha cominciato a produrre probabilmente il miglior tennis della carriera. Dunque, il più prestigioso club del mondo può diventare la vetrina di un’altra brillante tappa della seconda vita agonistica di Flavia, che per l’approccio a Londra ha scelto il torneo di Eastbourne, che l’ha respinta in singolare ma l’ha lanciata in doppio (in coppia con la Hingis) e comunque le ha lasciato dolci sensazioni: «Il rientro sull’erba mi ha dato riscontri positivi ed il servizio continua a darmi soddisfazioni. Sono contenta di come sto lavorando in vista di Wimbledon». Donne d’Italia, una garanzia. Due anni fa, proprio la Pennetta tenne a battesimo, suo malgrado, l’esplosione del talento tanto atteso di Camila Giorgi, che dopo essere uscita dalle qualificazioni si prese il derby al primo turno e si proiettò fino agli ottavi, dove fu fermata dalla Radwanska. La maceratese di radici argentine arriva a Wimbledon con la miglior classifica di sempre (42), tre vittorie nell’anno contro giocatrici tra le prime 10 e la solita combinazione esplosiva di inimitabili prodezze e cali di tensione: «L’erba mi piace, ci sono tante avversarie fortissime, ma come sempre io devo restare concentrata sul mio gioco».

Incognita Come la Pennetta (e la Vinci), l’anno scorso si spinse fino agli ottavi anche Seppi nel torneo maschile. Andreas, per risultati e caratteristiche, è l’azzurro che meglio si adatta alla superficie: vincitore a Eastbourne nel 2011 in quello che fu il primo torneo vinto in carriera, finalista l’anno successivo, sui prati sa muoversi bene grazie al rendimento costante del servizio e alla solidità dei colpi a rimbalzo, dalla risposta al passante. L’atmosfera di Wimbledon, dove è accreditato della testa di serie numero 25 nonostante il numero 34 in classifica, dimostrazione del valore sui prati, potrebbe risvegliarne sensazioni e stimoli recentemente un po’ sopiti. Resta un’incognita invece il miglior fico del nosto bigoncio, Fabio Fognini, che non gioca dal Roland Garros e dopo un breve periodo di vacanza a Ibiza con la fidanzata Pennetta è andato direttamente a Londra ad allenarsi. Il ligure aveva sicuramente bisogno di rigenerarsi dopo i primi sei mesi a tutta che lo hanno portato a ridosso della top ten, ma l’erba, nonostante il terzo turno dei 2010, è ancora un po’ indigesta per il tipo di gioco di Fabio, che va in pressione costante sui colpi a rimbalzo. Però il suo talento può abbagliare ovunque.

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